Non so per gli animali, ma per le piante ho constatato una diffusa smania tassonomica: “Come si chiama questa?” E chi lo sa elargisce con soddisfazione il proprio sapere: “È Ranuncolo ficaria.” E quest’altra? E così via, senza fine.
Comprensibile: dare un nome apre molte porte. Serve alla scienza – questo è l’Ippocastano, contiene Escina, utile contro le emorroidi. Alimenta l’immaginario – queste sono le bacche velenose dell’Atropa belladonna, proprio quelle che Hansel e Gretel trovavano nel bosco. Nutre il mito – questo è aglio selvatico, forse il Moly che Hermes diede a Odisseo contro gli incantesimi di Circe; quest’altra è l’Aloe, sì, quella citata nella Bibbia. E tutti sono soddisfatti, ed è giusto così.
Eppure, non sarebbe male, qualche volta, imbattersi in una pianta e, indifferenti al nome, percepirne all’istante l’essenza selvaggia, la sostanza filosofica. Senza catalogarla, senza addomesticarla, senza possederla. Sentirne la potenza in una dimensione pre-cognitiva, come accade di fronte alle stelle.
Per le stelle, infatti, non c’è smania tassonomica: si capisce subito che non sono addomesticabili. Forse perché sono grandi, forse perché sono troppe. E davanti a questa materia finita, mutevole e dipendente, affiora subito l’intuizione dell’eterno, dell’infinito, dell’indipendente. È una fortuna. Se avessimo cominciato a nominarle con arbitrii condivisi – questa è Sirio, quella è Antares, questa è Izar – ci saremmo persi: “A che tante facelle?”, “L’amor che move il sole e l’altre stelle”, “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”, e pure il caos interiore che partorisce una stella danzante.