Gli ospedali sono buoni posti per monitorare i Sapiens e conoscerli meglio. Che mistero il dolore (del corpo) e la sofferenza (della psiche), unica consolazione è che tutto cambia e finisce e prima o poi cesseranno.
Nelle interpretazioni occidentali di filosofie orientali dolore e sofferenza vengono giudicate false percezioni, equivoci procurati da una errata identificazione con l’apparato psicosomatico individuale, che crediamo esserci mentre sarebbe irreale. Se il soggetto che percepisce è una illusione, una mera apparenza che di fatto “non è”, dolore e sofferenza vanno a sciogliersi come neve al sole non essendoci più qualcuno che li sperimenta; via il dente via il dolore non fa una grinza.
Il problema è che queste filosofie indifferenti a oncologie pediatriche e olocausti[1], nel contempo proclamano la possibilità di raggiungere una illuminazione che elargirebbe esperienza di pace e beatitudine assoluta. Ma a “chi” se non c’è più nessuno che sperimenta? Forse un Mandrake celeste fa sparire il soggetto percepente quando tira aria di sofferenza e lo fa ricomparire se tira aria di beatitudine. Tutto molto antropocentrico.
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1 Giustificherebbe meglio tale indifferenza la concezione apofatica che vede L’Uno Assoluto, insomma Dio, un tutt’altro inesprimibile, inconcepibile, incommensurabile, non aggettivabile, un inoggettivabile “al di là di tutto” (formula patristica di stampo neoplatonico attribuita a Gregorio Nazianzeno).