Manco Dio
Nelle teologie cristiane il termine Kenosis dice lo svuotamento che Dio opera di se stesso per assumere la condizione umana in Gesù, fino a essere servo, ultimo tra gli ultimi.
Così, per processo imitativo Francesco d'Assisi si spogliava in piazza, il prete operaio andava in fabbrica e la ragazza di buona famiglia a Calcutta, nelle Missionarie della carità.
Tutti fallivano, anche Dio.
Il problema è che permane, comunque, uno scarto incommensurabile fra le loro condizioni e quelle dei poveracci, perché la compartecipazione sia genuina bisogna essere dentro quella condizione senza volerlo e con il desiderio incontenibile di venirne subito fuori, altrimenti non vale.
Sprazzi di Dio
Per avere sprazzi di Dio aiuta sfasarci dai quadri teorici che abbiamo introiettato, praticare sport estremi favorisce il processo.
In subordine possiamo beccheggiare con ciò che ci accade proprio come ci accade, così da dimenticarci un poco di noi per affidarci al sommo, affidabile, funzionamento. “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa”.
Mutazioni molecolari
Non so se, e quanto, l’lo esista, però l’altro giorno mi era parso d’averne due. Nel far lezione di erboristeria la prima ora avevo parlato di erbe, la seconda sollecitato dai partecipanti avevo raccontato la mia storia personale. In quel uscire dal ruolo, in quel cambiar registro, avevo fatto l’esperienza plastica che nella prima ora ero uno, nella seconda un altro. Prima uno e poi un altro nella percezione di me, nei pensieri, nella voce, nel respiro, nella postura.
Passa qualche giorno e l’amico Orlando Franceschelli parlandomi delle differenti fasi personali che si susseguono in una esistenza, fa riferimento alle “mutazioni molecolari” formulate da Gramsci. In una lettera dal carcere, in un momento drammatico della sua esistenza, così Gramsci prevedeva ciò che a breve gli sarebbe accaduto:
“L’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo ‘individuo’ con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti”[1].
Che con il passare del tempo, col mutare dell’ambiente e delle circostanze, si presentino nella nostra scena psichica e corporale eteronimi pessoani e personaggi pirandelliani è constatazione che, con un minimo di attenzione, facciamo tutti, non solo perché “Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C'è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante”, ma anche perché siamo costituiti da “fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento”, perché “la mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti”, a dirlo così è Hume.
Ma allora io chi sono, e se sono dei tanti quale sono? In questa strana situazione c’è un nucleo stabile che faccia da regia, da àrbitro, da contenimento? Sia come sia cogliere questo pluralismo interno è un buon modo per viverlo anche fuori, consapevoli che le “nostre” concezioni sono intrinsecamente provvisorie e parziali, e poi ci si stacca da noi stessi con tutti i vantaggi del caso.
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1 Per chi volesse approfondire: Antonio Gramsci quelle mutazioni molecolari.
Queer
Oramai è superata la battuta da ranocchia d’acquasantiera, quella che nessuno sa, né in cielo né in terra, quanti ordini di suore ci sono, quanti soldi hanno i salesiani e che cosa pensa veramente un gesuita, soppiantata dal sommo e inestricabile quesito: cosa significa davvero il termine Queer, quello della “Q” nella sigla “LGBTQIA+”. Nessuno, esponenti inclusi, è mai riuscito a spiegare l’identità Queer con poche e semplici parole, più ci si impegna per spiegarlo e più il concetto diventa ingarbugliato e nebuloso.
Penso che il problema derivi da una contraddizione intrinseca che innesca cortocircuiti a raffica. Il nodo strutturale è dato da un nucleo schizofrenico catafatico-apofatico insito nella concezione Queer, che propone una forte e precisa identità con tanto di bandiere per dire al mondo: noi siamo questo mica quell’altro[1], ma nel contempo la cifra e la ragion d’essere di questa identità è abbattere alla radice i concetti stessi di identità e di distinzione. Se le cose stanno così va da sé che risulti intricato rendere ragione di un'identità che nel porsi si elide.
Contraddizione irrisolvibile ma comprensibile, se nel nostro mondo non fossero esistiti luoghi e circostanze discriminatore nei confronti delle minoranze di genere, non ci sarebbe stato alcun bisogno di formulare l’identità Queer e neppure la sigla “LGBTQIA+” da parte dei non etero, che avrebbero condotto la loro libera esistenza senza necessità di definirsi con insidiose modalità tassonomiche.
La tassonomia è scienza necessaria per inventariare le cose, ma ingabbiante e riduttiva per i singoli viventi, elementi unici non raggruppabili in un catalogo. Non è mai esistito coleottero che abbia avuto beneficio dall’essere stato catturato in volo e infilzato in una teca per scrivergli sotto il nome. L’unione fa la forza e che minoranze di genere discriminate definiscano la propria appartenenza ad uno specifico genere, potrebbe rivelarsi a breve termine tattica proficua, ma nel lungo imprigiona di sicuro[2].
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1 Proclamare identità forti è sempre problematico, perché è vero che non siamo uguali agli altri, ma nondimeno senza gli altri non saremmo noi.
2 Michel Foucault già cinquant’anni fa aveva colto queste insidie tassonomiche nelle identità di genere, segnalo a riguardo un articolo interessante di Damiano Fina: Michel Foucault: potere e sessualità. Critica al coming out all’epoca del Pride.
Quota fissa
Nel fare l’erborista mi è capitato che qualche naturopata mi abbia tolto il saluto, perché sostenevo che è saggio far riferimento alla comunità scientifica, o per il fatto che non trovavo differenza qualitativa fra due farmaci con molecola identica, una prodotta artificialmente in laboratorio l’altra estratta da una pianta, giacché il naturopata valutava spazzatura quella sintetica e miracolosa la naturale. Ho anche conosciuto persone, e non poche, che sono morte perché, diffidenti verso la scienza, hanno optato per cure alternative. Per arrivare a tanto deve esserci sotto qualcosa di importante. Constatando le tante persone con concezioni ideologiche esaltate su tematiche non cruciali, mi è venuto d'azzardare una teoria:
quando in massa si andava a messa la domenica mattina, certe posizioni erano rare, ma più Dio moriva più si attivavano concezioni moralistiche e manichee su tematiche minori. Verosimile che siamo costituiti da una quota intrinseca e persistente di sacro, che necessita di continuo alimento e espressione. Se lo scenario disponibile non ci offre circostanze congrue allo svolgersi assoluto e totalizzante che il sacro reclama, le si pompa di valenze simboliche, di sovrappiù di significato, dimodoché affermandole e difendendole l'irriducibile quota di sacro che ci abita possa trovare alimento e espressione.
Nel frattempo
Più sono gli anni che osserviamo ciò che ci accade intorno più abbiamo prova dell’impermanenza di tutte le cose, Buddha aveva ragione.
Visto che questa consapevolezza di complessiva provvisorietà ci preclude qualsiasi meta, demotivandoci e finanche paralizzandoci, tendiamo per legittima difesa a rimuoverla eternando noi e il mondo, dimodoché da quando nasciamo a quando moriamo possiamo, nel frattempo, muoverci combinando qualcosa. Il problema è che questo rimosso, per sua intrinseca natura, torna e tornando ci rode dentro instillando nichilistiche mestizie, che anestetizziamo con distrazioni ad hoc.
Può essere che funzioni meglio vivere appieno il momento presente insieme alla consapevolezza che niente dura, percepita come dimensione di fondo del nostro esistere. Sfondo che ci libera dal mondo e da noi stessi, dalla ventura del mondo pur avendola a cuore; dagli esiti del nostro vivere pur cercando di vivere al meglio.
Forse esiste una giusta misura fra essere e non essere e si ottiene emulsionandoli.
Panteismi
I concetti di Deus sive Natura, "Dio ossia la Natura" e della Causa sui, (la Natura) "causa di sé", ci potrebbero far concludere che Dio è niente di più della natura e si azzera in essa. Il punto è che il Deus sive Natura è concetto più complesso e la causa sui questione più problematica[1]. Differenti interpretazioni dei due concetti generano differenti panteismi.
Dio ossia la Natura potrebbe, in effetti, significare che la natura è costituita e mossa da una intrinseca ulteriorità. In fondo un po’ tutta la storia dell’arte rendiconta questa ulteriorità misteriosa, permeante la prossimità, che le arti tentano di scovare e oggettivare. Così anche la religiosità popolare che, da sempre e a ogni latitudine, di fronte al vivere e al morire intercetta istintivamente un oltre.
Si può discutere se questa ulteriorità, questa trascendenza intrinseca all’immanente, sia funzionamento necessario e impersonale o derivi da una libera volontà superiore, l’importante è coglierla.
Se le cose stanno così Deus sive Natura e causa sui più che conclusioni di indagine ne sono l’inizio.
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1 Una causa preesiste all’effetto che produce e l’effetto viene a esistere a seguito della causa, ma nella causa sui causa ed effetto vanno invece a coincidere, con la spiazzante, controintuitiva, conseguenza che l’effetto in sé inesistente (in quanto effetto) è nel contempo preesistente (in quanto causa, di sé). Se fossimo in piena Scolastica medievale questa contraddizione logica ci porterebbe a concludere che la natura non potendo essere causa di sé è creata da una soprannaturale causa altra. Visto che non siamo nel medioevo possiamo invece ipotizzare che la legge lineare di causa effetto, sia inadeguata per comprendere la causa sui. Causa di sé che segue moti circolari non cronologici e neppure spaziali, dimensioni atemporali e non locali che evocano dimensioni quantistiche.
Metafisica della facciata
Contemplare la facciata della cattedrale di Ruvo, l’erotico aggrovigliarci a un bel corpo, partecipare a un concerto di Vasco, occasioni per scorgere l’infinito nel finito, strategie per stabilire una relazione tra il sensibile e il sovrasensibile, ognuno a modo suo. Capita di intuire che c’è un misterioso di più di ciò che comunemente percepiamo nelle cose, e che ci sono cose che questo di più ce lo svelano un po’.
Dio l’ho visto imbattendomi in un airone, non è difficile vedere Dio se ti accade senza intenzione. Il problema è che desiderio e volontà rafforzano la personalità precludendoci quell’estasi che, staccandoci da noi stessi, ci fa scorgere l’infinito nel finito. La volontà innesca processi, sequenze di considerazioni in successione temporale, in rapporto a un determinato fine, invece Dio appare dalle cose all’improvviso senza motivo, però la faccia non te la fa vedere, non so perché, forse non ce l’ha.
Onnipervadente ulteriorità immanente, inattingibile eppure presente, “ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va”.
Pluralismo psicologico
C’è chi nasce col demone filosofico e constatando che esiste senza essersi fatto, si chiede perché c’è qualcosa invece che nulla, chi il demone non ce l’ha e dà per scontato che lui e il mondo esistono, senza farsi troppe domande. Non c’è concezione migliore o peggiore, il punto è che non potrebbero fare altrimenti. Pluralismo che va rispettato.
Non pochi filosofi considerano l’io e il mondo che percepiamo entità dubbie, ingiustificabili, mere costruzioni e rappresentazioni senza sussistenza propria, vale a dire l’inguaribile frattura individuata da Kant tra la realtà e la sua conoscenza. Sennonché un po’ per istinto, un po’ per abitudine, all’io e al mondo alla fine ci crediamo un po’ tutti, dandoli per scontati. Questo vale non solo per i più che, come me, si conformano al senso comune, ma anche per gli stessi scettici. Hume, filosofo che preciso e determinato affermava l’insussistenza dell’Io e del correlato mondo, viveva una vita intraprendente, ricca di relazioni coprendo ruoli di responsabilità sociale. Negava l’io e mondo connesso ma vivendo un’esistenza da protagonista tutta io e mondo.
Sembra una contraddizione ma tutto sommato la coerenza e l’incoerenza fra il pensare e il fare, è anche data dal carattere di ogni individuo, dal tipo psicologico al quale appartiene come sosteneva Jung. C’è chi estroverso come Hume si coinvolge nella società, mentre altri filosofi sono sempre impegnati a pensare e il massimo del loro relazionarsi pratico con il mondo è portare a passeggio il cane. Altri sono ancora più introversi, riservati e gelosi della loro solitudine, qualcuno un po’ misantropo si mantiene sistematicamente in disparte dalla storia, mentre altri fanno di tutto per mettersi al centro. Difficile valutare se e quanto le loro biografie siano determinate dalla propria filosofia o dal tipo psicologico di appartenenza, e viceversa.
Possiamo anche ipotizzare che Hume metteva semplicemente in pratica la filosofia del “come se”. La chiamano finzionalismo - c’è pure su Wikipedia. Si tratta di finzioni utili a vivere: posso sì concludere che l’io e il mondo per come lo vediamo siano realtà insussistenti, ma se tiro dritto facendo finta che sono vere e reali vivo meglio, anzi di più: tale credenza mi permette, letteralmente, di vivere: si rimarrebbe pietrificati se dubitassimo di continuo della realtà del nostro esistere e di ciò che ci circonda. Così è un po’ anche per il libero arbitrio, non esiste ma credendoci salvaguardiamo responsabilità e imputabilità personali, quindi il buon funzionamento sociale.
Delirio? Sotterfugio? Menzogna nei confronti di noi stessi? Nulla di tutto questo perché il “come se” sarebbe un vero e proprio atto creativo. In effetti dobbiamo riconoscere che questa nostra abitudine a raccontarci storie è davvero performante, visto che grazie a essa mandiamo razzi sulla luna e li facciamo tornare indietro, anche se non abbiamo certezza filosofica del reale esistere, nostro, dei razzi e della luna per come la percepiamo.
Il punto è che la realtà è evento davvero complesso, con leggi relative che cambiano col mutare dei differenti livelli e stati, sia fuori di noi che in noi. Cambi punto di vista e muta il mondo. In questo continuo e complesso divenire possono configurarsi realtà insussistenti in termini assoluti, ma reali a livello relativo.