Abitare il mondo: con o senza Dio?
Il volume «Abitare il mondo: con o senza Dio? La morale tra panteismo, teismo e ateismo» pubblica le sei relazioni svolte alla XVII edizione delle “Vacanze filosofiche per non filosofi” della scorsa estate a Vallombrosa. Strumento proficuamente rapsodico che espone integralmente tutte le relazioni, a beneficio di chi - come me - non era presente ai lavori e desideri acquisirne i contenuti.
Recensisco il volume, operazione che è mero surrogato del surrogato: l’originale è la settimana filosofica, primo surrogato il libro, secondo surrogato le recensioni del libro. Meglio, dunque, partecipare personalmente alla settimana, in subordine leggere il libro e, ultima spiaggia, un’occhiata a quanto segue.
La relazione di Elio Rindone espone lineare -coprendo più di un terzo dell’intero libro- le differenti sorgenti della morale occidentale che hanno generato due fiumi distinti: da una parte la morale autonoma e egocentrica dei greci con i suoi affluenti, mulinelli e turbinii, dall’altra la morale veterotestamentaria invece teonoma e allocentrica, che nel suo svolgersi subisce rivoluzione di percorso con Gesù di Nazareth. Corsi d’acqua che poi si congiungono nel cristianesimo medievale producendo una teonomica ed egocentrica poltiglia nella cristianizzazione di Aristotele implementata da Tommaso d'Aquino.
L’esposizione filosofica e laicamente teologica di Rindone appare didattica: in poche decine di pagine è offerta al lettore, non filosofo di professione come il sottoscritto, la possibilità di apprendere agilmente i fondamenti e gli sviluppi storici della filosofia morale. Nel contempo è dialettica, stimolante e propositiva, nel suo confrontare criticamente le etiche atee, teiste e panteiste, dove virtù e bene poggiano e si sviluppano sopra differenti e articolate concezioni, e palesi, e criptiche:
piacere nel fare il ‘bene’ per soddisfare il desiderio personale;
criteri morali, virtù e beni, giustizia e amore, oggettivi e/o soggettivi;
coscienza morale intrinseca oppure precettistica;
amore come eros o agape;
beni e fini assoluti o parziali;
pescando il meglio da tali tradizioni Rindone propone una morale che, mondata da egocentrismi e teismi, possa risultare autonoma e nel contempo allocentrica.
L’intervento di Mario Trombino inizia soffermandosi sul peculiare codice linguistico del movimento culturale dell’Umanesimo. Gli umanisti rifiutarono il linguaggio del loro tempo (XV secolo) per tornare a quello del primo secolo avanti Cristo. Nessuna nostalgia e neppure snobismo, ma operazione consapevole di avanguardie illuminate tese a costruire e esprimere, con il maggior ordine fattibile, l’umano pensiero attraverso un linguaggio il più possibile razionale, preciso e congruo. Trombino, scorge parallelismo e filiazione tra il movimento quattrocentesco dell’umanesimo e gli attuali tecnici elettronici che implementano new media, somiglianti per la rigorosa precisione e innovazione, seppur caratterizzati da semantiche alquanto differenti. In questa ottica emerge una diretta correlazione, e anche coincidenza, tra il pensiero razionale prodotto dalla mente e il calcolare, applicabile alle macchine, all’uomo e, eventualmente, a Dio. L’incremento della quantità degli elementi di calcolo disponibili nell’elaborazione mentale del soggetto, o dell’ente, ne determineranno la specifica potenza fino al raggiungimento di ipotetiche, paradivine o divine, onnipotenze e onniveggenze, ma una elaborazione per risultare efficace non può svolgersi a capocchia, necessita di un rigoroso linguaggio ben costituito, istituito e ordinato, nonché razionalmente codificato. Una apoteosi di libertà realizzabile nella somma costrizione, dove libertà e necessità si trovano a coincidere.
Trombino nell’indicare le potenzialità di tale approccio ne individua le insidie correlate all’abrogazione delle categorie di bene e male.
A causa della influenze platoniche, e ancor di più neoplatoniche, non tutti gli umanisti del quattrocento assimilavano il pensare al calcolare, in quanto vedevano il pensiero costituito anche da eros, dunque dalla potenza della bellezza: possibilità di personale, umana e divina, sovrana creatività. Pensare non è solo calcolare.
Augusto Cavadi ripercorre in tre tappe - Cartesio, Spinoza, Kant- un sentiero attraverso l’etica moderna.
L’interpretazione razionalista e matematica di Cartesio, che incontriamo nella prima tappa, appare non del tutto adeguata per formulare una morale compiuta. Il metodo cartesiano pur sufficiente nel creare e indagare una metafisica e una fisica, sembra generare un’etica sì esistente, ma solo abbozzata, parziale e provvisoria. Risulta arduo, attraverso il metodo “geometrico”, ricapitolare a sé l’intera realtà e le sue imprevedibili variabili, sia intrinseche, sia generate dalla complessità mutevole degli umani accadimenti e dalle soggettive sensibilità.
Spinoza, nella seconda tappa, con la metafisica monistica propone un’etica matematica più salda e dimostrabile, dove l’uomo trova personale realizzazione e felicità armonizzandosi virtuosamente a Dio e Natura, medesimo Ente dalle infinite dimensioni. Un’etica, tutto sommato, deterministica nel suo inglobare in un predeterminato e sommo “funzionamento” l’universo e il mondo intero con tutti i suoi abitanti, fagocitando nella sua perfetta e eterna armonia qualsiasi iniziativa anarchica e autonoma, esautorando il soggetto dalla sua sovranità.
Nella terza tappa Kant introduce un’inedita concezione di morale invertendo la sequenza classica di metafisiche che generano morali, come nelle due tappe precedenti, e proponendo una metafisica conseguente alla primaria esigenza etica espressa da un imperativo morale che esige stima e chiede dignità per l’Umanità, per l’Altro, per me stesso. Un imperativo categorico che è chiave per conoscere la libertà umana; libertà che, nel contempo, si rivela condizione ontologica dell’imperativo stesso. Ne consegue una concezione etica universalizzabile con profitto perché poggiante su un “fatto della ragione” che nel rivolgersi al libero arbitrio di ciascuno indica l’Altro come scopo invece che semplice mezzo. Eppure la libera adesione a tale concezione etica non sempre garantisce la felicità personale in presa diretta, su questa terra può accadere che proprio chi la rifiuti se la passi meglio. E’ dunque necessaria e ragionevole una visione che trascenda i confini di tempo e spazio del mondo naturale.
Alessandro Roani affronta l’etica della giustizia e della compassione attraverso Schopenhauer che interpreta l’essenza della realtà come Volontà. Una Volontà vitale intesa come cieca forza universale propulsiva; un Noumeno conoscibile, assoluto e onnipervadente che potente permane indenne e indifferente alle umane rappresentazioni, vicissitudini, passioni e che, anzi, - agli antipodi da ogni idealismo- strumentalizza per autoperpetuarsi. In tale condizione per trovare un po’ di quiete bisogna scendere dal treno (dell’Universo)? Schopenhauer scorgendo nel suicidio una cripto-riaffermazione della Volontà indica tre strumenti alternativi per placarla e raggiungere parziale emancipazione: l’arte, la morale e l’ascesi, ma ancor più efficace è il personale omettersi per fondersi nel Nulla, come insegnano numerose religioni e filosofie orientali.
La relazione di Francesco Dipalo è la più estesa dopo quella di Rindone. In una articolata analisi esamina le possibili prospettive etiche della postmodernità, dopo la nietzscheana morte di Dio, avvistando una proficua e universale soluzione a Est, nell’Oriente buddista, del quale espone i tratti fondamentali e correlate esistenziali indicazioni metodologiche. Inizia annotando che, nel pensiero moderno, gli ateismi sono da iscrivere, per diretto correlato antagonismo, ai teismi. Ateismi che inabili nell’implementare un peculiare, autonomo e inedito pensiero, sussistono reagendo alla tradizionale filosofia Scolastica. Con Nietzsche, nel postmoderno, Dio soccombe per davvero e i valori supremi crollano con lui nella società, nella politica, nella morale, nella vita degli uomini d’Occidente. Momento di transizione cruciale a seguito di un angosciante mutamento epocale che esige risposte adeguate; condizione annichilente e nel contempo favorevole e stimolante. Nel complesso panorama nichilistico Nietzsche propone una soluzione attiva attraverso la trasvalutazione dei valori. Una esaltazione autoredentrice nella e della “terrestrità” (volontà di potenza, Oltreuomo, eterno ritorno). Gioioso fanciullesco esperimento che nell’atto di implementare il “proprio” mondo produce istantanea soddisfazione.
Un valoroso contributo alla lettura della postmodernità dei nostri giorni viene dal sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman, che utilizza la metafora di postmodernità liquida correlata al collasso delle "grandi narrazioni" con la conseguente globalizzazione, standardizzazione, omologazione e “omogeneizzazione" dell’individuo. Quali le conseguenze per l’etica? Nessun orizzonte tragico: nella postmodernità l’etica diviene soggettiva arte creativa del vivere, un semplice e fecondo “diventare quel che si è”.
Anticipata dalla focalizzazione di un Nulla eticamente positivo Dipalo termina con una sommaria esposizione della filosofia buddista a tratti catechetica, a tratti ben comparata all’esistenzialismo.
Giorgio Gagliano analizza il percorso di formazione e dissolvenza dell’Io nella storia filosofica e sociale. Inizia disgiungendo i Greci della storia dalla grecità artificiosamente implementata dalla filosofia occidentale. Annoto contiguità tra tale giudizio e le tesi espresse nel saggio storico-filosofico di Costanzo Preve (1943-2013) «Una nuova storia alternativa della filosofia».
Gagliano ipotizza che per i Greci l’Io, il Soggetto, era considerato ente ontologicamente irrilevante. Il singolo uomo, in sé insignificante, trova identità solo nell’appartenenza sociale al “noi” della polis comunitaria. E’ Socrate che infrange l’identificazione con la collettività immettendo la concezione dell’Io e della correlata “anima” individuale, ideazione che contiene in nuce la successiva elaborazione storica che porterà gradualmente alla concezione dell’Io ultrametafisico glorificato nell’orizzonte culturale ebraico-cristiano. E, proprio da quelle parti, lo spuntare -“eterogenesi dei fini” - dell’egoismo.
Nella postmoderna morte di Dio anche l’Io accusa il colpo e tende a dissolversi e
Gagliano, nel considerare i nostri giorni, chiude amaro: «Siamo ormai soltanto egoisti senza Ego.»
Se siete arrivati fin qui vi ringrazio e vi dico la mia. Nel percorso mi sono sentito vicino a tutti quelli che hanno valutato l’uomo un po’ più del due di picche, specialmente Trombino grazie all’Umanesimo che ha proposto. La relazione di Dipalo l’ho avvertita tra le più schiette e insieme la più insidiosa nel suo attardarsi descrivendo il buddismo con correlate “Tecnologie del sé” annunciate ecumeniche, anti-dogmatiche e filosoficamente aperte. Una di queste indica una specifica postura corporea. L’ancestrale citazione prescrive di sedersi su un apposito cuscino rigorosamente rotondo per poi toccarsi i denti anteriori con la lingua. Forse un po’ poco per emancipare i postmoderni dalla perdita di Dio. Sono convinto che le scorribande apportino valore a una filosofia che si definisce “pratica”, dunque il problema non è epistemologico ma di merito: a che pro attaccare frontalmente l’Io e l’umano pensiero? A che pro mettere la testa (il pensiero) per terra? (altra citazione metodologica buddista). Rinunciare al pensiero equivale a sottomissione in presa diretta. Faccenda pericolosa produttrice di estasi e terrorismi.
Abitare il mondo: con o senza Dio?
La morale tra panteismo, teismo e ateismo
A cura di Elio Rindone
Diogene Multimedia 2014
Regni distinti
Una invettiva satirica valorosa, dunque efficace e divertente, per dimostrarsi tale necessita di un concettualizzare che risulti un minimo congruo, se non nella forma perlomeno nel merito, all'oggetto criticato.
Se tale connessione è deficiente il soggetto satireggiante e l'oggetto satireggiato permarranno in regni distinti e plasticamente estranei; il primo auto-danneggiato, il secondo indenne:
La Trinità (1422), Andrej Rublëv
Trinità, caricatura di Luz (Renald Luzier) apparsa su Charlie Hebdo
L’utente
Mica sono la stessa cosa il figuro, l’utente, il consumatore, il personaggio, l’individuo, il cittadino, la persona, il soggetto e il signore, ma quello messo peggio è forse l’utente.
L’utente non ha faccia ed è gonfiabile: nello stato originario misura quanto il suo corpo, ma collocato dentro un autoveicolo s’ingrossa per misurare quanto l’automobile e, così espanso, si muove nel mondo. Posto nella sua abitazione la riempie di tutto quello che gli dicono poi si dilata quanto l’immobile, se possiede un giardino accresce quanto il giardino, se ha un parco quanto il parco. Lì, bello grosso, fa erigere all’ingresso della proprietà un cancello bello grande per mostrare dove inizia a chi volesse misurarlo.
Impotenti onnipotenze
Esausto di feste ho rivisto, stravaccato sul divano, Tom Hanks in Forrest Gump che mormora davanti alla tomba della sposa defunta:
«Non so se ognuno abbia il suo destino o se siamo tutti trasportati in giro a caso come da una brezza… può darsi le due cose, forse capitano nello stesso momento.»
Lì per lì mi era parsa soluzione -naif ma efficace- di una aporia cruciale, ma nel ripensarci la questione si è complicata: tutta colpa della parola “destino”, in quel suo significare predeterminazione dettata dalla volontà superiore di un qualche onnipotente regista occulto, buono o malvagio che sia; condizione di sudditanza mica tanto diversa dal trovarsi in balia del caos.
Tutto, invece, si semplifica e riprende valore se quel «ognuno abbia il suo destino» è inteso come soggettiva libertà capace di interagire responsabilmente con ciò che ci accade, e sensatamente e a capocchia, intorno. Intesa così l’affermazione di Forrest Gump un po’ evoca il titolo del valoroso libro di Orlando Franceschelli «Elogio della felicità possibile»: un incontrare soddisfazione in quel mix, squisitamente umano, di personale volontà capace di interagire proficuamente con qualsiasi casualità. Non potrebbe essere diversamente: agli onnipotenti, déi o uomini che siano, è preclusa qualsivoglia possibilità di laboriosa interazione; faccenda insidiosa l'onnipotenza, mero autismo narcisistico che esautora da ogni libertà.
Stati Uniti d'Europa
Pamela e Frank non sono mica tanto giovani ma non hanno figli. Da cinque estati scendono dal centro della Germania alla Puglia per soggiornare nella mia lamia, antica costruzione in pietra simile ai trulli ma col tetto a volta invece che a cono.
Oggi mi informano che la prossima estate verranno in tre: ad aprile nascerà il primogenito. Riferiscono che è “made in Apulia” in quanto concepito nella lamia.
Sapevo del potere afrodisiaco delle duemila piante che ho messo intorno alla lamia, specialmente dell’Abrotano che ho piantato sotto la finestra della camera da letto.
Mi informano che lo chiameranno Bruno come me. Penso rapido a Bruno il santo monaco fondatore dei certosini che mille anni fa era sceso da Colonia per insediarsi nel sud Italia.
Minchia come scrivo mellifluo! L’anno è cominciato strano.
a settembre 2015 lo hanno portato in pellegrinaggio dal padrino patrigno.
Faccia di…
Nella messa in scena teatrale, come in quella cinematografica, incontriamo discrepanti modalità di recitazione:
dal tecnico impostarsi dell’attore un po’ contiguo all’impostura;
all’atteggiamento di corpo, espressione di volto, modulazione di voce, invece prodotti e sostenuti dal pensiero dell’attore. Pensiero che plasma diretto psiche e soma, così un reale pensiero mesto produce una autentica faccia mesta e un reale pensiero gaio produce nell’attore una autentica faccia gaia, con tutti i viraggi espressivi, sfumature intermedie, contaminazioni, cortocircuiti, procurati dal cambiamento di pensiero sul corpo.
Su tale retti-tudine pensiero-corpo due considerazioni:
1 L’osservazione dell’accadimento emancipa da intellettualistici labirinti correlati alla “entificazione” del pensiero: tutto si semplifica quando il pensiero da presupposta entità autonoma viene indagato come il pensare qualcosa di un soggetto concreto.
2 Nel dilatare -dalla recitazione alla vita quotidiana- questo reggersi della persona sul pensiero, possiamo empiricamente osservare che, tutto sommato, l’Io è, in presa diretta, ciò che pensa in quel momento il soggetto.
Se così è forse utile rivalutare, elaborandolo, il “peccato di pensiero” contemplato nella visione cristiana.
Elogio del nemico
Inattendibile una amicizia indifferente al pensiero dell’amico, meglio un avversario che puntuale lo contesti con cura.
L’abbaglio
Nel costituirmi ho utilizzato i materiali che avevo intorno inglobando enti tossici che ho equivocato per me stesso.
I Dieci Comandamenti
Accettando il “patto narrativo” ho visto, con intermittente piacere, i Dieci Comandamenti di Benigni. Patto narrativo tacitamente stipulato tra autore e fruitore insito in qualsiasi racconto; un accordo tra le parti dove, all’interno di determinati perimetri e predefiniti tempi, la narrazione viene passivamente interpretata come se fosse vera.
Piacere per la tematica affrontata e per l’onesta destrezza di Benigni nel metterla in scena, alternata a perplessità quando l’attore tracimava dallo show per annunciare, a me e al mondo, presupposte verità assolute e universali.
Peccato: tradire il patto narrativo fa male al pubblico e ancor più all’attore e poi, nel caso di specie, l’apologia in presa diretta di Dio è mestiere dove nessuno può competere coi predicatori di Rho, quelli specializzati nel dirigere gli esercizi spirituali in Brianza, quelli che quand’ero ragazzo arrivavano in parrocchia nel periodo quaresimale. Ricordo che latravano dal pulpito infuocate e esaltate omelie precettistiche intercalate da momenti di silenzio dove, a loro dire, Iddio rivelava ai fedeli i suoi stupefacenti misteri.
Per estesi tratti Benigni deragliava, nei toni e nel merito, da attore a pontefice infantilizzando il pubblico, e io in quel suo tradire il patto narrativo diventavo meno passivo: azione di legittima difesa che via, via, analizzava, elaborava, enucleava, rispondeva, contestava, per poi tornare passivamente conciliante quando cessava di pontificare.
Nello svolgersi dello spettacolo ha raddrizzato il tiro e nella seconda puntata i deragliamenti ieratici sono stati più contenuti. A ben vedere faceva lo spiritoso nei passaggi dove concionava per ridiventare serio e credibile nel faceto.
Strana faccenda il teatro.
L’IO
Osservalo al supermercato nell’istante che sistema nel carrello i funghi surgelati,
sbircialo nelle sue performance erotiche,
esaminalo la sera quando legge Spinoza e nel non capire un passaggio lo rilegge e invece di comprenderlo produce, chissà da dove, un suo pensiero inedito e sovrano.
Dagli una occhiata quando è seduto sul water con la mente vuota,
fissalo in ufficio alle 12 e 35 concentrato nel fare l’inventario di fine anno,
guardalo nel sonno profondo quando si dimentica di sé e quando sogna rettili esotici e la mattina quando sente freddo,
scrutalo in autostrada, lì che guida al chilometro 825 quando considera che sta invecchiando.
In tanto contraddittorio variegato fluttuare, in questa serie di fenomeni sempre differenti nel susseguirsi degli istanti, come accade che ‘sta strana cosa rimanga sé stessa?