Il Mandrake celeste
Gli ospedali sono buoni posti per monitorare i Sapiens e conoscerli meglio. Che mistero il dolore (del corpo) e la sofferenza (della psiche), unica consolazione è che tutto cambia e finisce e prima o poi cesseranno.
Nelle interpretazioni occidentali di filosofie orientali dolore e sofferenza vengono giudicate false percezioni, equivoci procurati da una errata identificazione con l’apparato psicosomatico individuale, che crediamo esserci mentre sarebbe irreale. Se il soggetto che percepisce è una illusione, una mera apparenza che di fatto “non è”, dolore e sofferenza vanno a sciogliersi come neve al sole non essendoci più qualcuno che li sperimenta; via il dente via il dolore non fa una grinza.
Il problema è che queste filosofie indifferenti a oncologie pediatriche e olocausti[1], nel contempo proclamano la possibilità di raggiungere una illuminazione che elargirebbe esperienza di pace e beatitudine assoluta. Ma a “chi” se non c’è più nessuno che sperimenta? Forse un Mandrake celeste fa sparire il soggetto percepente quando tira aria di sofferenza e lo fa ricomparire se tira aria di beatitudine. Tutto molto antropocentrico.
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1 Giustificherebbe meglio tale indifferenza la concezione apofatica che vede L’Uno Assoluto, insomma Dio, un tutt’altro inesprimibile, inconcepibile, incommensurabile, non aggettivabile, un inoggettivabile “al di là di tutto” (formula patristica di stampo neoplatonico attribuita a Gregorio Nazianzeno).
Transfert
Mentre zappavo una lucertola continuava a seguirmi così determinata da farmi immaginare una misteriosa amicizia tra noi, stile san Francesco con i passerotti. Invece mi seguiva per trangugiarsi gli insetti che si alzavano dalla terra appena smossa, più mi si avvicinava più ne mangiava. La misteriosa amicizia era solo nella mia testa e da lì la proiettavo sulla lucertola.
Nel fare transfert su cose inanimate e animate produciamo feticismo e animismo se trasliamo sull’intera realtà produciamo panpsichismo, così la natura può apparirci amorevole o matrigna non perché lo sia ma perché lo siamo noi, anche proiettarle addosso indifferenza, o qualsivoglia aggettivo, risulta incongruo; gli aggettivi van bene nel paradigma umano, fuori da lì non hanno più significato.
Il problema è che se fosse solo e sempre così, ogni arte e tutte le espressioni del sacro che sono scaturite dal nostro rapporto con la natura, dalla preistoria ai giorni nostri producendo civiltà, sarebbero convinzioni non corrispondenti alla realtà, “delirio” è il termine tecnico. Va da sé che questo “tutto qui” è riduzionismo meccanicistico ottocentesco superato da tempo, oggi la scienza vede meglio e di più. Non esiste al mondo astrofisico tanto fesso da uscire dalla sua cornice per invadere quella del poeta, invitandolo a finirla di delirare quando contempla il tramonto, perché quel cielo di fuoco è niente di più di raggi solari che angolano la luce in una atmosfera più densa, che lascia passare solo le frequenze rosse.
Il punto è che siamo animali strani, mossi dall’istinto a indagare e dall’istinto a narrare, entrambi favoriscono il conoscere e non possiamo escludere che è grazie all’esserci del poeta che l’astrofisico non si sia estinto, e viceversa. Siamo Homo sapiens e Homo fictus (“Uomo finzionale”, che si costruisce poggiando sull'invenzione narrativa).
Che mentre zappavo si era originata una amicizia fra me e la lucertola non è vero alla lettera, eppure è metafora che evoca possibilità che non sappiamo dire, forse di imperscrutabili transfert che la natura nottetempo fa su di noi.
Panpsichismo rurale
Già Talete sosteneva che “tutte le cose sono piene di dei”[1], oggi li ho visti in una piantagione di melograni stracarichi di frutti d’una bellezza mozzafiato.
Nel ripensarci emergono due punti sovversivi. Il primo è che il massimo della trascendenza sta nel massino dell’immanenza, il secondo è che questi momenti epifanici sono regolati da una legge strana: più l’Io si riduce più la percezione si espande.
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1 Testimonianza di Aristotele, De Anima, 411 a7.
Manco Dio
Nelle teologie cristiane il termine Kenosis dice lo svuotamento che Dio opera di se stesso per assumere la condizione umana in Gesù, fino a essere servo, ultimo tra gli ultimi.
Così, per processo imitativo Francesco d'Assisi si spogliava in piazza, il prete operaio andava in fabbrica e la ragazza di buona famiglia a Calcutta, nelle Missionarie della carità.
Tutti fallivano, anche Dio.
Il problema è che permane, comunque, uno scarto incommensurabile fra le loro condizioni e quelle dei poveracci, perché la compartecipazione sia genuina bisogna essere dentro quella condizione senza volerlo e con il desiderio incontenibile di venirne subito fuori, altrimenti non vale.
Sprazzi di Dio
Per avere sprazzi di Dio aiuta sfasarci dai quadri teorici che abbiamo introiettato, praticare sport estremi favorisce il processo.
In subordine possiamo beccheggiare con ciò che ci accade proprio come ci accade, così da dimenticarci un poco di noi per affidarci al sommo, affidabile, funzionamento. “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa”.