Mistica del Rock
L’altra sera a distanza ravvicinata da un chitarrista e un batterista in azione, all’improvviso ho visto a cosa “serve” il rock. Serve ad auto trascendersi.
Il pezzo è il mezzo, dinamica e ritmo il passo, Eros la via e i picchi orgasmici tappe del percorso, ma la meta è oltrepassare i limiti personali per fondersi in qualcosa di più grande.
Forse dentro di noi c’è qualcosa, o qualcuno, che sta un po’ stretto nel supporto perituro corporeo e necessita d’uscire -estasi: ex-stasis: “essere fuori”-, o forse consapevoli che non ci siamo fatti da soli vogliamo andare oltre noi stessi, per vedere come e dove è cominciato tutto.
Rapporto problematico
il rapporto problematico fra la nostra capacità di percepire il mondo e la sua realtà, attraversa l’intera filosofia moderna. Rapporto problematico perché, come osservava Kant, per comprendere la realtà adoperiamo i nostri limitati percepire e pensare, con l’insanabile conseguenza che invece di vivere il mondo per ciò che è, lo viviamo come oggetto di una nostra rappresentazione. Dualismo fra il personale pensiero e la realtà del mondo, fra la cosa come (ci) appare e la cosa in sé, che consapevoli dei nostri limiti umani si sarebbe potuto accettare serenamente e chiuderla lì[1], ma che invece una certa filosofia ha cercato di superare in tutti i modi.
Fichte, Schelling e Hegel sono stati i filosofi più inventivi[2] nel cercare soluzioni al dualismo kantiano che ci separa dal mondo. Essi si chiedono: se tutto ciò che conosciamo è mediato dalla nostra mente, ha senso postulare una "cosa in sé" irriducibile alla nostra esperienza? Questo li porta a una revisione radicale della posizione kantiana. Fichte elimina la distinzione tra fenomeno e noumeno e afferma che tutta la realtà è il prodotto dell’attività del soggetto; Schelling sviluppa ulteriormente l’idea di Fichte, sostenendo che vi sia un’identità originaria tra soggetto e oggetto, tra spirito e natura; con Hegel, l’idealismo raggiunge il suo culmine: egli concepisce la realtà come un processo dialettico in cui lo spirito si sviluppa attraverso contraddizioni e sintesi fino a raggiungere l’autocoscienza assoluta. In Hegel, la coscienza non solo conosce la realtà, ma la “crea” attraverso il suo movimento storico e logico.
Filosofie difficili da comprendere che diventano del tutto incomprensibili se si interpretano i termini di “Io” di “Soggetto” e di “coscienza” che utilizzano, come sinonimi dell’io personale. Grazie a una dritta di Augusto Cavadi ho trovato un approccio più semplice e chiaro per comprendere l’idealismo, interpretando questi “Io”, “Soggetto”, “Coscienza" come termini che esprimono un principio assoluto e universale piuttosto che personale, principio che funge sia da fondamento della realtà del mondo che dell’umano pensiero. Un approcciarsi all’"Io" di Fichte, all’Assoluto di Schelling, al Soggetto di Hegel, vedendoli come qualcosa che somiglia al Dio dei panteismi, sostanza universale esistente in sé e per sé che tutto pervade e unifica, e tutto diventa più chiaro.
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1 E’ pur vero che da un punto di vista teorico il gap fra realtà oggettiva e personale, potrebbe essere condizione che ci porta a sbattere in ogni momento da tutte le parti. Però c’è da annotare che mentre i filosofi dell’idealismo s’inventano di tutto e di più per superare il dualismo fra noi e il mondo, la gente normale non va a sbattere in ogni momento e da tutte le parti come previsto, ma solo di tanto in tanto, giusto qualche volta qui, qualche volta là, indizio che le loro interpretazioni del mondo non sono poi così difformi dal mondo reale. Persone semplici, consapevoli che non è il mondo a stare dentro di loro, ma che sono loro a essere dentro nel mondo che li precede e che sta in piedi per conto suo, questo gli basta per funzionare.
2 Inventivi, come intendeva Gilles Deleuze: “È molto semplice: la filosofia è una disciplina che crea e inventa come le altre. Crea o inventa concetti. E i concetti non sono già belli e fatti in una specie di cielo dove aspettano che il filosofo li afferri. I concetti bisogna fabbricarli. Certo, non si fabbricano così. Non è che un bel giorno ci si dica “Ecco, ora invento questo concetto!”. Proprio come nessun pittore un bel giorno si dice: “Ecco, ora faccio un quadro così”! o un regista: “Ecco, ora faccio questo film!”. Ci vuole una necessità, in filosofia come altrove, altrimenti non c’è proprio niente. Uno che crea non lavora per suo piacere. Uno che crea fa solo ciò di cui ha assolutamente bisogno”.
In terza persona
Ma com’è che anche se il corpo muta e cambiamo di continuo posti, idee, ruoli, emozioni e sentimenti, rimaniamo comunque noi stessi? Si vede che l’io è un qualcosa di non riducibile al corpo, neppure alla mente e alle emozioni.
Questa identità che precede il nostro pensare, sentire e fare, qualcuno la chiama “sé”[1]; in effetti non è male percepirsi in terza persona, ci si guarda di meno l’ombelico e si diventa più vasti e eterni. Essere in terza persona è un bel modo per staccarci da noi stessi evitando, però, derive nichilistiche.
Verosimile che sia proprio questa natura duale, costituita da ego e sé, a permetterci d’auto-osservarci e riflettere: per essere consapevoli di noi stessi bisogna sdoppiarsi, se fossimo un tutt’uno mica potremmo guardarci dall’esterno, non è escluso sia proprio il sé a renderci consapevoli di essere. Forse è anche il regista che assembla e unifica il molteplice dando un senso alle nostre rappresentazioni del caos.
Potrebbe darsi che Sisifo non avesse sé: in fin dei conti anche senza “fare” il semplice "essere" ha valore intrinseco; il primo significato della vita non è quello di pedalare ma d’essere presenti a noi stessi e agli altri; stare nel presente, consapevolmente, è un obiettivo in sé. Sicuramente ego e sé sono intrecciati, possibile che più uno si allarga più l’altro si stringe, così i cretini hanno l’ego espanso e il sé contratto, viceversa i saggi.
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1 Dalle filosofie orientali alla Psicosintesi di Assaggioli, a volte sé lo scrivono in minuscolo altre in maiuscolo.
Naufragar m’è dolce
Da bambino i laghi lombardi con dietro le montagne mi procuravano mestizia e insieme piacere. Perché quello strano mix?
Ripensandoci la mestizia era data dalla sensazione che quel paesaggio affermasse: ero prima di te, continuerò dopo indifferente a te. Il piacere dal constatare che proprio quella solenne indifferenza era all’istante salvifica non appena mi staccavo un po’ da me: era come se quella stabile e bella imponenza attestasse: io sono, l’io te lo sei inventato, e mi assorbisse a sé.