«Il giovane favoloso»
A un festival di filosofia avevano appiccicato sul muro un foglio con scritto:
«La filosofia è la biografia del filosofo».
Nonostante avessi subodorato criptomoralismo la “sentenza”, tutto sommato, mi era piaciuta. Dopo aver visto «Il giovane favoloso», film biografico su Giacomo Leopardi di Mario Martone, ho cambiato idea per la plastica esperienza dello scostamento tra vita (pensiero) e biografia del protagonista.
Incongruità inesorabile e universale: la biografia non è l’accadere del soggetto ma interpretazione narrativa -autobiografie incluse- dell’autore.
Nella biografia filmica, dove tutto è in campo, l’interpretazione del protagonista implementata dal regista inevitabilmente si amplifica, nonostante le migliori intenzioni di ottemperare “statuti epistemologici storiografici”.
Congrua a Leopardi è la sua opera omnia, tutto il resto -nel caso di specie abbozzi di caso clinico del malriuscito, estemporanee sovrapposizioni di madre natura e madre biologica, frequentazione di puttanai partenopei- è noia.
Giovevole estirpazione
Esausto di ferirsi smarrito nel sempiterno labirinto di ginepri ha sradicato
Il Padre, La Madre;
Il Figlio, La Figlia;
La Sorella, Il Fratello;
L’Amato e L’Amata,
per incontrarli finalmente per le donne e gli uomini reali che sono. Qualcuno amico, ognuno criticabile, ognuno apprezzabile. Nessuno indispensabile, manco lui.
Il “paretaro”
Nel costruire la parete a secco consideravo la vita degli uomini.
C’è la specchia dove si sistemano pietre di tutti i tipi sparse sul terreno che intralciano il cammino. Lavoro di ordine psicologico, epistemologico e estetico.
C’è, poi, il muro eretto con pietre scelte per forma e dimensione che, quando necessario, vengono ulteriormente squadrate e ridimensionate. Lavoro di apprendimento e messa in opera di materia prima altrui.
Alla fine c’è un terzo movimento, ma lì la metafora mi si è sgarrata perché impossibile nel campo eppure essenziale nella vita, quello del personale implementare pietre inedite.
L’ora di religione
Chiedo a mio nipote, che frequenta con profitto la terza elementare, se c’è qualche materia che non gli piace.
Mi risponde secco: «Religione.»
Lì per lì, vedendolo tanto persuaso, considero che l’abolizione o quanto meno la rivoluzione della materia procurerebbe vantaggi a tutti quanti, Chiesa cattolica in primis.
Ma forse il mio giudizio è frettoloso, tutto sommato la materia è facoltativa, inoltre a non fargliela piacere potrebbe essere l’insegnante e poi il parere di mio nipote mica esprime l’indice di gradimento di tutti gli scolari d’Italia.
Opportuno approfondire. Meglio chiedergli, perlomeno, i motivi del suo rifiuto, ma il ragazzo è uno sveglio ed è già schizzato via.
Il potatore
Primo mattino tre motoseghe cantano, è arrivata la squadra dei potatori. Scendo nell’uliveto un po’ addormentato, ammiro la competente aggressione alle piante secolari, rapidi non sbagliano un colpo. Uccio, responsabile della squadra, osserva perplesso un ulivo potato da altri la scorsa primavera. Blocca la motosega e sentenzia:
«Non ha preso calci in culo!».
Mi sveglio per chiedergli chiarimenti. Dice che quell’ulivo è potato davvero male e mi racconta la sua storia professionale. Sono 45 anni che pota, a 12 anni lo faceva a mano diretto dal padre, ogni ramo mal tagliato si prendeva un calcio in culo. Dice che così ha imparato rapido e bene.
Penso alle scuole steineriane, alle montessori, ai centri di educazione democratica e libertaria, agli spot contro lo sfruttamento del lavoro minorile e Uccio mi risponde riaccendendo la motosega per riprendere concentrato il suo lavoro. E’ vigoroso come un ulivo, soddisfatto, sano. Io moderatamente confuso.
Crono alienazione
Me ne sento quaranta ma vado ai sessanta. Così vecchio? Com’è accaduto? Dei periodi saranno sicuramente trascorsi tanto rapidi da sfuggire al ricordo. Per farli emergere dall’oblio, così da individuarli, ho riportato gli anni della mia esistenza correlati dai relativi compleanni: «1957 un anno, 1958 due anni, 1959 tre…» fino a oggi; integrando date e corrispondenti età con annotazioni di avvenimenti personali e storici un minimo significativi per ravvivare meglio i vari periodi, così da rammentarli.
Nell’analizzare il rendiconto è emerso preciso tutto il tempo “sparito”: anni accomunati dalla medesima caratteristica, tempi nei quali avevo eseguito ripetutamente le stesse cose ottemperando al regime imperativo di guadagnare denari lavorando per costruire famiglia e casa.
A ben vedere ci sono dentro ancora. Compiere il proprio dovere accorcia la vita?
Non è detto, mica tutti i regimi sono necessariamente imperativi, anzi compiere puntualmente il personale lavoro migliora la vita, lunga o corta che sia. E’ invece il funzionamento sistematico, obbligato, continuo e obbediente, teso a ottemperare imposizioni -non necessariamente esterne1- che abbrevia percettivamente la durata esistenziale. Talvolta non solo la percezione.
1 riguardo "esterni" imperativi storico-sociali e correlate psicologie di ispirazione marxista vedi qui
L'imprinting
Ognuno ha il suo imprinting indelebile e io ho quello cattolico. Non lo valuto peggiore di quello borghese e manco di quello marxista. Non mi sarebbe dispiaciuto avere un bell’imprinting anarchico ben incistato nelle viscere, ma tutto sommato non mi lamento.
Da tanto tempo ho cambiato idea, eppure anche se mi sono attardato nel contestare parti fondanti del cattolicesimo non sono riuscito a diventare un apostata ortodosso: il cattolicesimo è una bestia strana, onnivora, resiliente, fluttuante, mimetica, onnipervadente. Mica è l’Islam che, pur nelle sue complesse varianti, sai cos’è, sai dov’è, così da abbracciarlo o rinnegarlo con precisione.
Vitti na crozza
Può anche apparire scoppiettante, ma una biografia esposta in ordine cronologico è sempre tiranna: automatismo di stratificazione con accumulo di sedimento destinata all’epilogo.
Forse meglio iniziare dalla fine frullando il tempo, cosa c’è di più bello di un vecchio con la faccia da ragazzo?
Potenzialità & eventualità Spa
Gli dai 5 euro ti dà la ricevuta e si parte a piedi o in bicicletta. Ti fa incontrare ulivi che già vegetavano prima di Cristo in terra con tronchi di oltre 9 metri di circonferenza, carrubi nati nel medioevo, masserie, antichi frantoi ipogei, nascoste chiese rupestri. Mentre un suo giovane coetaneo conterraneo cerca lavoro nella grigia Milano e un altro è occupato a tempo pieno in personali querimonie, lui fa quello che gli piace sotto il sole di Puglia. Lì è nato, lì lavora soddisfatto1.
Domenica scorsa eravamo una settantina a seguirlo, più una decina di bambini. Appartiene alla minoranza di giovani abili nell’implementare, cammina con passo regolare, si ferma all’ombra della roverella secolare e pacato la racconta. La chiama Quercus pubescens, nel descriverne le galle emancipa l’albero dalla sua catatonica imponenza, quasi operi in un metafisico opificio di trasformazione.
Complesso l’accadere delle personali esistenze. Insidioso giudicarne i risultati. Accadere prodotto dall’interazione di personali potenzialità e libertà che incontrano eventualità, eppure non di rado ognuno è, almeno un po’, quello che si merita.
1 Qui la descrizione dell’opificio culturale dove opera. Lui è quello della foto, quello dentro l’ulivo.
La macchina del tempo: tu
Paul Valéry, Quaderni III, Adelphi. A pagina 490 il frammento autobiografico «Colpi di martello». Era il 3 agosto 1920, l’autore cinquantenne viveva a Parigi e nel percepire, in sottofondo, colpi ritmici di un martello si era ritrovato a Sète, città natia, quando aveva nove anni e a ferragosto i martelli piantavano chiodi per costruire baracche per la fiera del paese. Così Valéry esprime l’esperienza di quell’onnipervadente presente «L’urto di oggi [a Parigi] percuote il legno di 40 anni fa [a Sète ]», in quanto: «La sensazione pura e monda di aggiunte non ha età.» A questo punto l’Autore analizza il fenomeno ipotizzando la presenza di «Atomi sensoriali», mondo esterno «scomponibile in rapporto a noi in elementi qualitativamente invariabili.»
Ignoro, e tutto sommato poco mi interessa, quanto la coscienza personale sia costituita da Gestalten oppure dalla capacità di percepire atomi sensoriali, o da un mix delle due cose, quel che mi interessa è sperimentare questo universale continuo-infinito-presente. Valéry indica la strada:
«A tal fine bisogna essere distratti- Lasciarsi fare […] Ma se io lo desiderassi , sarebbe uno sforzo, e generalmente inutile. E’ bastato un ritmo [di martello] semplicissimo. Quel che io non pensavo affatto, quel che io non possedevo più, quello che era svanito, e che avrebbe potuto esserlo per sempre, è resuscitato. Redivivus. Se questo fenomeno accadesse all’essere intero, esso ringiovanirebbe. Esso avrebbe a ogni istante l’età della prima volta in cui percepì la sensazione attuale [...] avrei potuto rispondere a quei colpi di martello, soltanto con la riflessione che si trattava di colpi di martello, che essi mi disturbavano - ecc. Ho risposto in modo inesatto, globalmente, all’incirca; questo circa, questo superfiale al posto di un punto, questo campo non infinitamente piccolo, conteneva delle immagini di cui ho percepito in seguito, l’età e il luogo.»
Superflua la macchina del tempo, indispensabile una percezione fluttuante. Tutto sommato l’esperienza di un continuo-infinito-presente accade a molti, in qualche modo a tutti.
L’anno scorso, a riguardo, avevo scritto il breve racconto “Il Portoncino”, non avevo ancora letto Valéry, però a «Colpi di martello» un po’ gli assomiglia.
IL PORTONCINO
Puglia centrale, Ceglie Messapica, centro storico. Alle 15 e 45 ero pacatamente concentrato: per rinnovare il vecchio portoncino in ferro del monolocale lo smalto grigio metallico, color canna di fucile, andava tinteggiato con cura altrimenti rimaneva solcato. Alla fine del vicolo, da dietro l’angolo, un gruppo di ragazzi allestivano una festa di piazza. Ascoltavo passivo il sottofondo di cantilene, battute, urletti di ragazze e quelle voci mi avevano trasportato indietro di quarant’anni quando ragazzo frequentavo il gruppetto di amici: stessi suoni, giochi, medesimo desiderio nascosto di sessualità.
Il pennello scorreva chirurgico mentre una dimensione universale mi fagocitava, le voci di quei giovani venivano da vicino e insieme da lontano, dal passato e dal futuro: erano le stesse dei ragazzi medievali che giocavano in piazza a Siena, degli adolescenti degli anni Sessanta in una festa a Boston e le stesse che si sentiranno tra novanta anni in un ritrovo di giovani a Tokio che, inconsapevoli, obbediscono al canovaccio decretato dalla natura.
Il portoncino era diventato come nuovo e passavo a salutarli ma, concentrato su di loro, erano tornati ragazzi ordinari. Chissà com’è che per vedere l’universale devi fluttuare di sbieco omettendoti un po’.