Produzioni culturali
Venerdì scorso passeggiando nel giardino sono diventato miscredente. Tutto d’un botto ho visto che il teismo è un costrutto culturale, un prodotto del linguaggio umano[1].
Rispetto al funzionamento naturale il Dio personale e creatore è roba provinciale di fresca data intrinsecamente obsolescente. Che me ne faccio?
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1 Dio disse: “Sia la luce!” E la luce fu (Genesi); Il Verbo si fece carne (Vangelo di Giovanni); La prima cosa che Dio creò fu il calamo. Poi creò la tavola e disse al calamo: "Scrivi!" (Martin Lings, Il profeta Muhammad, La sua vita secondo le fonti più antiche, Il leone verde.)
Peccato originale
Ciò che vi è di più profondo, nell’uomo, è la pelle. (P. Valéry) [1].
E’ rara, piomba a caso, dura pochissimo, però a volte ci accade l’innocenza percettiva d’Adamo e Eva nell’Eden, è che per esserci e mantenersi dev’essere esperienza di nessuno non appena la comunichiamo, anche solo a noi stessi, la distorciamo, solo a pensarla si spezza in due qua l’immagine là la cosa.
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1 L’idea fissa o due uomini al mare, Theoria, Roma-Napoli 1985, p. 60.
Realtà virtuale
Ma i bambini appiccicati di continuo agli smartphone saranno ancora capaci di vedere il mondo reale?
Forse non c’è motivo di preoccuparsi, la percezione in presa diretta della realtà naturale l’abbiamo già persa da un po’, suppergiù dal paleolitico quando qualcuno inventò suoni e segni[1] per rappresentare le cose.
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1 Platone nel Fedro argomenta così:
"Ho udito narrare che presso Naucrati in Egitto c’era uno degli antichi dei, […] il suo nome era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto […] anche la scrittura. Ora Theuth andò dal re Thamus, gli mostrò tutte queste sue arti e gli disse che bisognava insegnarle agli Egizi. Il re gli domandò quale fosse l’utilità di ciascuna di quelle arti e, mentre il dio glielo spiegava, a seconda che gli sembrasse bene o no, lodava oppure disapprovava... Quando giunse alla scrittura Theuth disse: ‘‘Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza.’’ Ma il re rispose: ‘‘O ingegnosissimo Teuth, c’è chi è capace di inventare e creare le arti e chi è capace invece di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adotteranno. Essendo il padre della scrittura, per amore di essa tu hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nell’anima di chi la imparerà perché, fidandosi della scrittura, egli si abituerà a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimo”.
Zoosemiotiche
I castori fanno dighe, le rane gracidano e noi facciamo parole che dicono il mondo, ma dai oggi, dai domani, le parole sono diventate tanto autonome e presuntuose da surrogare il mondo e persino trascenderlo[1].
Però in questo accumulo culturale e un po’ feticistico[2], di tanto in tanto irrompono nel nostro corpo impressioni prime in presa diretta, lì la grazia di non avere parole, di non trovare le parole, di rimanere senza parole, ci emancipa finalmente dal regime dell’umano linguaggio[3].
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1 Vedi religioni del Libro.
2 In quanto sposta la meta dalla realtà naturale a un suo artefatto sostitutivo, il nome invece della cosa proprio come le mutande invece della donna.
3 Oltre a questo mio contraddittorio utilizzo del linguaggio per liberarmi dal suo regime, c’è il genio del poeta che trascende la parola con le parole, come ci riesca nessuno lo sa.
Aconitum variegatum
La pianta era fiorita e aveva dentro veleno sufficiente per accopparlo ma lui non la vedeva, però non appena il giardiniere gli aveva detto il nome la pianta gli appariva in tutta la sua pienezza.
Di rado percepiamo direttamente le cose, capita giusto facendo l’amore, schiacciandoci il dito col martello, guardando negli occhi il cane che ci vuol bene e poco altro, solitamente vediamo le cose in differita, inserendole in un dato ordine interpretativo fondato e codificato sul linguaggio.
In principio era la parola, ne consegue la strana ontologia dei Sapiens che vedono le cose subordinate ai nomi.
Menti biforcute
Gli esponenti delle tradizioni sapienziali orientali che affermano l’insussistenza dell’Io, di solito non rischiano disturbi psichici di depersonalizzazione e derealizzazione o derive pessimistiche, neppure esiti nichilistici, quasi certamente perché occorre essere saldamente qualcuno per affermare scientemente d’essere nessuno.
Forse il punto è che, da oriente a occidente, siamo animali con mente biforcuta e nonostante i numerosi tentativi di unificare la realtà, fluttuiamo di continuo fra concetti pratici e idee trascendentali, fra materia e spirito, fra corpo mortale e anima immortale, fenomeno e cosa in sé, apparenza e realtà, intuizione e concetto, mente e corpo, poi c’è anche l’Yin e lo Yang e pure l’onda e particella, senza considerare gli innumerevoli dualismi religiosi e gnostici sia ontologici che etici.
Tutta roba che plausibilmente non esisterebbe in natura se la nostra mente, strutturalmente duale, non gliela proiettasse addosso.
Tanti, unici, effimeri.
Il mondo naturale è così complesso che non esiste una pianta spiccicata a un’altra, dovrebbe essere, dunque, l’individuo -invece della specie com’è d’uso nella botanica sistematica- l’entità base per inventariare e catalogare le piante del mondo. Ma in fin dei conti non può essere che così come si sta facendo, sia perché in natura gli individui, piante o animali che siano, sono innumerabili e ancor di più perché durano poco, anzi pochissimo nella timeline della storia naturale.
Dato che come individui unici e irripetibili siamo parte di un funzionamento naturale caratterizzato da un turnover altissimo, la libertà più ragionevole è quella da sé stessi.
Ontologia animale
Siamo cambiati e con noi sono mutate le cose intorno e tante persone che conoscevamo non ci sono più, eppure questo continuo divenire è come se poggiasse su un sostrato stabile.
Fondamento che percepiamo dentro di noi nella costante e immutata consapevolezza d’esserci; che sperimentiamo fuori di noi nell’esistere del mondo che, seppur nel continuo mutare, ci appare sempre e comunque essere invece di non essere.
Immortalità di colui al quale non interessa essere lui ma semplicemente essere, imperituro come un gatto riassorbito nel funzionamento naturale che lo produce.
Un po' frustrate coazioni a ripetere
Ma non è che il militante, quello che si dice buono, quello che vuole il bene, sempre e tutto impegnato nel risolvere lo scostamento fra il mondo com’è e come invece dovrebbe essere, sia lui sbagliato e non il mondo? In effetti ci vuole non poco ego trip per sentenziare di continuo come dev’essere il mondo.
Labile il confine fra l’essere eroe o caso umano per chi non accetta che ci sono anche cose che lo travalicano, che non tutto è sempre e solo riportabile nell’alveo dell’intenzionalità, della volontà e della responsabilità degli individui, buoni o cattivi che siano.
Ontologia nevrotica
Ho lasciato perdere filosofia e politica e sono andato a zappare, nel farlo mi sono dimenticato di me e il mondo si è pacificato. Verosimile che questa naturale percezione d’essere non mediata dall’io era quella che vivevamo i nostri antenati ancestrali, ma a un certo punto qualcuno piazzò una pietra nella radura per onorare il cadavere del compagno, un altro ficcò un palo in cima alla collina e iniziò a adorarlo inventando il soprannaturale. Ad un certo punto abbiamo iniziato a riflettere, astrarre, giudicare, narrare, imbastire paradossi, interpretare all’istante e di continuo ciò che i sensi percepiscono.
Una sorta di innaturale sdoppiamento interno: da una parte la pura percezione d’essere nostra e del mondo, dall’altra la sua elaborazione fino al punto che l’artefatto dell’elaborazione ha fagocitato l’evidenza di essere: “Penso dunque sono”. Oggi sovente mutato in “faccio dunque sono”, una sorta di ontologia del movimento produttivo continuo: se faccio "sono" se mi fermo sparisco, come se l’evidenza di essere non abbia alcun senso e valore.
Forse non siamo più capaci di percepire che innanzitutto “siamo”, ma potrebbe anche essere che sgattaioliamo dalla primaria percezione di essere dandoci di continuo da fare, perché potenza che non riusciamo a reggere e contenere.