Oramai è superata la battuta da ranocchia d’acquasantiera, quella che nessuno sa, né in cielo né in terra, quanti ordini di suore ci sono, quanti soldi hanno i salesiani e che cosa pensa veramente un gesuita, soppiantata dal sommo e inestricabile quesito: cosa significa davvero il termine Queer, quello della “Q” nella sigla “LGBTQIA+”. Nessuno, esponenti inclusi, è mai riuscito a spiegare l’identità Queer con poche e semplici parole, più ci si impegna per spiegarlo e più il concetto diventa ingarbugliato e nebuloso.
Penso che il problema derivi da una contraddizione intrinseca che innesca cortocircuiti a raffica. Il nodo strutturale è dato da un nucleo schizofrenico catafatico-apofatico insito nella concezione Queer, che propone una forte e precisa identità con tanto di bandiere per dire al mondo: noi siamo questo mica quell’altro[1], ma nel contempo la cifra e la ragion d’essere di questa identità è abbattere alla radice i concetti stessi di identità e di distinzione. Se le cose stanno così va da sé che risulti intricato rendere ragione di un'identità che nel porsi si elide.
Contraddizione irrisolvibile ma comprensibile, se nel nostro mondo non fossero esistiti luoghi e circostanze discriminatore nei confronti delle minoranze di genere, non ci sarebbe stato alcun bisogno di formulare l’identità Queer e neppure la sigla “LGBTQIA+” da parte dei non etero, che avrebbero condotto la loro libera esistenza senza necessità di definirsi con insidiose modalità tassonomiche.
La tassonomia è scienza necessaria per inventariare le cose, ma ingabbiante e riduttiva per i singoli viventi, elementi unici non raggruppabili in un catalogo. Non è mai esistito coleottero che abbia avuto beneficio dall’essere stato catturato in volo e infilzato in una teca per scrivergli sotto il nome. L’unione fa la forza e che minoranze di genere discriminate definiscano la propria appartenenza ad uno specifico genere, potrebbe rivelarsi a breve termine tattica proficua, ma nel lungo imprigiona di sicuro[2].
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1 Proclamare identità forti è sempre problematico, perché è vero che non siamo uguali agli altri, ma nondimeno senza gli altri non saremmo noi.
2 Michel Foucault già cinquant’anni fa aveva colto queste insidie tassonomiche nelle identità di genere, segnalo a riguardo un articolo interessante di Damiano Fina: Michel Foucault: potere e sessualità. Critica al coming out all’epoca del Pride.