Ma com’è che anche se il corpo muta e cambiamo di continuo posti, idee, ruoli, emozioni e sentimenti, rimaniamo comunque noi stessi? Si vede che l’io è un qualcosa di non riducibile al corpo, neppure alla mente e alle emozioni.
Questa identità che precede il nostro pensare, sentire e fare, qualcuno la chiama “sé”[1]; in effetti non è male percepirsi in terza persona, ci si guarda di meno l’ombelico e si diventa più vasti e eterni. Essere in terza persona è un bel modo per staccarci da noi stessi evitando, però, derive nichilistiche.
Verosimile che sia proprio questa natura duale, costituita da ego e sé, a permetterci d’auto-osservarci e riflettere: per essere consapevoli di noi stessi bisogna sdoppiarsi, se fossimo un tutt’uno mica potremmo guardarci dall’esterno, non è escluso sia proprio il sé a renderci consapevoli di essere. Forse è anche il regista che assembla e unifica il molteplice dando un senso alle nostre rappresentazioni del caos.
Potrebbe darsi che Sisifo non avesse sé: in fin dei conti anche senza “fare” il semplice "essere" ha valore intrinseco; il primo significato della vita non è quello di pedalare ma d’essere presenti a noi stessi e agli altri; stare nel presente, consapevolmente, è un obiettivo in sé. Sicuramente ego e sé sono intrecciati, possibile che più uno si allarga più l’altro si stringe, così i cretini hanno l’ego espanso e il sé contratto, viceversa i saggi.
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1 Dalle filosofie orientali alla Psicosintesi di Assaggioli, a volte sé lo scrivono in minuscolo altre in maiuscolo.