BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Una parte sorprendente del pensiero di Spinoza si intreccia armoniosamente con le grandi filosofie dell’Oriente[1].

Senza forzature, senza sincretismi facili.
Come se voci lontane parlassero la stessa lingua segreta.

Con parole diverse, tradizioni come il Vedānta indiano, il Buddhismo o il Taoismo affermano ciò che Spinoza formula con rigore geometrico:
un principio assoluto, infinito, autosufficiente, da cui tutto scaturisce come espressione, riflesso o forma.

La somiglianza più profonda emerge con l’Advaita Vedānta, il “non-dualismo” indiano.
Lì, Brahman è l’assoluto: eterno, immobile, oltre ogni distinzione.
Come la Sostanza di Spinoza — che lui chiama anche Dio o Natura — Brahman è tutto ciò che è. Nulla esiste fuori da lui.

In entrambi i sistemi, gli esseri finiti non sono separati dal principio originario:

•per Spinoza, sono modi della Sostanza,

•per l’Advaita, sono apparenze (Māyā) di Brahman.

Con una differenza decisiva:
in Spinoza, i modi sono reali — finiti, certo, ma espressioni autentiche della Sostanza.
Nel Vedānta, invece, Māyā è illusione: un velo che fa sembrare molteplice ciò che è in verità uno e indivisibile.

Eppure, anche Māyā non è qualcosa di separato: è un potere di Brahman, come il riflesso è inseparabile dalla superficie che lo riflette.
L’infinito si manifesta nel finito, ma il finito non può esaurirlo.

Qui si apre la distanza tra i due pensieri.

Per Spinoza, noi e il mondo siamo già in Dio.
Non dobbiamo abbandonare nulla, né tornare a qualche origine perduta.
La beatitudine nasce quando ne diventiamo consapevoli — attraverso idee adeguate, che ci mostrano come ogni cosa esprima, a suo modo, l’infinito.

Nel Vedānta, invece, la realizzazione avviene vedendo l’irrealtà del mondo fenomenico.
Vedere un fiore non è vedere la realtà, ma un’apparenza.
Ciò che ci fa percepire il fiore non è il fiore, ma la coscienza in cui esso appare.
Una coscienza assoluta, infinita, che non è soggetto né oggetto, ma presenza pura[2].

Per Spinoza, invece, quel fiore è reale.
È un modo della sostanza: limitato[3], ma non illusorio.
È Dio stesso che si esprime in quella forma, in quell’attimo, senza che nulla vada perduto.

Due sguardi diversi, due vie convergenti.

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¹ Non abbiamo prove dirette che Spinoza conoscesse i testi del Vedānta, del Buddhismo o del Taoismo. Tuttavia, è plausibile che idee sapienziali abbiano viaggiato da Oriente a Occidente lungo vie sotterranee, riemergendo in Europa in forme nuove e rielaborate. È altrettanto possibile che il convergere filosofico tra pensatori distanti per tempo e luogo sia frutto di una comune esigenza dell’intelligenza umana: comprendere l’unità del reale.

² Nel Vedānta, Brahman è spesso identificato con la “coscienza” pura, priva di oggetto. È un concetto controintuitivo per il pensiero occidentale, poiché siamo abituati a pensare la coscienza come sempre “coscienza di qualcosa”. Invece, Brahman, in quanto coscienza assoluta, non può essere limitato da alcun oggetto senza perdere la propria infinità. Solo nella dissoluzione di ogni determinazione resta l’essere-coscienza: senza forma, senza contenuto, senza soggetto e oggetto. Il reale si svela proprio nella negazione di ogni confine.

³ A riprova di quanto Oriente e Occidente si tocchino su queste tematiche, vi è contiguità tra la concezione vedantica della coscienza divina infinita che, in quanto tale, non può essere coscienza di qualcosa, e una celebre formula che Spinoza riprende dal pensiero scolastico di Suárez: “Ogni determinazione è negazione”. Per Spinoza, ogni cosa finita esiste perché non è qualcos’altro. Ogni affermazione determina un’esclusione: un cerchio è tale solo perché non è un triangolo, né un rombo, né altro. A differenza del Vedānta, però, questa non è una logica dell’illusione, bensì della necessità: determinare è selezionare, e selezionare implica negare alternative possibili. In Spinoza, la finitezza non è errore, ma condizione reale dell’essere: ogni forma esiste proprio perché è ciò che non sono tutte le altre.

 

Pubblicato in Filosofia di strada

Quanto più una cosa è particolare, tanto più contiene di realtà (Spinoza, Epistola XXI ad Willem van Blyenbergh, 1665).

Non possiamo escludere che i monaci del medioevo, nei loro giardini chiusi, nei silenzi umidi dei chiostri, tra gli scaffali polverosi di erbe essiccate, avessero una saggezza che anticipava Spinoza, senza saperlo. Non una filosofia scritta, ma una conoscenza intessuta di osservazione per il particolare della natura vivente.

Lì, nella cura delle piante, essi vedevano più di semplici rimedi: percepivano un ordine nascosto, una necessità che non era imposizione, ma rivelazione. Non un Dio lontano e separato, ma la vita stessa che si manifesta in foglie, radici, fiori. Ogni erba aveva una forma, un limite, una funzione — e proprio in quei confini si rivelava qualcosa d’infinito.

La loro sapienza non nominava sostanza o attributi, non parlava di sostanza infinita o di modi; tuttavia, praticavano una forma di immanenza: il divino era nelle radici, nelle venature, nel respiro verde delle foglie, nel principio attivo del fiore.

Non catalogavano il mondo per possederlo, ma per conoscerlo in modo che il sapere diventasse ascolto, apertura alla potenza che si cela in ogni pianta.
Così, senza saperlo, nel percepire fragranze epifaniche si avvicinavano a quella visione spinoziana in cui Dio non è altro che Natura stessa — infinita, necessaria, manifesta nella molteplicità finita delle forme.

Forse è questo il senso profondo della loro arte: mostrare che nel particolare, nel finito, nel limite della foglia, della corteccia, del fiore, si cela l’infinito.
E che la conoscenza autentica non è dominio, ma riverenza.
Un passo silenzioso sulla terra, un attimo in cui l’umano si fa parte, si piega e contempla.

E forse proprio in questa contemplazione silenziosa viveva una tensione che non potevano nominare: nel segreto della cella e dell’orto, le erbe parlavano un linguaggio più ragionevole e limpido di molti dogmi.
Ogni pianta diceva legge e ordine, mentre la dottrina imponeva rivelazioni spesso inintelligibili, miracoli senza radice.
Nei fiori essi trovavano una verità che non chiedeva obbedienza cieca, ma sguardo attento: la rivelazione era lì, nella foglia che si apre, nella radice che si allunga, nel seme che chiude il ciclo.
Forse talvolta, chinati sui loro letti d’erbe, sentirono dentro di sé l’incrinatura di un dubbio: che la Natura fosse più Dio della parola pronunciata dal pulpito.

Spinoziani inconsapevoli — e questa semplice intuizione può essere un invito a guardare ancora con occhi nuovi la natura. Con il divino che si accende nel particolare, nella sillaba, nella traccia. lI massimo della trascendenza nel massimo dell’immanenza.

Pubblicato in Erbario
Venerdì, 11 Luglio 2025 18:12

Tipi umani

Due modi umani oltre il tempio: l’ateo esistenzialista e lo spinoziano. Fratelli nel rifiuto di un Padre, finalmente orfani di tribunali celesti, ma diversi nel portare questa orfanezza.

L’esistenzialista strappa senso dall’assurdo, come se l’universo fosse un fondale cieco da bucare col proprio urlo. Si dichiara nauseato dal non-senso, ma a ben vedere occorre uno stomaco ben piazzato al centro del palco per produrre nausea: chi proclama l’irragionevolezza del mondo rivela di custodire in sé un metro di ragione con cui lo misura.

Lo spinoziano non insorge contro l’assenza di uno scopo, perché non invoca uno scopo. Non c’è assurdo dove tutto è necessario. Non c’è silenzio dove ogni filo di causa risuona. L’io non divora il mondo, si scioglie nella trama. E la trama non è materia muta — è natura, infinita sostanza che genera se stessa, forma e moto, mente e corpo. La materia è solo un volto fra molti: la natura è il fiume che non smette di scorrere.

L’esistenzialista resta un antropocentrico in rivolta: scava la sua tana nel vuoto per far brillare un ego stoico, tragico, ancora centrale. Lo spinoziano toglie il centro, lo distende ovunque. Nessuno dei due torna al tempio, ma uno continua a erigere altari al proprio tormento, l’altro siede quieto.

 

Pubblicato in Frammenti Autobiografici
Mercoledì, 09 Luglio 2025 20:20

L’Inesorabile

Si cita spesso, quasi con leggerezza, il celebre Deus sive Natura di Spinoza, per poi aggiungere come un riflesso condizionato: “Panteismo”. Lo si ripete come fosse un motto innocuo di filosofia da salotto, senza sentire quanto sia, per noi Sapiens, un pensiero inaudito.

Specialmente due le idee intrinseche al Deus sive Natura, che restano quasi insostenibili: l’ontologia e la libertà.

Ontologia
Per Spinoza, un fungo e un essere umano esistono con la stessa necessità: sono modi della stessa sostanza, nessuno “vale” più dell’altro in senso assoluto. Certo, un uomo ha maggiore potenza: pensa, agisce, trasforma l’ambiente. Ma questa superiorità è solo relativa alla sua capacità di perseverare nel proprio essere (conatus). Dal punto di vista umano, il fungo è nutrimento o ostacolo; dal punto di vista del fungo, l’uomo può essere irrilevante o distruttivo. E dal punto di vista di Dio, che è la natura stessa, tutto accade con perfetta necessità: il fungo che decompone, l’uomo che costruisce o devasta, la guerra, la pace.

Libertà
Spinoza nega il libero arbitrio come facoltà di decidere indipendentemente dalle cause. L’uomo non è un regno dentro un regno. Tutto ciò che pensiamo e facciamo è effetto di cause naturali. Possiamo diventare più razionali e dunque più liberi, ma anche questa “conquista” non nasce da un atto arbitrario: ma è frutto di cause che ci nutrono, ci ordinano, ci spingono. Se invece restiamo dominati da passioni confuse, è perché altre cause hanno prevalso. La libertà, in Spinoza, non è rompere la catena delle cause, ma comprenderla meglio — ma anche questa comprensione è causata.

Anche la nostra resistenza, la nostra indignazione contro ciò che distrugge, sono natura: espressioni del conatus che cerca di preservarsi. Non esiste bene o male assoluto fuori dalla natura, così come non esiste un soggetto separato da essa. Tutto è natura: la pietra che cade, la mano che colpisce, l’occhio che vede, la mente che comprende. Se la mente è ordinata, partorisce idee chiare; se è in balia di superstizioni e passioni, così dev’essere. La scelta di diventare liberi non è una scelta: è un effetto all’interno di un funzionamento. E se cresce, cresce come cresce un fungo nel bosco — quando la terra lo permette.

Forse il punto più intollerabile del pensiero di Spinoza — e per questo più rimosso o addomesticato — non è tanto l’assenza di libero arbitrio, né l’assenza di un bene e male assoluti, ma il fatto che neppure esiste un “io” separato. Deus sive Natura significa: tu, come individuo che pretende di stare fuori da questo ordine necessario, non ci sei.

È una verità così radicale che continua a sfuggire, anche in una cultura che si crede secolarizzata. Perché non lascia scampo neppure all’ultima illusione moderna: l’eccezione umana, la libertà come arbitrio, la giustizia come garanzia di senso. La difesa a oltranza dell’Io biografico sembra ineliminabile per gli occidentali dei nostri giorni, ma paradossalmente è proprio lì, dove l’io si annulla, che siamo immortali: perché siamo natura, e la natura non finisce.

Eppure Spinoza lo intitola Etica. Perché in un universo senza libero arbitrio, l’unico bene possibile non è volere altro, ma comprendere meglio. Chiamare Etica questa geometria della necessità è forse l’atto più scandaloso: affermare che la libertà non è un arbitrio da inventare, ma una chiarezza da accettare — e coltivare, se le cause lo permettono.

Ma da dove è arrivato, questo qui? Con i termini della Scolastica ha tirato fuori l’impensabile. Forse è stato un infiltrato portatore di un germe orientale: l’io è un miraggio, la libertà un malinteso. Una primordiale religione dei quattro elementi, un ordine che non consola, non redime, non giudica. Tecnicamente e etimologicamente disumano. Forse non è un essere ancestrale ma ancora troppo moderno per essere davvero assimilato.

Pubblicato in Filosofia di strada
Sabato, 05 Luglio 2025 15:38

Messinscena metafisica

“Destino” dice tanto un cieco funzionamento quanto una regia nascosta: un’ambiguità funzionale a strategie consolatorie. La provvidenza è legata a un’intenzionalità proiettata dal soggetto umano sul cosmo: l’universo — o Dio — starebbe tramando in mio favore, una sorta di messinscena metafisica a misura d’uomo.

La necessità, invece — ciò che è come è, indifferente a me, perché non può essere altrimenti — dissolve questa intenzionalità in un ordine impersonale e inesorabile. L’antropocentrismo si scioglie in un ontologismo puro.

Eppure, se guardiamo intorno, fra provvidenza e necessità non c’è partita: vince la superstizione. Più dolce l’illusione di un occhio che veglia, di un disegno cucito sul desiderio di immortalità.

Ma a chi non teme di vedersi fuori dal centro, a chi avverte il retropensiero che l’ordine provvidenziale è un mito di second’ordine, la necessità appare più pacificante di ogni disegno benevolo: nessuna messinscena antropocentrica, nessuna fiction sospetta. Ciò che è, è come deve essere, indifferente a noi — e perciò più vero. La freddezza del reale è verità più accogliente di una menzogna calda. Ciò che consola è la corrispondenza tra ciò che vediamo fuori e ciò che intuiamo dentro: l’ordine impersonale è speculare alla nostra capacità di pensarlo.

La mente, nel suo sforzo di vedere il tutto sub specie aeternitatis, si riconosce come espressione di quell’ordine. E in questa coincidenza sparisce la scissione tra soggetto e mondo, tra “me” e “ciò che accade”: è giusto così, va bene così. In altre parole: la provvidenza rassicura l’io — la necessità dissolve l’io, e questa dissoluzione, se accettata, toglie all’io la radice stessa dell’angoscia. Conoscere questo ordine, impersonale e incorruttibile, è già aderirvi, sciogliendo l’io dalla sua superstizione segreta. Allora la mente, liberata da un destino cucito su misura, respira nell’aria vasta del possibile: un animale fra gli animali, una forma fra le forme. Nulla di più, nulla di meno.

Pubblicato in Filosofia di strada
Venerdì, 04 Luglio 2025 13:49

L’ indifferenziato

Un pinguino è un pinguino, una quercia è quella quercia e non un’altra, non è un orso e neppure l’Uno neoplatonico. Dire corpo è dire individuo: senza modi specifici, senza confini, senza funzioni differenziate, la vita non può sussistere. Cos’è, allora, l’“oceano indistinto”[1] di cui parla certa psicoanalisi? L’intrauterino, il pre-personale, il cosmico: quello stato frequentato da neonati, da psicotici e da mistici?

In realtà — anche se non mancano ambiguità e confusioni — l’oceano indistinto è un mito culturale, non un dato naturale. “Nasciamo indistinti, ci individuiamo, possiamo regredire” è una metafora utile per raccontare la porosità dei confini dell’Io, non a descrivere un organismo reale. L'individuazione è individuazione culturale, faccenda umana, i grilli nascono già individuati.

Improbabile che uno psicotico lo sia diventato passeggiando nel bosco mentre si percepiva tutt’uno con la natura  —fondersi non è dissolversi —, più probabile che qualcuno ne sia guarito.

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1 Spinoza probabilmente rifiuterebbe questa definizione giudicandola confusa. Nel suo sistema non c’è origine indistinta: ma sostanza unica che si esprime in modi finiti, ciascuno determinato.

 

Pubblicato in Pensieri Improvvisi
Mercoledì, 02 Luglio 2025 16:34

Cristo, Don Chisciotte, profeti e bombi

Cristo, Don Chisciotte, i profeti: figure di una stessa ferita. Quando la potenza biologica di vivere si intreccia radicalmente al desiderio di trasformare il mondo, nasce l’umanesimo militante, messianico, tragico. La tragicità sta nello scarto tra ciò che l’uomo sogna e ciò che il mondo è: la speranza inchiodata alla storia concreta[1].

L’impegno personale perché il mondo sia un po’ migliore resta un valore fondante, imprescindibile: è ciò che rende umano il nostro passaggio. Ma l’iperempatia può farsi trappola: burnout esistenziale estremo, senso di responsabilità assoluto, super-identificazione con la missione salvifica.
Il Sé si annulla pur di restare fedele a un dovere impossibile. È un narcisismo senza autocelebrazione: culto di un’immagine di purezza, di redenzione. «Se non salvo il mondo, io non sono».
Una grandiosità che non si esalta, ma si sacrifica. Nessuno spazio per l’imperfezione.

Oggi, guardando i bombi sui fiori di lavanda [sotto un breve video], ho visto che la natura — il mondo in cui gli uomini accadono — è reale, mentre il mondo degli uomini è un artificio.
I bombi non conoscono missioni né martiri. Vivono in un tempo senza scopo, senza colpa, senza debiti di salvezza. Un filare di salvie non chiede di essere salvato né giudicato. È.

Accettando la colpa di non essere necessari possiamo salvarci.
L’impegno rimane: trasformare un poco il mondo, restare fedeli a ciò che conta davvero.
Il resto respira da sé.

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1 In termini spinoziani tale scostamento genera  tristitia, che a me viene ogni volta che penso a Gaza. Spinoza invita a elaborarla, comprenderla, contenerla,  perché se estrema può sopraffare la potenza di esistere (conatus). Nell’Ethica Spinoza definisce le passioni come modificazioni della potentia agendi, cioè della capacità di agire. La tristitia è, per definizione, una passione di diminuzione. È un affetto di contrazione, di restringimento: ci chiude, ci separa da ciò che ci rafforza, ci rende meno capaci di perseverare nell’essere. Non serve a nessuno, se non a distruggere ulteriormente. La storia rendiconta depressioni estreme e anche suicidi di idealisti e di militanti del bene sconfitti. Nel contesto possiamo dire che la tristitia è la crepa tragica di chi porta su di sé il peso di un dovere storico troppo grande. Il profeta martire vive nella tristezza perché scambia la diminuzione di sé per prova di purezza. Spinoza suggerisce invece di radicare l’impegno nel gaudium — la gioia di potenziare sé stessi e gli altri senza immolarsi. Non rinunciare all’impegno, ma non lasciarlo diventare una passione triste.

 

Pubblicato in Pensieri Improvvisi
Lunedì, 30 Giugno 2025 17:16

Vanità

Mi sono inventato una giaculatoria, ogni tanto la dico: “Di Bruno Vergani nun me ne pò fregà de meno". Non so se faccio sul serio,  sia come sia la pratica procura una buona sensazione.

A ben pensarci la definizione di Spinoza dell'essere umano si potrebbe condensare così: io non sono sostanza — non sono Dio, perché non mi sono fatto da solo — non sono neppure materia, né mente separata.

Allora, cosa sono per Spinoza? Qual è il nucleo che mi costituisce? Siamo potenza (cupiditas), desiderio d’essere e durare: Natura impersonale che, per un istante, si manifesta in una effimera forma personale.

Se le cose stanno così, vivere è semplice: prendere distanza da sé dissolve ogni problema, mentre l’affermazione di sé li genera tutti.

Pubblicato in Frammenti Autobiografici
Giovedì, 26 Giugno 2025 14:28

Conatus

 

 

 

 

  

 

 

Video:

Pubblicato in Erbario
Lunedì, 23 Giugno 2025 21:08

Oltre la lista

Che cosa accade quando cominciamo a scrivere? Jack Goody, antropologo, analizza un particolare gesto di trascrizione del reale, quello della lista[1], quello di mettere le cose una sotto l’altra.

Gesto che non si limita a comunicare le cose, ma le ordina, separa, conserva.

Scrivere così:

banane
riso
birra

non è lo stesso che scriverlo così:

banane, riso, birra.

Il primo gesto segmenta e misura. Ogni parola si stacca per collocarsi in un dato posto. L’universo si archivia. La lista non è neutra, è già filosofia. Forma muta di pensiero causale da Aristotele a Linneo, dalla clinica medica all’algoritmo, la lista plasma una mentalità: l’idea che le cose si comprendano collocandole, tracciandone l’origine. Talora la lista può assumere connotati precettistici: i Dieci Comandamenti sono una lista.

Freud, medico dell’anima, è dentro questa linea: il sintomo non vale per sé, ma per ciò che lo precede. Ma se invece la causa non esiste? Se — come dice Hume — è solo abitudine della mente? Esistono vie che non spiegano: evocano. Pensieri che non sezionano: risuonano. Tradizioni che non archiviano il mondo, ma lo abitano.

Certo anche Spinoza elenca. L’Etica è una sequenza di definizioni, assiomi, dimostrazioni. Quasi una lista. Eppure da quella griglia si leva qualcosa che non è classificabile: una necessità impersonale che non spiega, ma appare. La lista, allora, non è il problema. Lo diventa quando prende tutto. Quando dimentica che le cose possono anche essere senza motivo e senza scopo, se non il loro stesso essere causa di sé.

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1 Jack Goody, all’opposto delle scuole di scrittura scriptolatriche e delle religioni del libro, osserva che le prime testimonianze di scrittura — almeno nel Vicino Oriente antico — sono elenchi, registrazioni contabili, inventari, rendiconti agricoli. Niente racconti, né poemi. Solo segni per contare, liste di beni, quantità di cereali, nomi di lavoratori, pecore possedute. La scrittura nasce con il magazzino, non con il mito. È solo molto dopo che la scrittura verrà impiegata per narrare, riflettere, pregare. Ma la sua origine è tecnica, contabile, concreta. La scrittura non nascerebbe dal linguaggio ma dall’economia.

 

 

Pubblicato in Filosofia di strada
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