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Destino
Quando in là con gli anni ricordiamo il passato, nel mettere a fuoco certi episodi può venirci il desiderio di tornare indietro nel tempo per sistemare qualcosa, ma non appena guardiamo l’esistenza in tutto il suo insieme sentiamo l’intima convinzione che, tutto sommato, sia andata bene così com’è andata. Nell’osservare a volo d’uccello l’intrecciarsi concatenato delle innumerevoli circostanze che abbiamo vissuto ci pare di scorgere un tutt’uno concordante, intravvediamo la supervisione di un misterioso regista, ci sembra di dipanare il filo rosso di un narratore onnisciente.
Non so se questa “intenzionalità del destino” personale che percepiamo in modo netto, abbia qualche corrispondenza con la realtà o sia soltanto una nostra interpretazione a posteriori[1], un arbitrario assemblare il passato secondo un nostro schema, un espediente pareidolitico per cercar di addomesticare l’incontenibile intreccio di caso e necessità e non disperderci nel caos.
Il filo rosso è in parte spiegabile dall’evidenza che in ognuno di noi alberga un nucleo unico e irripetibile, carattere immutabile che, coerente con se stesso, ci porta a vivere eventi differenti in modo perlopiù uniforme, ma questo non basta: in ogni esistenza personale si manifesta un qualcosa che va oltre il riordinamento operato dall’individuo, una sorta di mano invisibile, di forza onnipervadente che attraversa le cose governandole. Sovente le biografie testimoniano dell’irrompere di colpi di scena vocazionali operati da qualcosa di estraneo all’individuo, di persone mediocri che si sono emancipate da se stesse per un inaspettato colpo tra capo e collo, come anche viceversa.
Questa indimostrabile ma sperimentabile regia oltre a vederla guardando la nostra esistenza nell’insieme, la possiamo anche sperimentare in particolari istanti, in quei momenti epifanici dove percepiamo d’essere tutt’uno con la natura che ci circonda e sentire che trama in nostro favore, lì il capriccio degli eventi coincide con l’ordine del mondo.
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1 Peraltro non bisognerebbe farsi sfuggire che colui (quella parte di noi) che osserva l’esistenza non è colui che la vive, come ben osservava Schopenhauer nel volume “Memoria sulle scienze occulte” scrivendo del destino. Volontà e rappresentazione che i Veda narrano così: “Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda”.
Moto coatto
Alla fine della vita c’è chi si rassegna chi invece desidera una esistenza più lunga, molto più lunga, magari eterna. Ma per fare cosa?
Gli orientali sono capaci di stare fermi nel puro “Essere” facendo un bel niente, noi invece abbiamo bisogno di movimento sennò ci annoiamo.
Noi siamo cristiani e il cristianesimo è incompatibile con l’eternità perché poggia sullo spazio-tempo, sull’impulso ad andare da qua a là in un determinato tempo producendo cambiamenti.
Il Mandrake celeste
Gli ospedali sono buoni posti per monitorare i Sapiens e conoscerli meglio. Che mistero il dolore (del corpo) e la sofferenza (della psiche), unica consolazione è che tutto cambia e finisce e prima o poi cesseranno.
Nelle interpretazioni occidentali di filosofie orientali dolore e sofferenza vengono giudicate false percezioni, equivoci procurati da una errata identificazione con l’apparato psicosomatico individuale, che crediamo esserci mentre sarebbe irreale. Se il soggetto che percepisce è una illusione, una mera apparenza che di fatto “non è”, dolore e sofferenza vanno a sciogliersi come neve al sole non essendoci più qualcuno che li sperimenta; via il dente via il dolore non fa una grinza.
Il problema è che queste filosofie indifferenti a oncologie pediatriche e olocausti[1], nel contempo proclamano la possibilità di raggiungere una illuminazione che elargirebbe esperienza di pace e beatitudine assoluta. Ma a “chi” se non c’è più nessuno che sperimenta? Forse un Mandrake celeste fa sparire il soggetto percepente quando tira aria di sofferenza e lo fa ricomparire se tira aria di beatitudine. Tutto molto antropocentrico.
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1 Giustificherebbe meglio tale indifferenza la concezione apofatica che vede L’Uno Assoluto, insomma Dio, un tutt’altro inesprimibile, inconcepibile, incommensurabile, non aggettivabile, un inoggettivabile “al di là di tutto” (formula patristica di stampo neoplatonico attribuita a Gregorio Nazianzeno).
Sviste razionali
Dialogava con le parole giuste e conformandosi alle regole della logica argomentava al meglio, mentre l’incontenibile vita, indifferente a quel circoscritto e marginale adempiere, fluttuava da tutt’altra parte.
Ineludibile dualismo
“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,
il coraggio di cambiare le cose che posso,
e la saggezza per conoscere la differenza.” (Serenity Prayer di Reinhold Niebuhr)
Il più delle volte la sofferenza è causata dallo scostamento fra il mondo che desideriamo e quello che c’è, detto schopenhaueriamente dalla separazione da come ci rappresentiamo il mondo e il mondo oggettivo. In effetti un po’ tutte le visioni sapienziali, come anche le concezioni filosofiche, tentano di ridurre il gap fra il mondo che ci rappresentiamo e quello reale, con due differenti strategie che talvolta si intersecano e contaminano.
La prima tenta di plasmare il mondo effettivo così da conformarlo alle nostre rappresentazioni, tipo gli gnosticismi e gli esistenzialismi che rifiutando questo nostro mondo ne desiderano un altro, o gli idealismi che subordinano il mondo naturale alle proprie concezioni, oppure le filosofie della prassi che operano per cambiarlo. La seconda strategia tenta, invece, di ridimensionare le nostre rappresentazioni del mondo per uniformarle alla realtà di fatto, come lo stoicismo che accetta le cose che non possiamo cambiare, o il naturalismo che ci vede parte di sostanze e processi che costituendoci ci precedono e superano.
Insomma forse per qualche misteriosa frattura ancestrale, a differenza delle rane e delle rondini, siamo portati a desiderare e a chiedere un sistematico come in cielo così in terra, e viceversa.
Insipienze post teistiche
Per Sossio Giametta[1] la moderna laicità è un processo multisecolare che inizia ben prima di Cartesio. Già Erasmo da Rotterdam, Moro, Cusano, seppur operando nel paradigma teistico iniziavano a scardinarlo dall’interno, processo in seguito sviluppato dai filosofi rinascimentali della natura Telesio, Campanella che ha pagato con quaranta anni di carcere, Pomponazzi, Cardano, Vanini finito al rogo, e soprattutto Giordano Bruno anch’egli bruciato. Così da approdare a Spinoza che ha rovesciato l’ordine teocratico, poi Feuerbach che fa di Dio l’immagine dell’uomo, fino a Nietzsche e la sua potenza poetica che incenerisce, forse più del necessario, il teismo istituzionalizzato.
Se, dunque, partiamo da Erasmo, Moro, Cusano, considerandoli precursori del percorso che ha sostituito la teologia con la filosofia e Dio con la natura, vediamo che è un drammatico e valoroso processo che dura da più di cinque secoli. Non meraviglia che vi siano residui di istituzione ecclesiastica che tirano dritto come se niente fosse accaduto, fa invece strano che nel contestare il paradigma teistico ci glissino sopra gli attuali post-teismi, percependosi avanguardie tutte convinte di compiere, per proprio conto, rivoluzioni inedite.
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1 Vedi “Controstoria della filosofia” di Arthur Schopenhauer, curato da Sossio Giametta; La nave di Teseo, 2023. Si tratta di una riproposizione dei due saggi iniziali dei Parerga e paralipomena: “Schizzo di una storia della teoria dell’ideale e del reale” e “Frammenti di storia della filosofia”, davvero ben commentati da Giametta.
Il briccone
L’Essere -nel senso ontologico e anche metafisico- forse alberga in una assoluta sempiterna intemporale contemporaneità impersonale.
Per ottenere coscienza di sé a poco serve la materia che esprime in tutte le sue varianze, per sapere che è abbisogna di determinati e circoscritti momenti esistenziali (con un prima e con un dopo), un conscio allorquando necessariamente mortale, lavoro sporco che lascia fare a noi.
Risveglio
Verosimilmente già prima di nascere e anche dopo morti e di sicuro ogni notte nel sonno profondo, rifuggiamo la razionalità sospendendo il pensare per sprofondare nell’indicibile essenza del mistero dell’essere. Giunto il giorno, nel poco tempo di veglia e di vita che ci rimangono, forse meglio dedicarci ad altro.
Puer
Dopo avermi osservato piantumare il maggiociondolo di qua e i tre ginepri di là mi ha detto d’aver visto un bambino che giocava. Diagnosi azzeccata.
Si imparano parole e si apprendono logiche per funzionare in questo mondo, ma sotto, sotto, alberga un fanciullo immortale che gode dell’inutile.