BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Bruno Vergani

Bruno Vergani

Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.

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Venerdì, 06 Settembre 2013 17:59

Diversamente credente: Ateo, Agnostico...

Ho visto, e invito alla visione, del video relativo al confronto fra Roberto Mancini e Duccio Demetrio: «il divino è nelle cose finite: senza limite è la terra? Per spiare oltre i nostri confini» - Filofest 2013, incorporato alla fine del post.

Ho apprezzato di Demetrio l’accenno a tematiche cristiane già anticipate dalla filosofia greca, mi ha lasciato invece perplesso - forse a causa di una certa gravità espositiva - il suo invito a contattare e abbracciare la naturale terra, proposta un po’ asfittica e precettistica.
Mi è sembrato invece che Mancini - nonostante a tratti si rivolgesse alla platea come a un gruppo di boy scout – grazie al suo approccio personal-esistenziale abbia espresso nel metodo una posizione dinamica, aperta e proficua e nel merito più convincente nel sollecitare e invitare all’ “Altro”. Pur diffidando della parola amore, detta forse con troppa disinvoltura da Mancini, ho percepito convincente la sua proposta di partnership.

L’uomo che ricapitola la sua esistenza raccogliendo legni levigati a capocchia dall’apatico Tevere - del quale Demetrio ha letto uno stralcio autobiografico – tutto sommato appare isolato e desolato, incapace di fruttificare perché solo. Archetipo drammatico e potente dal quale intendo emanciparmi.

Ignoro se, e quanto, l’ “Altro” esposto da Mancini mi preceda, mi basta e avanza che accada con i miei simili. Se essere credenti, anche cattolici, è condividere quanto ha detto Mancini, lo sono anch’io, ma nella seguente forma: “diversamente miscredente” (l’eventuale contiguità con l’handicap non mi offende).

 

 

 

 

Mercoledì, 04 Settembre 2013 13:38

Limbo. Racconto

Quella domenica di fine gennaio mi ero svegliato strano, il mondo non aveva più significato e a me era passata la voglia d’inventargliene uno. Esausto volevo riandare nel sonno profondo, là dove non si parla, non si pensa e non si sogna eppure si esiste ancora. Un bel posto. All’inizio del pomeriggio ero ancora avvolto nella coperta di lana merino, mummia che voleva dormire. Dormire ancora. Dormire profondamente. Dormire per sempre. Troppa fatica riattivarsi. Troppo fastidioso scoprirsi. Troppo complicato allacciarsi ancora le scarpe. A che pro? Ma la vescica stava per scoppiarmi e nel correre al cesso la vita era continuata.
Svuotato avevo incontrato nello specchio un uomo quasi vecchio con la faccia da uovo sodo e gli occhi spalancati con pupille fisse all’insù, molto all’insù. Ventre gonfio, mani magre, baffi spessi rasati ai lati come Hitler e Chaplin e gli incisivi superiori un po’ gialli. Probabilmente ero io.
Uscito da casa percorrevo senza motivo il marciapiede a testa bassa. Osservavo come una cinepresa il porfido che scorreva sotto di me. Avevo dimenticato i nomi di quasi tutte le cose e quelli che ricordavo non mi servivano più. Forse ero diventato un gatto. Un forestiero mi aveva chiesto un’informazione così avevo rialzato la testa e nell’indicargli la piazza del mercato era tornato uomo. Lì mi era venuta voglia di fumare. Il vecchio tabacchino mi aveva dato due scatole di Toscani extra vecchi ed io nove euro e ottanta centesimi. Tutto a posto, tutto prevedibile, tutto funzionava ancora.
Forse erano stati gli sconosciuti incontrati la sera prima ad alterarmi, quelli che si erano seduti, proprio davanti, nel bar della piazza. Quei tre maschi con le mani da donna. Quelli che mangiavano pane e sorseggiavano del rosso in silenzio, poi improvvisa la parola. Nell’ascoltarli un torpore dalla pancia mi si era espanso in tutto il corpo, forse anche più in là. Avevano detto cose che non ricordavo più, ma che mi davano ancora una specie d’agorafobia letargica. Si erano alzati a sincrono, i bastardi, e attraverso la vetrina li avevo visti sparire ad est mangiati dal buio e il giorno dopo mi ero svegliato gatto con la voglia di diventare pietra.
Corroborato dalla nicotina nel tardo pomeriggio ero andato rapido al bar per indagare, la barista nel farmi un espresso mi aveva risposto di spalle:
«Si che me li ricordo, tre di passaggio che parlavano inglese… Per me erano gay». Tutto a posto, tutto prevedibile, tutto funzionava ancora. Mica tanto. Io li avevo sentiti parlare italiano.
Nell’uscire dal bar mi ero aperto un passaggio attraverso un capannello di anziani cacciatori. Iniziava a nevicare ed era quasi buio ma loro chissà perché rimanevano lì, la forza delle loro voci mi distraeva dallo sforzo di far emergere dalla memoria le facce dei tre bastardi. Li avevo salutati distratto, però ero rimasto incuriosito da una raffica di bestemmie che avevano intercalato ai discorsi di caccia, proprio mentre gli passavo vicino. Bestemmie di una qualità precisa. Qualcuno n’aveva sparata una doppia in rapida successione come faceva agli stornelli nel bosco:
«Peto di Maria Vergine antartica! Merda del Divin Pargolo!»
Un altro aveva latrato: «Mestruo immacolato di Santa Teresa!»
Nell’allontanarmi dal gruppo le litanie erano cessate di colpo come i temporali estivi. Che sia stato proprio io a galvanizzarle? D’istinto era tornato indietro per una verifica sul campo, percorsi due passi e mezzo avevo sentito un inequivocabile: «Minchia vagante di San Tommaso d’Aquino!»
Tornato a casa avevo cercato la Bibbia, da qualche parte doveva esserci ancora una copia e dentro doveva pur esserci scritto se ero diventato un diavolo che aizzava alla bestemmia, o un angelo che faceva incazzare i diavoli che albergavano nei cacciatori, o un mix di tutti e due, ma ero troppo stanco e il giorno dopo era lunedì, l’ufficio m’aspettava. Meglio lasciar perdere la Bibbia e riposarmi per poter continuare il mio lavoro d’impiegato in pratiche automobilistiche. Meglio onorare il regime dell’appuntamento, meglio continuare ad essere il ragionier Malagnino. Ivo Malagnino  il single del paese. Forse nel compiere ancora per bene il mio lavoro, il mio dovere, tutto si sarebbe sistemato spontaneamente e l’energia di vivere mi sarebbe tornata nel rinnovare ancora patenti, nell’elargire ancora targhe ai motorini, nel leggere ancora il giornale e, la sera, nel masturbarmi ancora facendo memoria delle cosce di Ilaria, la collega specializzata nelle certificazioni degli impianti GPL.
Ero arrivato in ufficio puntuale dalla mia postazione, una scrivania dozzinale vagamente liberty, interpretavo a fatica il mondo, però funzionavo ancora. Nel riscrivere numeri che mi regalavano stabilità consideravo che non avrei bevuto più, perché cinque boccali di birra da mezzo litro avrebbero potuto far venire le mani da donna anche a Geppino, il meccanico convenzionato con l’agenzia che revisionava gli autoarticolati. Sei boccali poi, come quelli che avevo ingurgitato sabato sera, avrebbero potuto farlo svanire il Geppino… Svanire per sempre ad est, inghiottito dal buio come in un film di Sergio Leone.
A metà mattinata mi piaceva far finta d’essere tornato normale e poi, anche se stanco, un po’ normale lo ero per davvero. Anche se:
1 nostalgico del sudario in lana merino;
2 affascinato dall’inorganico;
3 incazzato con i tre fantasmi del bar;
dei punti fermi da condividere con i miei simili ne avevo ancora:
nel lanciare in aria una moneta da cinquanta centesimi ricadeva sempre a terra; 3 per  2 faceva sempre 6 e se mangiavo troppo cioccolato mi veniva sempre la diarrea proprio come accadeva al mio capo, il dottor Saracini, Mario Saracini, proprietario dell’agenzia.
Anche se in altre parti del cosmo la moneta non è assodato sarebbe tornata giù e 3 per 2 poteva anche fare un’altra cosa, probabilmente il cioccolato mi avrebbe procurato la cagarella anche su Sirio. Meglio, però, starmene tranquillo, mimetizzato coi normali, lì nella mia nicchia, quella del mio pianeta, quella del mio paese, quella della mia gente, quella delle scrivanie dozzinali in stile floreale, quella del bel culo della moglie del barista.
Un bisticciar di colleghe mi aveva interrotto il pensare, Ilaria aveva deragliato su un congiuntivo ed Elvira l’aveva fatta sentire indegna d’esistere. Ero lì lì per dire la mia perché Ilaria meritava solidarietà, invece l’altra  sarebbe stato meglio non fosse mai nata. Non tanto per quel suo ostentato doppio mento e nemmeno per quei suoi preamboli infiniti nell’esprimersi, ma per la montatura degli occhiali che aveva sulla faccia. Retrò neri e lucidi. Con aste enormi e tre brillantini sopra.
Troppo faticoso, troppo complicato, troppo fastidioso dire la mia. A che pro? Meglio stare zitto. Meglio continuare a fare il ragioniere. Meglio stare fermo. Meglio rimanere immobile. Mica potevo dire, a quella col doppio mento e gli occhiali con i tre brillantini sopra, che ogni volta che la vedevo uscire da chiesa e dar cinquanta centesimi al ragazzotto ghanese che stazionava sempre lì non lo faceva per carità, ma perché inconsapevolmente attratta da quel coso enorme che il mendicante aveva sotto i jeans, più grosso, più nero e più lucido dell’asta dei suoi occhiali. Meglio starmene immobile, zitto. Da tanto tempo facevo così ed ero rimasto vivo.
Avevo appreso da ragazzo ad emulare gli scarafaggi in pericolo che per tollerare l’angoscia fan finta d’essere morti. Un vecchio prete bastardo e esaltato mi faceva sempre leggere la storia di un convertito, avevo letto e riletto il testo per poi interpretarlo al teatro amatoriale della parrocchia dove facevo la parte del diavolo. Lo spettacolo terminava con il protagonista, un ex Don Giovanni diventato frate, che all’epilogo della sua esistenza, un istante prima di schiattare, sentenziava:
«Tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il cielo sia lodato!) non è la nostra».
Rapido l’incantesimo del quietismo mi si era incistato nel cervello: dovevo semplicemente rimanermene immobile, fiducioso che se stavo davvero fermo un qualche Dio mi avrebbe salvato; se invece avessi preso iniziativa per raggiungere mete avrei attirato tragedie. Davvero semplice.
Da tanto tempo al Dio del vecchio prete non ci credevo più eppure, sotto, sotto, non escludevo che se fossi rimasto assolutamente immobile un Mandrake celeste, o una qualche Minchia Vagante, mi avrebbe favorito un destino benevolo. Mi avrebbe di qua e forse anche di là, nel regno celeste delle anime immortali, sistemato le cose, tutte le cose. Perché no? Tutti in paese facevano delle cose strane, non era obbligatorio ma neppure vietato che io facessi 'o scarrafone mistico.
Il vecchio tabacchino mi aveva persino confessato che, ogni mattina da più di cinquant’anni, nel vestirsi si allacciava sempre la scarpa sinistra prima della destra per propiziare gli incassi ed esorcizzare disgrazie.
Come succede quando si accudisce un cane mi ero affezionato al mio quietismo, mi piaceva, lo difendevo e così quel lunedì sera all’invito di Ilaria alla festa avevo risposto:
«Grazie ma stasera non posso proprio venire, ho un impegno».
E mentre Ilaria in minigonna mozzafiato festeggiava in bella compagnia il suo trentasettesimo compleanno stavo onorando il mio urgente e improcrastinabile impegno, nel posto dove «tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il cielo sia lodato!) non è la nostra» là stravaccato sul divano, anestetizzato dalla birra e ipnotizzato da un documentario di Piero Angela sull’antica Roma.
Fu proprio così che la mattina successiva, impegnato da protagonista assoluto in un trafiletto di cronaca provinciale, non mi ero presentato al lavoro:

«ICTUS FULMINANTE TROVATO MORTO CON LA TELEVISIONE ACCESA E IL SIGARO IN BOCCA»

Elvira col doppio mento più ostentato del consueto e i suoi occhiali  retrò, neri, lucidi, con aste enormi e brillantini sopra inforcati sul naso, si era precipitata in chiesa per raccomandarmi a Dio. Aveva chiesto al Creatore che mi facesse riposare quieto.

Nebbia, qua e là dei vecchi seduti su grandi massi rotondi come la sfera di Parmenide, uno con la barba canuta legge un libro enorme. Poco più in là selvaggi con la faccia pitturata danzano in cerchio. Qui è facile capire che non stai sognando ma sei morto per davvero: la gravità è quasi assente e tutto è continuo-infinito-presente. Questo posto i cattolici nella loro dottrina escatologica lo chiamano Limbo, non è male, nessuno ti rompe i coglioni e c’è il cinema. Proiettano ad ogni ospite il lungometraggio della sua esistenza in vita, il mio s’intitola: «Le gesta di Malagnino, ragioniere di provincia» e mi fa rivedere tutta la storia del personaggio che credevo d’essere. Qui ognuno visiona il film che si merita. Per ammetterti nel Limbo non devi essere battezzato così da avere ancora addosso il peccato originale. Si tratta di una colpa impersonale a trasmissione genetica, è per questo che qui ci così sono tanti neonati e anche pargoli, sono così numerosi che hanno dovuto aprire una sezione apposita, si chiama “Limbo dei bambini”. Sono lì confinati tutti i bambini morti prematuramente che, anche se non hanno avuto il tempo di compiere neppure un peccato personale, sono tuttavia marchiati in eterno dal peccato originale: un piccolo segno sull’alluce destro a forma di XY. Ce l’ho anch’io, ma è strano che ce l’abbia. Io da bambino ero stato battezzato e il Battesimo smacchia l’XY. Forse nel rito battesimale qualcosa non ha funzionato… Avranno omesso qualche passaggio, o forse l’acqua benedetta era inquinata, oppure il Battesimo mi era stato officiato da un finto prete. Chissà? Se un qualche Arcangelo guardiano scoprisse che sono battezzato mi radierebbero all’istante, ma qui sto bene e voglio rimanerci. Per occultare meglio la clandestinità sto per i fatti miei, mi viene facile anche nel regno dei mortali ero un introverso. Nel mio settore ci sono solo ospiti adulti, uomini e donne non lavati dal peccato originale perché nati e vissuti prima di Cristo, oppure che non sono stati informati della sua venuta nel mondo. Moltitudini e moltitudini di disparate etnie che sfavoriti dalla sorte non hanno conosciuto il cristianesimo, centinaia di miliardi tutti qui, ma il posto è capiente e non si sta male. Il problema serio è un altro, tempo fa un mattino di settembre un prelato aveva iniziato a sparare minchiate su questioni dottrinali cruciali, aveva iniziato a dire che il limbo andrebbe abolito e il Papa lo aveva preso sul serio. Da qualche tempo il catechismo, del Limbo, non ne parla più. Brutto segno. La CTI, Commissione Teologica Internazionale, ha addirittura emanato un documento per eliminarlo. Lo sfratto imminente mi preoccupa. Dove mi destineranno? Tra Paradiso e Inferno opterei per il Purgatorio, almeno lì hai qualcosa da fare, ma qui è meglio. Paradiso e Inferno sono  posti da incubo, rimani lì con l’occhio fisso in eterno … Che la visione sia beatifica o terrifica non me ne frega un cazzo, è la fissità perpetua che mi angoscia. Però ci sarebbe una scappatoia per non eliminarlo: la teologia dice che oltre ad essere un luogo il Limbo è anche uno stato. In tal caso, in quanto luogo non luogo, non darebbe fastidio proprio a nessuno e potrebbero anche conservarlo. In fondo a parte la ressa e l’assenza di cristiani è un posto accettabile. Al cinema ci vado spesso, Il film del mio transito terrestre lo proiettano in  3D a colori strani, una specie di scala d’azzurri, anche l’audio è in 3D, forse 4. La scena che più mi piace è quella sul finire del primo tempo, quella dell’ospedale: mi trovavo ricoverato in una stanzetta a due letti, la 3, nel letto 6, con un piede e un femore rotti. Fratture gravi, scomposte. Stravaccato sul letto cercavo di rammentare come avevo fatto a ridurmi così, ricordavo con precisione che stavo guidando e l’autoradio cercava i canali in automatico, girava, girava, girava… ma poi si fermava sempre lì, sul display c’era scritto “F.M. 95.108 Radio Maria Madre” e una voce di femmina mi parlava, aveva la voce strana come di pornostar balcanica però non diceva parolacce. Correvo di brutto, l’incrocio con corso Cavour si avvicinava rapido e il semaforo dal verde era passato al giallo, rapito dai sospiri che venivano fuori dall’autoradio era confuso se accelerare per liberare l’incrocio o frenare. Frenavo, acceleravo, frenavo ancora, mentre quella della radio col fiato-voce simulava una specie d’orgasmo e la gamba destra mi si era rizzata e avevo accelerato proprio quando usciva il rosso e dall’altra parte passava il furgone bianco del fiorista. E lì sul più bello finisce il primo tempo.
Quando non ho voglia di rivedere il mio film, o nell’intervallo tra i due tempi, mi allontano dal Limbo e vago nel mondo. Mi intrattengo nel monitorare l’ultimo giorno d’esistenza di qualcuno, non li scelgo, si presentano a capocchia. Una volta mi è capitato di osservare uno morire secco stecchito mentre ballava al night con l’amante, ma i più divertenti da veder schiattare sono i soggetti pii. Diffido della gente pia, soggetti che da adolescenti torturavano di nascosto gatti randagi. Il secondo tempo del film inizia col bel primo piano del mio vicino di letto, uno proprio decrepito che sembrava già morto. Aveva un cancro nelle vertebre e in mano una piccola radio che si era portata da casa, la teneva sempre accesa e l’unico canale che riceveva bene era “F.M. 95.108”, proprio quello della santa-porca che mi aveva fatto scontrare col furgone bianco del fiorista. Il volume lo teneva basso per non disturbare i degenti del reparto, ma dal mio letto, lì in quel corpo di ragioniere, riuscivo a sentire ancora la voce di quella femmina… Lei mi parlava, faceva lunghe pause e ci sospirava dentro, facevo l’indifferente come se stesse parlando a tutti, ma nell’intimo mi ero convinto che parlasse proprio e solo a me. Ecco! Il film è già cominciato: fanno vedere la radio, sento già lo stacchetto musicale “Abbiamo contemplato le tue meraviglie”, attacca sempre l’organo e subito un coro di pargoli in sottofondo con sopra la voce di un maschio castrato, che annuncia: «Dagli studi di Radio Maria Madre suor Mariangela Petronilla Scalzi conduce: “Cori angelici”».
Ecco adesso arriva lei…. All’attacco fa sempre una pausa dove inspira tutta l’aria del mondo, poi dalla gola profonda la espira lentamente per far vibrare le corde vocali. Eccola:
«Caro fratello… Non dico cari fratelli e sorelle perché parlo singolarmente all’anima di ognuno di voi… Si proprio a te caro ascoltatore unico e irripetibile… Mi perdoneranno le ascoltatrici se chiedo, dunque loro, il piccolo fioretto di tradurre in “sorella” quando dico “fratello”. Quindi, caro fratello, anche oggi la tua sorella in Gesù, Mariangela ha contemplato le meraviglie del Signore e ti parlerà di come gli angeli sono organizzati in differenti ordini…»
Lei rapita dalle alte sfere ed io mi trovavo dentro quel corpo di ragioniere azzoppato e con la patente ritirata per un anno. Bastarda!
«Caro fratello… ogni Gerarchia angelica contiene tre Ordini o Cori… Che in decrescente ordine di potenza sono: prima Gerarchia: Serafini… Cherubini… Troni o Ophanim…»
Ophanim? E’ un bel nome cazzo!
«Beneamato fratello… appartenenti alla seconda Gerarchia angelica sono: Dominazioni… Virtù, Potestà; terza Gerarchia: Principati, Arcangeli, Angeli… dunque caro amico in Gesù… ebbene si! Il tuo angelo custode che ti protegge dal peccare e dalle disgrazie appartiene proprio alla terza Gerarchia…»
Proteggere dalle disgrazie? E mi aveva fatto schiantare sul furgone bianco del fiorista! Eh si! Mi prendeva per i fondelli, mi teneva per le palle la Mantide… A questo punto del film, se ben ricordo, la porca dovrebbe spiegare i Serafini… Si i Serafini…
«Caro fratello i Serafini da "Seraph"… appartengono al più alto ordine di angeli, asservono il ruolo di guardiani del trono di Dio e continuamente cantano le sue preghiere. Quattro di loro circondano il trono di Dio, dove bruciano eternamente senza mai consumarsi nell’amore e nello zelo per Dio. I Serafini sono facili da riconoscere sai… Sono angeli con sei ali…»
Sei ali? Non la reggo più! Meglio allontanarmi dallo schermo e camminare veloce nei corridoi del Limbo per smaltirmi l’incazzatura. Sei ali? Lì all’ospedale mi sarebbe bastato un corpo con due piedi che funzionavano ancora, invece ero bloccato in quel corpo di ragioniere storpiato e il mio orizzonte erano le pareti della stanza e una volta al giorno il corridoio, quando mi portavano con la carrozzina arrugginita a defecare nel bagno dei disabili. Sei ali? Manco qui nel Limbo. Sei Ali? Manco allo zoo. Sei ali e aveva sospirato di brutto… Sei! Proprio come il numero del mio letto d’ospedale. Sapeva tutto la porca. Mi controllava… E certo! Nel film non lo fanno vedere ma ricordo bene che all’ingresso del nosocomio c’era scritto con caratteri di bronzo su un marmo nero: «Ente Ecclesiastico» e nell’angolo in fondo al corridoio c’era anche la statuina della Madonna con dodici lucine sempre accese intorno alla testa, intorno al cranio immacolato, all’osso sacro della sua testolina. Era sua giurisdizione quell’ospedale, giocava in casa la Mantide della radio! Ecco perché la sua complice, la caposala che bagnava le calle davanti alla statua della Madonna, aveva sorriso nel vedere il mio compagno di stanza sintonizzato su “F.M. 95.108”. Anche le infermiere che la accompagnavano erano soddisfatte come lei, godevano nell’intimo nell’ascoltare Radio Maria Madre mentre facevano iniezioni nei culi. Una con la cuffiettina celeste mi si era avvicinata, nel cambiarmi la flebo aveva fatto un sorrisino da imbecille, proprio come quello di Santa Veronica Giuliani nell’immaginetta che, quand’ero piccolo, mia nonna teneva sul comodino. Era falsa come Giuda, si vedeva che quel sorrisino ebete occultava orribili intenzioni. Tutto il personale ospedaliero apparteneva sicuramente ad un’associazione a delinquere metafisica. Gente pericolosa. Avevo escogitato di comportarmi come se  fossi uno di loro perché non mi facessero fuori. Ricordo che la mattina dopo il primario, nel fare il giro, mi aveva chiesto perché avessi stampato sulla faccia un sorriso strano. “Riso spastico” aveva detto. Non gli avevo risposto, mica potevo dirgli che per mimetizzarmi facevo la faccia di Santa Veronica Giuliani. Il professore aveva fatto scrivere nella cartella clinica:
«Si sospendono gli oppiacei in qualsiasi forma e dosaggio e si prosegue la terapia antalgica con non steroidei: Naprossene sodico mg 550; 4 capsule due volte al dì dopo i pasti».
Dopo pranzo n’avevo ingurgitate due, però la faccia da Santa Veronica non mi era andata via e il dolore alla gamba mi era ritornato fortissimo e lei era lì, ancora lì, sempre lì che mi sussurrava dalla radio del vicino di letto. Quando attaccava a sospirare ero colto da un priapismo che mi faceva più male della gamba rotta, la sinistra. Ricordo che mi ero ficcato due pezzi di carta igienica nelle orecchie per non sentirla, ma il coso mi era rimasto ancora dritto e grosso. La caposala si era accorta della carta igienica nelle orecchie e anche del coso grosso e mi ha aveva fatto una faccia che non gli avevo mai visto. Faccia da complice della Mantide che mi parlava dalla radio. Ero rimasto muto, come potevo spiegare che i sospiri della radio mi galvanizzavano il coso. Il primario non era ancora passato, lui avrebbe detto “ipertrofico” e fatto scrivere delle cose sbagliate nel diario clinico. Lui non sapeva che la Mantide me l’aveva fatto diventare ritto, come un Serafino in missione speciale, perché il membro gagliardo asservisse a ruolo di guardiano di un qualche trono divino. Asservire? Che suono pericoloso… Eh si… ricordo bene come godeva la Mantide nel pronunciarlo, lo scandiva lenta, lo sibilava sottovoce: assssssservire… Vipera cornuta.
Un’ infermiera si era accorta che nessuno veniva a trovarmi. Per me era normale, per lei no. Mi si era avvicinata per sussurrarmi che nell’ospedale c’erano due gruppi di volontari che aiutavano i malati: la “Pia Associazione Dame della Misericordia” e la “Legione di Maria”. Muto gli avevo dato il pigiama sporco e cinque euro in offerta. Nel Limbo non ho più di questi problemi, qui emettiamo secrezioni d’acqua distillata e non abbiamo necessità di lavarci. Il posto più lercio è il Purgatorio, lì spurgano ad oltranza roba strana e nonostante enormi lavatrici rotanti in perpetuo puzzano di brutto. Passate manco due ore il pigiama era lavato, non so se dalle Dame o dalla Legione. Me l’aveva riconsegnato quello che vendeva i giornali nel reparto, confezionato in una busta di carta ben piegato. Era un po’ umido e con un odore strano. Molto strano. Odore di calla, di giglio, di secrezione femminea mista ad ammorbidente. Odore di lei. Nella busta c’era un volantino giallastro come quelli che i vivi trovano sotto il tergicristallo quando posteggiano in periferia, quelli che pubblicizzano ai mortali cucine kitsch a prezzi stracciati. C’erano scritte poche parole ma belle grandi:

«CARO AMMALATO, OGGI LA TUA CROCE PUO’ DIVENTARE GIOIA. OFFRI LA TUA SOFFERENZA PER LE VOCAZIONI SACERDOTALI!!!»

Avevo già dato cinque euro… La Mantide era sicuramente la mandante del messaggio, insaziabile la vampira voleva succhiarmi tutto, a quelle come lei piaceva far soffrire i maschi, proprio come la statua della Madonna, quella nell’angolo del corridoio dell’ospedale, quella con le dodici lampadine sempre accese intorno alla testa, quella che schiacciava la testa al diavolo. L’avevo guardata bene la madonnina di gesso colorata di turchese, il faccino faceva una espressione autistica, un mix di sofferenza e ebbrezza; il diavolo col tallone della Madonna sulla testa tirava fuori un po’ la lingua ed esausto ghignava eccitato. Non capivo se piaceva di più alla Madonna schiacciare il diavolo o a lui essere calpestato, manco qui dal Limbo trovo risposta. Io da diavoli e madonne non ci voglio andare, gente perversa, qui al Limbo siamo più seri, non ci mettiamo i piedi in faccia. Ricordo che la caposala sulla colonna vicina alla statua Madonna aveva appiccicato, col cerotto, un manifesto del Ministero della Salute a prevenzione delle patologie ossee:
« POSSIBILI CAUSE DELLO SPERONE CALCANEARE:
1.    problemi posturali;
2.    lavori pesanti e nei quali si mantiene sempre la stessa posizione;
3.    sport come il basket e la corsa;
4.    soprappeso».
“ 5. Calcare la testa al diavolo” però sul manifesto non l’avevano scritto. Forse il Ministero della Salute aveva appurato che la testa del diavolo era gommosa e nel pestarla non procurava traumi. Anche qui nel Limbo abbiamo corpi che un po’ assomigliano alla gomma piuma, se ne fossi stato attrezzato quand’ero Malagnino non mi sarei spaccato nello sfondare il furgone bianco del fiorista.
Ricordo che il mio vicino di letto, quello col cancro nelle vertebre, quello così decrepito che sembrava già morto, era stato dimesso dopo pochi giorni perché morto per davvero. Non l’ho mai visto qui nel Limbo, chissà dove sarà finito? Era là nel letto con la radio accesa e nessuno si era accorto che fosse cadavere da un po’. Per tutta la mattina avevo sentito nella stanza puzza di pollo scaduto… Però lui aveva la faccia rilassata, non l’avevo mai visto così in forma. La caposala, la banda delle infermiere e forse anche la statuina della Madonna, si erano sentite beffate da quel suo andare via spontaneo, come se niente fosse. Avrebbero voluto confortarlo nell’agonia, a loro piacevano le agonie e le prolungavano a dismisura, ci inzuppavano il pane, più lunghe erano e più godevano. Raggiungevano l’estasi quando qualcuno rantolava con un pizzico di cervello ancora funzionante, quel giusto per fargli sentire ancora il dolore. Facevano il possibile e l’impossibile per non far arrestare il cuore del sofferente: pompa di benzina che trasformava in preti i ragazzi normali; sofferenza dell'umanità benzina che faceva funzionare Dio che così alimentato ardeva ed esisteva, nessuna musica dalle alte sfere ma rumore di fornace. La figlia del morto aveva donato la radio al nosocomio e la caposala l’aveva pulita con l’alcol per darla al nuovo compare di stanza:
«La tenga lei, così passa un po’ il tempo… Monsignore».
Quel vecchietto longilineo messo peggio di quello di prima era un monsignore cazzo! Mi sentivo in trappola, fottuto. L’avevo lì a manco due metri il monsignore, sdraiato nel letto di quello che era morto. Per non farmi notare fissavo il soffitto con la faccia da Santa Veronica Giuliani, ma lui con un filo di voce mi aveva parlato:
«Ha dolori così forti che non le va di parlare? Bravo… Si vede che li sopporta con letizia…»
Già mi vedevo agonizzante mentre pompavo carburante per far funzionare il carrozzone cattolico… Ero rimasto muto, pietrificato, inorganico e il porco aveva smesso di guardarmi e acceso la radio. Imbranato girava la manopola in cerca di canali, sapevo che si sarebbe fermato lì… E l’aveva fatto con un volume un po’ più alto di quello che era morto. A quell’ora la Mantide non c’era, trasmettevano «Quindici minuti con Padre Celestino, demonologo e mariologo.»
Basta con i ricordi, meglio rivedere in presa diretta… Ecco al cinema sta proprio per arrivare la scena del demonologo-mariologo che parla dalla radio:
«Cari Fratelli Maria ci insegna l’umiltà e, ogni giorno, ci dice “Io sono meno che niente ma Dio mi ama!”»
Che voce da coglione il demonologo! Da vivo non mi ero accorto. Quando ero arrivato nel Limbo il film della mia esistenza mortale mi era piaciuto così tanto che l’avevo rivisto, d’un fiato, per sette volte, ma adesso certe scene non le reggo più e abbandono la visione, forse sto invecchiando. Il demonologo aveva detto “meno che niente”, ma dal tono della voce adesso capisco che con quel “io sono meno che niente…” voleva invece dire “io sono una merda ma Dio mi ama”. Quindi Iddio amerebbe la merda? Che strano. Anche il monsignore che ascoltava la radio era perplesso, ricordo che per non perdere la fede aveva girato rapido la manopola in cerca d’altri canali, ma poi aveva preferito il mariologo-demonologo al gracchiare indistinto di musiche punk, ma d’improvviso aveva suonato il campanello perché gli mancava il fiato e in due minuti era già in coma. Apriti cielo! La caposala ingorda di sofferenza aveva convocato le subalterne, il primario e il cappellano. Il primario non c’era, un suo aiuto aveva fatto di tutto per conservare il monsignore in vita senza che ritornasse cosciente. Nella foga non avevano spento la radio ed il mariologo-demonologo continuava a sparare minchiate e siccome quando muori l’udito è l’ultimo senso che ti abbandona il monsignore se lo sarà cuccato tutto… Una morte orribile. Avevano allestito un paravento per occultarmi la visuale i cannibali, però vedevo la silhouette del cappellano che impiastrava la faccia d’olio al morente come si fa nel cucinare il pollo alla diavola, una roba schifosa che chiamavano “unzione degli infermi”. Per sua fortuna il monsignore era morto prima che lo succhiassero tutto. Ricordo che l’avevano messo su una portantina per spedirlo alla camera mortuaria, spento la radio e appoggiata, tutta imbrattata d’olio, sul mio comodino. Ero preoccupato… non di sporcarmi il pigiama, ma che tutti quelli che l’avevano toccata prima di me erano schiattati rapidi come birilli. Non sapevo se toccarla per riaccenderla… Ma a quell’ora arrivava lei e mi dispiaceva rinunciare alla sua voce. Dovevo scegliere tra Eros e la Morte. Avevo scelto Eros e chissà perché ero rimasto vivo. Zoppo ma vivo. Che gran bastarda la Mantide forse un po’ gli piacevo, peccato non sia qui nel Limbo, quelle così vanno in Paradiso un posto triste che assomiglia ad un reparto psichiatrico.
Quand’ero vivo avevo conosciuto un agnostico, un bel tipo, uno da Limbo, ma che invece desiderava il Paradiso. Mai contenti gli umani. Pregava così:
Dio credo in te perché se esisti ottengo eterna salvezza e se non esisti ho comunque vissuto un'esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere,
Dio se esisti ed io ci ho creduto:               +              (mi è convenuto);
Dio se non esisti ed io ci ho creduto:        x              (non ci ho perso né guadagnato);
Dio se esisti ed io non ci ho creduto:         -              (ci ho perso);
Dio se non esisti ed io non ci ho creduto:  x              (non ci ho perso né guadagnato).
E si udì una voce nel cielo: «Ma per chi cazzo m’avete preso!». Il Dio d’Occidente arriva dal Medio Oriente, a Lui non piace il Totip metafisico preferisce far sgozzare capretti per cuocerli su sterpi infuocati, poi ordina al popolo di ingurgitarli con cipolla cruda. Abramo, Isacco, Giacobbe… Nel Limbo ho incrociato un paio di Patriarchi qui di passaggio, odoravano di capra e cipolla e avevano falli enormi.  
Qui è meglio del Paradiso però mi manca la voce della Mantide, meglio non pensarci la posso sempre riascoltare nel film, adesso basta con i ricordi, meglio dare un’occhiata ai mortali… il Limbo dopo un po’ diventa noioso, ma di tanto in tanto mi è concesso di tuffarmi nel mondo, però non posso scegliere il luogo. E’ un po’ come giocare alla roulette, non so mai dove andrò e chi incontrerò, può capitarmi di tutto. Adesso faccio una specie di respiro e mi immergo… Taranto centro. Non male. Per non pestare la merda dei cani cammino invisibile a testa bassa, ma all’incrocio con viale magna Grecia la rialzo per non essere pestato dall’autobus come usano i mortali. Sotto al civico 109 c’è appiccicato un manifesto:
«FESTEGGIAMENTI POPOLARI DI SANTA RITA:
COM’E’ BELLO IL MONDO. COM’ E’ GRANDE DIO!»
Seduto sul marciapiede uno che assomiglia a Primo Levi tace.
Dal mondo dei mortali certe volte ritorno rapido nel Limbo, altre volte vengo sballottato di qua e di là da una qualche forza ignota, forse magnetica. Taranto già scompare e vedo le Valli di Comacchio. Entro in un ospizio, secondo piano sala televisione, sopra una poltrona sgangherata nell’angolo destro c’è un vecchio dal ventre immenso. A tre quarti del varietà su RAI 2 muore senza accorgersi mentre guarda ballerine agitarsi. Tutto era cominciato a sua insaputa ottantatre anni prima da una goccia di sperma e un ovulo vagante. Il mio tempo di permanenza nel mondo è scaduto, rieccomi nel Limbo. Chissà perché sulla terra ho visto morire proprio quel vecchio di Comacchio invece che una ragazzina di Boston? Forse perché dovrei indagare come da uno spermatozoo e un ovulo così piccoli possa venir fuori un ventre così immenso? Perché possa rendermi conto che è davvero possibile vivere tutta un’esistenza senza senso e neppure motivo? Esisterà pure da qualche parte del mondo, dell’universo, del cosmo, qualcuno nato, vissuto e morto per un motivo? Ma il vento soffia dove vuole… Ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va… E mi ha portato a Comacchio. Qui nel Limbo non puoi programmare niente, il trono di Dio è vuoto e intorno danzano anarchiche forze magnetiche, si manifestano con lampi fatui giallastri, nell’intravederli mi ritorna in mente il primo ricordo avuto da vivo quando infante non sapevo ancora di chiamarmi Ivo Malagnino: nell’osservare il fuoco di una stufa percepivo di esistere. Fuoco d’essere sorto spontaneo non so da dove, non conosco il perché, non so come. Essere… è l’unico capitale che avevo sulla terra e che ho ancora nel Limbo; essere… E’ l'unico problema che avevo da mortale e che ho da immortale. Certo il Limbo è ben strano… mi son fuso in tutto, sono diventato un po’ liquido, etereo, onnipervadente.  Ricordo che quand’ero il ragionier Malagnino una notte avevo creduto di aver fatto esperienza del Limbo, una anticipazione, un assaggio estemporaneo. Era accaduto nel reparto di ortopedia, quand’ero lì ricoverato… il periodo più entusiasmante del mio transito terrestre. Quel giorno che il monsignore era morto ed io ero rimasto vivo, l’infermiera mi aveva attaccato un cartello rosso sulla spalliera del letto:
«DIGIUNO PER INTERVENTO»
Era di turno quella grassa, la donna più brutta del mondo. Una con quella faccia lì portava sfiga, sentivo che sarei morto sotto i ferri, una certezza che saliva dallo stomaco e si irradiava nella stanza, invece mi sbagliavo avrei vissuto ancora trentadue anni. Troppi. Avevo deciso di intrattenermi dandomi da fare: un buon metodo per esorcizzare l’angoscia di morte dei vivi è tagliarsi le unghie dei piedi. Avevo iniziato dall’alluce sinistro. Dalla finestra entrava sempre meno luce, eppure il buio non arrivava. Il sole non tramontava e l’unghia dell’alluce sinistro puzzava e la mattina dopo pensavo che sarei morto, ma non ero nel Limbo. La luce perpetua non era di sole che mai tramonta, ma di lampada alogena di un campetto di calcio contiguo al nosocomio. Osservavo l’unghia dell’alluce sinistro con le forbicine immobili nella mano destra; non volevo agire… Tagliate tutte le dieci unghie dei piedi con cosa avrei, poi, anestetizzato l’angoscia di morte e d’eterno? Con Dio ci avevo già inutilmente provato anni prima e le unghie delle mani le avevo già tagliate tutte.
Troppa fatica morire.
Troppa fatica vivere.
Era tardi.
Orfano ero sceso nella voragine, giù fino al lago di dolore, per contemplare i relitti che galleggiavano nel silenzio. Nessun uomo, nessun animale, nessun dio. Là era il mio posto, ma avevo fatto finta di niente e aperto a caso “La Repubblica”. Pagina 7:

«PERUGIA, PRESI I KILLER DEL BANCARIO »
«Bestie. Chiunque è stato capace di uccidere Luca in quel modo va considerato una bestia e con le bestie deve stare» ha detto Bruno Rosi, il padre del giovane ucciso, appena appresa la notizia della cattura dei due assassini. Con altrettanta rabbia una piccola folla radunatasi in serata davanti alla caserma dei carabinieri di Perugia si è scagliata urlando contro il cellulare che portava nel carcera di Capanne i due arrestati: «Assassini».
Quella notte nell’ospedale avevo detto tra me e me: «In che mondo di merda viviamo» e richiuso il giornale, ma qui nel Limbo vedo, nel contempo, tutto:
1974 ospedale di Perugia terzo piano maternità. Luca è lì nudo appena nato.
2012 ospedale di Perugia seminterrato obitorio. Luca è lì nudo appena morto.
Nato con taglio cesario di Mambretti assistito da Sinni, ginecologi;
morto con 5 colpi di pistola di Ghiorghita assistito da Rosu, criminali.
2012 due notti prima dell’omicidio. Luca e Iulian Ghiorghita sono nel sonno profondo. Hanno la stessa espressione.
1980 Perugia, primo giorno di scuola elementare, seduto al terzo banco Luca guarda fuori dalla finestra con occhio immortale. La maestra scrive l’alfabeto alla lavagna: «Luca cosa fai lì imbambolato? » E lui ha guardato la lavagna ed è morto. Morto dentro. Morto sul colpo. Morto stecchito a sei anni per conformazione.
1996 Perugia. Luca 23 anni. Nascondeva l’occhio mortale con occhiali da sole alla moda. Tifoso di calcio, giocatore di calcetto.  Pranzi da mamma e papà con fidanzata. Bancario. Uso di deodoranti.
Prima della nascita di Luca suo padre lavorava in banca a Perugia. Luca, in qualche modo strano, era già presente nell’essenza di suo padre.
Prima della nascita di Iulian suo padre riparava trattori in Romania, aveva i piedi sudati anche in inverno, puzzavano di verza bollita e grappa.
Iulian in qualche modo strano era già presente nell’essenza di suo padre, albergava informe nelle secrezioni paterne, gli circolava nel corpo. Quintessenza di verza bollita e acquavite.
2012 Luca cena col padre, discutono di calcio. Un’ ora dopo ha le mani legate e Iulian gli spara nel ventre. Gli piace ammazzarlo.
Il fallo di carne di Iulian se eretto tira un po’ a destra, quello d’acciaio, una Beretta calibro 9, è dritto. Prima di sparare per otto giorni aveva caricato l’arma, scaricata, ricaricata, riscaricata, pulita, accarezzata, lucidata e rilucidata, messa nella cinta, estratta, messa veloce nella tasca posteriore dei jeans, estratta ancora. Nel masturbare il fallo d’acciaio si guardava allo specchio.
Mentre Iulian ammazzava Luca, il padre della vittima, Bruno, era al bar. Tirava una Donna di Fiori. Nessun presentimento.
Iulian con la pistola in mano nel mazzo vedeva solo Jolly.
2012 Funerale di Luca. Salma di banchiere onorato da rose rosse e maglie di calciatori. La gente in chiesa applaude:  «Potevano sparare a qualcuno di noi, invece hanno sparato a te. Grazie Dio. Grazie Luca ».
Luca e Iulian da  bambini si divertivano ad ammazzare lucertole, poi Luca aveva preferito i videogiochi e Iulian uccidere cani randagi. Gli piaceva vederli morire, godeva nell’ osservargli l’occhio che da espressivo diventava neutro. Poi aveva infilzato con un asta di ferro l’occhio di un uomo: condannato a sette anni di carcere in Romania.
2012 Carcere di Perugia, cella di isolamento. Iulian ha la mascella larga, molari marci, occhi verdi, fronte bassa, cuore grosso, cazzo storto. Onnivoro. Regime dell’appuntamento: defeca preciso alle 7.30.
Invidio i mortali, robe del genere non capitano né all’Inferno, né in Paradiso e neppure nel Limbo. Dal Limbo osservo Iulian che a mezzogiorno mangia nella sua cella mentre il corpo di Luca da un mese cadavere si sta saponificando nella bara, però la lingua è già completamente marcita e vorrei essere lì con loro. Iulian beve acqua e mangia pasta al pomodoro ma odora di verza bollita e grappa. Il secondino lo guarda dallo spioncino, lui morsica una banana troppo matura.
Un ragno cammina sul soffitto, vivrà ancora per una settimana.
Tra qualche decennio Iulian, tutti i parenti di Luca, giudici e secondini, tutti gli abitanti di Perugia, tutti gli italiani, tutti gli abitanti del mondo saranno morti. Tutti condannati a morte imputati di essere nati.
Iulian non ha Teorie e Ideali.  Vive in presa diretta stile rurale, stile animale.
Il cappellano del carcere va da  Iulian, lui tace, indifferente alla visita.
Nell’altro braccio dell’Istituto c’è Ottavio, terrorista pentito e convertito. Amico del cappellano. Le Idee del cappellano e quelle di Ottavio si sono trovate a coincidere. Ottavio firma con calligrafia differente da come scrive. Aveva messo una bomba alla stazione, tanti morti più a capocchia di quello di Iulian. Prima del pentimento-conversione Ottavio teorizzava pulizia e giustizia, adesso pulizia e giustizia si sono per lui connotati di immenso,  ha una ciste anale, dorme in carcere ma di giorno esce a lavorare. E’ vegetariano e stitico. Dal continuo-infinito-presente lo vedo nella sua cella quando ogni mattina bagna il geranio sul davanzale della finestra mentre le salme delle sue vittime sono polvere ad eccezione di Maria, una studentessa di Ancona che si è mummificata come fanno i cadaveri di certe sante e streghe. Ottavio mette le scarpe allineate sotto il letto, sono lì parallele perfette al millimetro. Le scarpe le trova ogni mattina lì precise al loro posto. Ha trovato la fede, trova le scarpe. La sera prima di dormire guarda la TV, cambia canali in continuazione, gli piace far sparire nel nulla la presentatrice per poi, come un dio benevolo, farla essere ancora.
Valoroso esistere per il fatto di essere nati a prescindere dallo svolgimento esistenziale? Sacralità della vita? Dignità personale garantita per diritto di nascita che vale per vittime, che vale per carnefici, che vale per tutti gli esistenti in vita?
Luca, bancario che giocava a calcetto ha perso la vita. A che gli serviva? Lì nudo prima e dopo, in mezzo nulla di rilevante. Morto lui e non un altro, così, a capocchia. A Iulian piaceva penetrare e non chiedeva permesso, con quello di carne le femmine con quello di acciaio i maschi. Nel penetrare vedeva sagome non persone, questa è una storia di prepotenti e impotenti, nessun potente. Iulian onnipotente da osteria, tutta colpa della fronte bassa e della mascella larga, della verza bollita mista a grappa che gli circolava nelle vene. Profonde, intime, occulte interiorità dell’uomo che generano alti ideali o bestie, ma forse gli alti ideali e le bestie sono la stessa cosa. Interiorità strani posti, con  entità che a volte mostrano la faccia sublime e a volte il culo puzzolente, così, senza motivo. Qui nel Limbo non esistono altezze e neppure profondità, un posto sano. Però ai pretuncoli piacciono i paradisi e le fogne, è proprio per questo che vogliono togliere il Limbo… I bastardi non accettano che i bambini morti senza Battesimo godano di una felicità naturale, preferiscono che siano dannati nell’Inferno o serafici nella visione beatifica del Paradiso, un tormento peggiore del primo. Mary la fidanzata vuole che Iulian sia condannato a morte perché Luca era un bravo figlio, bravo bancario, bravo fidanzato. Eppure le stragi dell’umanità non le hanno fatte i Iulian ma le ideologie di bravi figli, bravi patrioti, bravi padri, bravi nazisti. Gente idealista. Gente pulita. Gente pura.
Il poeta una notte fu accoltellato per strada da un clochard, dopo la convalescenza andò a trovarlo in prigione per chiedergli: «Perché l'hai fatto?» «Non lo so» rispose l’aggressore, proprio come quando il salto di corsia di un autoarticolato uccide a caso la giovane madre che passa in quel preciso istante proprio lì, come quella che avevo vista l’altro giorno in una immersione nel mondo. Se alla giovane madre gli fosse caduto il tappo del dentifricio nel lavabo avrebbe perso quei trenta secondi che gli avrebbero salvato la vita, invece il tappo era rimasto al suo posto. Il giorno dopo il vento magnetico mi aveva portato dal barbiere del paese, forse Bagnacavallo nel Ravennate. C’era uno che aspettava il suo turno per fare lo shampoo, dava un’occhiata al quotidiano locale: «Giovane madre schiacciata da TIR». Osservava la foto dell’auto appiattita col lenzuolo sulla salma, nel guardarla si sentiva moderatamente addolorato e molto curioso, poi assolutamente eterno: la giovane madre era morta lui invece era vivo, l’oscena immagine della scarpa destra della giovane madre lì sull’asfalto indizio preciso del suo stato immortale, ma Il barbiere lo chiama. E’ arrivato il suo turno. Il momento arriva. Sempre. Come potrebbero vivere i mortali se ne fossero davvero coscienti? Tutto sommato fan proprio bene a far finta di niente. Qui nel Limbo gira voce che non esista gran differenza tra un trafiletto osceno e una biografia valorosa: sono solo dei film. Boh? Se lo dicono loro... Però quando ci sei dentro da protagonista è scocciante quando un cancro ti porta via il giovane amico; poteva portare via un altro, invece porta via proprio lui. I mortali cercano di difendersi con diagnosi mediche preventive e precoci, prudenza ed osservanza del codice della strada e allarmi sulle porte blindate per anestetizzare la presenza di Iulian Ghiorghita, ma lui indifferente alle diagnosi precoci di malattia, all’osservanza del codice della strada e agli avvisi di pericolo scritti sui pacchetti di sigarette è comunque lì, potenzialmente lì, sempre lì. Fragile e strana l’umana condizione, Tex Willer e il Mandrake celeste non disarmano Iulian e non riparano il danno, agli abitanti della terra non gli rimane che imputarlo così da entità cattiva lo sgonfiano a soggetto da sanzionare. L’assassino ingrigliato nelle sbarre della cella e delle sistematizzazioni viene un po’ riportato sotto controllo, intanto Luca è morto. Ho pensato troppo? Ho ricordato troppo? Non lo so, qui nel Limbo tutto accade in un istante e nel contempo. Ma adesso basta pensare! Ho voglia di mortali in presa diretta, mi piacciono i mortali… Mi butto nel mondo: Belgrado. Kičo il serbo-bosniaco aveva sempre ruotato il capo solo a destra e a sinistra, ma oggi si sente un eroe e guarda all’insù
ammaliato,
incantato,
rapito,
affascinato dall’illimitato.
Icaro balcanico pervaso dal
celestiale,
ineffabile,
aereo,
paradisiaco,
grandioso,
etereo,
idilliaco,
supremo,
stupendo,
sovrumano,
eccelso,
altissimo,
immenso,
indicibile,
grandissimo,
sconfinato,
angelico,
sacrosanto,
intangibile,
impareggiabile,
meraviglioso,
splendido,
strabiliante ed estatico Assoluto.
Tempo fa, in tre settimane, aveva ammazzato centinaia di persone perché di religione diversa dalla sua. Aveva obbedito all’Ente, all’Ideale, al porco dio della sua Patria. Nel guardare un pioppo mosso dal vento d’improvviso realizza, per un istante,  che la Patria è un’idea. La Patria non esiste. L’albero si. Perplesso guarda all’ingiù e si sfracella sulle sue scarpe nere un po’ impolverate. Infarto. Chi più va su, più cade giù. Forse Iulian il romeno a differenza di Kičo ne ha ammazzati il giusto necessario come facevano gli uomini delle caverne con i cerbiatti, ma quando l’essenza ancestrale di cipolla cruda e grappa incontra l’Ente, quando si fonde con l’idea presupposta di domeneddio, accadono genocidi. Qui nel Limbo non ci sono scale mobili, non si ascende e non si discende. I gatti non giudicano sfavorevole l’appartenenza alla propria specie, invece le religioni degli uomini fabbricano scale per andar su, sempre più su, ancora più su, per allontanarsi più che possono dall’essere uomini. Che strani che sono. Su dove? Però quello là… L’antico predicatore ebreo… Quello di Nazareth, se ne infischiava d’essere Dio e gli piaceva essere uomo… Diceva che è meglio uomo che angelo, meglio essere uomo che Dio. Uno così alla madonnina con le dodici lampadine accese intorno alla testa, intorno al cranio immacolato, intorno all’osso sacro della sua testolina immacolata, gli avrebbe pisciato sopra per fargliele andare in cortocircuito… Che sia stato proprio lui il diavolo?
Kičo il serbo-bosniaco in sessantotto anni d’esistenza aveva mangiato quattro quintali di  strane salsicce e due quintali e mezzo di paprika. Nel morire non si russa si sfiata, non assomiglia all’addormentarsi come almanaccavo quand’ero ragioniere. Questo momento qui, tra un’ora non vale più. Nel Limbo “tra un’ora” non esiste.
Voglio intrattenermi ancora con i mortali e un vento magnetico mi porta a Roma, forse periferia nord, ipermercato. Potrebbe almeno una volta condurmi al mio paese, quello dove facevo il ragioniere? Giusto per dare un’occhiata alle cosce di Ilaria… Invece no. Meglio così, forse Ilaria è morta da duecento anni e le sue cosce sono terra con un Lauroceraso piantato sopra. Vago invisibile nell’ipermercato romano, osservo un single di mezza età alto e magro. Da giovane quando s’innamorava equivocava donne per dee, adesso ha carattere pessimo ma pensiero lucido. Il suo pappagallo è felice lui no: sa di essere. Alla terza scaffalatura incontra un cartello con scritto sopra “ANIMALERIA”. Sugli scaffali ossa di silicone e cappottini antisole per cani, lì - chissà perché? - Decide che da quel momento frequenterà solo conventi e puttane. Non fa in tempo. Tamponato sulla statale da autotreno polacco carico di bovini. Sangue di uomini e bestie si mischia sull’asfalto. Il suo pappagallo rimasto solo, legato da dieci centimetri di catenella dorata al trespolo, morirà di stenti. Era sempre stato un tipo strano quello lì alto e magro, sua madre l’aveva abbandonato appena nato e lui aveva sofferto della sparizione. Per tutta l’esistenza si era ripetuto: “La Madre è colei che ama! devo esigere questo amore perché mio diritto naturale!”. Quell’enunciato era un veleno che aveva equivocato per medicina. Qui nel Limbo anche i più idioti sanno bene che “La Madre” è una fantasia, e la “Madre che ama” un ente irreale frutto di un dogma sbagliato. Non esiste “La Madre” entità sacra e cosmica con la “M” maiuscola né in cielo né in terra, ma solo donne che nate da altre donne partoriscono a loro volta altre madri, che poi accudiscono la prole come possono e riescono, ognuna è un caso diverso, nessuna indispensabile, ognuna criticabile, ognuna apprezzabile, tutte mortali. Molto semplice, nulla di trascendentale, ma a lui piaceva inginocchiarsi ai piedi della Madre cosmica, all’altare dell’astrattezza per succhiare l’oppio dell’amore oceanico che inebria e confonde. Invece quelli nati dall’amore? Il vento oggi è mio alleato… Mi porta dritto da Don Livio Masciago un gesuita miope, cappellano militare, che sta schiattando al Niguarda di Milano. Figlio di coppia unita e amorevole ha la testa a pera. Fronte enorme pornografica. Rantola incosciente. Da giovane si ricreava nel fare parole crociate, gliel’aveva insegnato un superiore in seminario, diceva che tengono lontane le tentazioni della carne e migliorano intelligenza e memoria. Don Livio diffidava dei soggetti con la fronte bassa, dopo un periodo in missione nel Mato Grosso si era convinto che i nativi, se avevano la fronte bassa, erano impostori. Soggetti che fingevano di ascoltare con attenzione le sue omelie traboccanti di grazia, di assumere le medicine del medico missionario e anche di accostarsi con devozione ai sacramenti, ma invece di nascosto si tracannavano i rimedi dello sciamano e pregavano con lui. Ma adesso che sta schiattando si è dimenticato dei nativi del Brasile, delle parole crociate e anche delle fronti basse. Non pensa ma respira. Ecco è morto ma la barba gli continua a crescere. Il cuore, i polmoni e il cervello si sono fermati ed è iniziata la putrefazione ma i bulbi piliferi sono ancora un po’ vivi. “Un pirla in meno” avrei commentato da vivo, in quel regno ogni volta che qualcuno riferiva di cuori colmi di gioia e grazie traboccanti scorgevo idraulici e pozzi neri. Oggi il vento magnetico è forte, avrà sentito il mio desiderio d’overdose d’umani, volo ancora e ritorno a Roma, quartiere Monte Sacro Alto. Dottor Veri, vedovo, dirigente del catasto di Viterbo prepensionato per malattia e lì semiparalizzato sopra un letto barocco accudito da Umberto, l’unico figlio. Sta leggendo a fatica un libro sul Regno dell’Alto Egitto. Borbotta: «Umbeeerto… Umbeeerto… Umbeeerto…  Cosa vuol dire “psicostasia”?» Umberto giusto il tempo di prendere il dizionario in soggiorno e lo trova morto. Davanti al cadavere di papà rimane immobile, impassibile. Pensa: Il soggetto è nulla l’Ente supremo è tutto e sente che domineddio, o qualcosa che gli assomiglia, è lì nella stanza. L’intestino gli borbotta come faceva la voce di papà vivo, lui stringe il culo per non scoreggiare davanti all’Onnipotente. Nel trattenere gli viene la faccia un po’ marmorea, da Savonarola. Osservo dalla sua finestra il cupolone del Vaticano mentre biloco a Parigi, quartiere latino. Commercialista. Fino a sei mesi fa incontrava i suoi clienti, ristoratori e gestori d’albergo, per programmare impresa. Pensavano e valutavamo ipotesi per il futuro. Un sabato d’estate non era più andato da nessuno perché all’ospedale. Un tumore al pancreas lo sta uccidendo. Nei suoi incontri di lavoro mai aveva considerato di avere un pancreas e neppure la possibilità dell’evento. Errore. Ma così fanno i commercialisti del quartiere latino, invece io da vivo ci pensavo all’epilogo, così ho fatto una vita da morto e alla fine sono morto per davvero. Ragionier Ivo Malagnino eroe dell’inesistenza. Il senso ultimo non l’avevo trovato però il cercarlo mi aveva intrattenuto e un po’ divertito. Avevo indagato a fondo ma  la soluzione non l’avevo trovata,  però mi ero sentito un “Cercatore di Verità”, figura ritenuta da alcuni mortali più prestigiosa di “Cavaliere del Lavoro”. Sono stanco voglio ritornare nel Limbo, perché il vento mi porta a Bergamo? Basta! Vedo Mariani Lorella commercialista… Di una così non me ne po fregà de meno! Mi ero illuso che il vento mi obbedisse ma erano solo coincidenze. La biondona guida un oggetto grande, un po’ gippone un po’ berlina di lusso; agglomerato di ferro e plastica che i mortali chiamano SUV. Ha cilindrata e dimensioni superiori agli autoveicoli normali ed è capace di attraversare agilmente la Mauritania, ma la signora accompagna i bambini a scuola, poi va dalla parrucchiera. Nel fine settimana suo marito, un assessore all’urbanistica grassottello, riesce ad utilizzare quasi un quindici per cento della potenza complessiva del “coso” nel portare la famigliola sulle Prealpi bresciane. L’ottantacinque per cento mai utilizzato serve ai proprietari per gridare alle galassie il loro status. I Mariani sono gente educata, considerano umiliante e anche osceno andare in giro col portafoglio aperto per far vedere che sono ricchi, preferiscono che sia l’agglomerato d’acciaio e plastica a surrogare il gesto. I Mariani la pensano proprio così e Lorella non muore. Strano, doveva essere proprio il suo momento, ma dentro quel coso si sentiva così immortale, superiore e potente, che è rimasta viva per davvero. M’ha beffato… Anche gli immortali sbagliano, non sono onnisciente solo un po’ onnipervadente. I respiri dei vivi, i loro corpi, dentro sono tutti uguali. Qualcuno continua, qualcuno cessa, qualcuno inizia. Stanco mi ritrovo a casa, nel Limbo. Quando qui non ne posso più di rivedere il film di Malagnino e sono esausto di monitorare a distanza ravvicinata i mortali schiattare, mi posiziono nel territorio intermedio tra Limbo e mondo per riposare. E’ una specie di super Limbo, un posto che assomiglia un po’ alla sala d’imbarco degli aeroporti dei mortali, quella dove partono per l’estero, quel territorio di nessuno oltre la guardiola della dogana. Ogni volta che vado in quel posto intravedo in distanza una salma in un appartamento in Bari, zona stazione. Sta lì da tanto tempo sul tappeto del salotto, ma nessuno dei vicini si è accorto di guardare la partita, mangiare pasta al forno, fare all’amore e far crescere i  figli vicino a una mummia. Manco quand’era vivo si erano accorti di lui. Era uno che non voleva essere cercato, guardato o catalogato all'anagrafe, si era rarefatto per vocazione senza inscenare drammi. Sedazione dall’angoscia grazie a Dio? Grazie ad un amore di donna? Grazie ad un ruolo sociale? Triste condizione dipendere così lui se n'é andato rimanendo, dissolvendosi nella sua Bari senza nemmeno cambiare domicilio.
Buone notizie per il Limbo! Forse il barese mummificato mi ha portato bene, monsignor Maria Luigi Paolucci ha scritto un articolo in “Palestra del Clero” a difesa feroce del Limbo. Afferma che: « Il Limbo è solida deduzione teologica, corroborata dalla Tradizione e dal Magistero ecclesiastico» e ricorda, contro la Commissione Teologica Internazionale, che: «Al di là delle definizioni, spesso occasionali, riguardo all’inesistenza del Limbo, dobbiamo far riferimento alla solida dottrina teologica determinata dalla generalità dei Padri e dei teologi e dal Magistero ordinario della Chiesa, che, quando sia universale, è infallibile. Tale dottrina afferma che il Limbo esiste.» Continua: «Il Limbo starà sempre a ricordare la sublime trascendenza e gratuità della vita soprannaturale» e conclude che: «L’esistenza del Limbo dev’essere tenuta per certa! (Eius existentia certo tenenda est, Sacrae Theologiae Summa, cit. vol. IV p. 150) perché non è una semplice opinione teologica modificabile, ma dogma eterno. Bestemmia, dunque, affermare che “il Limbo c’è, ma è vuoto” come si permettono esternare i teologi modernisti e purtroppo il Papa stesso». Non male. Davvero non male. Bravo. Davvero bravo. Come minimo la posizione di monsignor Paolucci farà procrastinare la chiusura… Visto come stanno le cose il Papa e il suo entourage troveranno un compromesso col monsignore, si sa: i preti preferiscono i compromessi agli scismi ed io potrò rimanermene ancora qui, almeno per un po’. Certo Inferno e Paradiso sono davvero orribili… E il Purgatorio non è che sia il massimo… tanfo ovunque e ti mettono lì come una lumachina a spurgare sulla segatura, per poi essere mangiato da un qualche orco benevolo. Però anche il Limbo è strano… non c’è neppure un responsabile da contestare. Qui in teoria ti autorizzi da te… Ma per poter far cosa? Rivedere sempre lo stesso film? O fare una puntatina nel mondo a capocchia in un ipermercato romano o in un ospizio di Comacchio? O in Turchia sul mar Nero, per incontrare un cane randagio che vaga sulla spiaggia in mezzo a montagne di carbone? Proprio come mi era accaduto, in uno dei miei primi giri dal Limbo sulla terra. Il cane era magro e lercio ma con pupille immacolate. Piovigginava fitto e freddo, forse era inverno. Non ero ancora esperto… Avevo provato ad accarezzarlo come facevo quand’ero ragioniere, ma il contatto non era accaduto. Mi sarebbe piaciuto sentire con la mano il suo pelo umido. Qui un corpo ce l’ho ancora e in teoria potrei anche accarezzare un cane turco… ma è un soma bastardo, ibrido, invisibile, trasparente, gommapiumoso, liquido-etereo, intangibile. Vede e sente suoni, odori e anche i sapori, ma non riesce a toccare. Nel limbo non ci sono specchi, sono inutili, qualsiasi cosa ci si mettesse davanti rifletterebbero spazio vuoto in scala d’azzurri. Devo ammetterlo… mi trovo in libertà vigilata e non so neanche da chi… Mica posso prendermela con un trono vuoto circondato da lampi magnetici che danzano anarchici nell’assurdo. Sono fottuto. Libero arbitrio? Una mucca legata ad una quercia con una catena di tre metri libera di correre a cerchio verso destra o sinistra. Libero arbitrio: tre metri di catena nell’assurdo. Vorrei tornare uomo. Mi piacerebbe davvero… Quasi, quasi ne faccio formale istanza all’assurdo. Me ne strafotto se nessuno mi ascolta. Affronto il trono vuoto, nudo mi ci siedo sopra. Non ho paura e dico:

«Voglio un corpo di uomo di quelli che ingravidano e muoiono.
Voglio mangiare un pezzo di pecora e un po’ di cipolla selvatica davanti ad un fuoco in compagnia di qualcuno, non mi interessa che sia la Mantide, Ilaria dalle belle cosce, o Elvira con gli occhiali coi brillantini sopra, ma che sia di carne e mortale.
Lo voglio e mi piace essere uomo, lì posso fottermene dell’assurdo.
Lì non vacillo.
Lì mi piace sentire la pioggia che cade per dissetare le bestie dei campi e gli asini selvatici.
Lì con occhi di carne vedo gli uccelli del cielo e per terra erbe rare e la vite che trasformo in vino per allietarmi il cuore.
Lì sui cipressi la cicogna ha la sua casa; le alte montagne per le capre selvatiche, le rocce rifugio dei rapaci mentre la luna segna il tempo e il sole sa l'ora del tramonto.
Lì la notte latrano le bestie nella foresta, ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda e quando sorge il sole si ritirano per accovacciarsi nelle loro tane.
Lì Uomo esco per il mio lavoro, per la piacevole fatica di rinnovare la terra.
Lì il mare spazioso e vasto e rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi. Voglio adesso un corpo mortale per toccare il mondo e rinnovargli la faccia per poi darlo in eredità ai miei figli. Meglio tornare uomo. Voglio tornare uomo e poi morire!»

Vedo tre figuri uscire da sotto il trono come topi che escono dalla tana, mi sembra di conoscerli… Eh si! Sono proprio quei tre maschi con le mani da donna che quand’ero il ragionier Malagnino mi si erano seduti, proprio davanti, nel bar della piazza. Quelli che mi avevano pietrificato… Si quei tre bastardi che mangiavano pane e sorseggiavano del rosso, quelli che la barista aveva sentito parlare inglese ed io italiano. Si proprio quei tre di passaggio, venuti chissà da dove, che si erano alzati a sincrono e spariti ad est mangiati dal buio… Li guardo in faccia… mi sembrano in difficoltà. Non mi sanno che cazzo rispondere. Non riescono a contestarmi la voglia che ho di mangiare cipolla cruda. Possibile che Dio sia una cosa così misera?
Sento la forza di gravità e mi ritrovo seduto per terra dentro una tenda. Vicino a me una donna vestita con pelli di bestie selvatiche. Un po’ più in là un vecchio fuma una lunga pipa, mi piace il profumo del tabacco. Osservo un fuoco in mezzo alla tenda. Ho un corpo di neonato, non so se di maschio o di femmina, un piccolo animale dal pelo rosso e caldo riposa sulle mie gambe, non so che nome abbia. Fuori piove.  

Fine

Mercoledì, 04 Settembre 2013 11:48

Il Teatro

Agosto 2001, giravo in folle un po’ smarrito. Ritornavo da un concerto con degli amici del Nord, proprietari di un trullo vicino al mio. Vincenzo Todesco guidava, non lo conoscevo bene, era uno strano. Tempo prima l’avevo visto a teatro interpretare “Aspettando Godot”, ma poi un amico giornalista mi aveva riferito che era uno dei migliori avvocati d’Italia per i reati politici, uno di Sinistra difensore dei terroristi rossi. Attore o avvocato? Di sinistra? Passi attore e anche avvocato, ma “di Sinistra” mi lasciava perplesso. Alle politiche avevo votato il Partito Radicale, non era che ce l’avessi con la Sinistra, ce l’avevo con l’ideologia perché puzzava di chiesa. Sul suo furgone Volkswagen, Vincenzo con un occhio guardava la strada e l’altro il mio emiviso caravaggesco per le luci della strada e sofferente per la recente separazione coniugale. Si era girato e a freddo mi aveva chiesto: «Interpreteresti ‘L’ultimo nastro di Krapp’ di Beckett?» Io, stanco del concerto, stanco del viaggio, forse esausto della vita, avevo sentito una voce salire dallo stomaco che aveva detto: «Si», il misterioso suggeritore interno si era per un momento impossessato di me e invece di limitarsi a suggerire aveva parlato. Vincenzo non era ideologico, non aveva tesi precostituite e neppure pregiudizi. Sarcastico e poco accomodante entrava deciso, col suo pensiero originale, nel merito delle cose. Non invitava ad abbracciare presupposti da verificare, parlava in presa diretta. Talvolta nell’ascolto del suo dire percepivo un riscontro intimo immediato che mi faceva dire: “E’ vero”, “E’ proprio così”.

Non c’era pietismo nella sua proposta, non intendeva aiutarmi, non mi giudicava un “poverino”; aveva trovato qualcosa di vero da mettere artisticamente sotto i denti, grazie ad un potenziale fornitore di materiale psichico di qualità, così scavezzacollo da prestare senza riserve la sua sofferenza al personaggio da mettere in scena. In pubblico, da lui diretto, avevo interpretato un vecchio irlandese disperato, a dire degli spettatori e anche del regista credibile, qualcuno aveva gridato al miracolo per la nascita di un nuovo interprete beckettiano di spessore. Gli apprezzamenti me li ero presi e negli anni a seguire critiche talvolta aspre, pettegolezzi di sottofondo rispetto alla rivelazione che aveva significato per me l’esperienza del teatro: quel nucleo doloroso, segreto, nascosto, causa di vergogna, d’insicurezza, di fragilità, che avevo dentro se messo in scena, a regola d’arte davanti ad un pubblico, si trasformava in narrazione di ognuno e di tutti, diventava dolore del mondo. Questo mi testimoniava il coinvolgimento del pubblico e nel mio intimo aveva significato spostamento di continenti, capovolgimento di galassie. Il nucleo di sofferenza da problema si era trasformato in opportunità, così avevo iniziato a comprendere ed apprezzare il romanzo della mia esistenza. Per disegnare un labirinto si parte dall’uscita.  

Un approccio diverso dalla recitazione accademica e dalle sue tecniche, basato sulla verità del pensiero interiore e dell’emozione reale senza però banalizzarsi in psicodramma: sul palco non c’ero io ma un personaggio Altro. Da lì era iniziato il mio percorso artistico anche se non avvertivo l’urgenza di intraprendere la carriera d’attore, preferivo essere libero da qualsiasi condizionamento e poi non sarei stato capace di reggere quella verità ad oltranza nella ripetizione, così la prima messa in scena era di solito anche l’ultima. Dopo aver rappresentato ‘L’ultimo nastro di Krapp” e l’agosto successivo una riscrittura di “Giorni felici”, sempre di Beckett ma con un solo protagonista maschile, avevo iniziato a scrivere dei miei monologhi espressi in libertà, senza censure, grezzi, magmatici, che Vincenzo raccoglieva implementando una drammaturgia per poi dirigermi in scena.
 
Abbiamo rappresentato, in un trullo pugliese, un monologo ogni agosto per cinque estati consecutive, dei quali ripropongo la lettura sceneggiata:

 
KRANZ 2004

IL RENE 2005
 
L' OMINO 2006
 
L’ULTIMA CHAT  2007
 
MEMORIE DI UN EX MONACO  2008

 

 

Bruno Vergani e Vincenzo Todesco, agosto 2003

 

 

Vincenzo Todesco e Bruno Vergani, agosto 2013


 

Lunedì, 02 Settembre 2013 21:32

Santa istituzione: la persona.

Nella dottrina ecclesiologica cattolica il vescovo è per il sacerdote ‘segno’ tangibile della presenza divina. Che dunque il pastore fischi e la pecora obbedisca è prassi diffusa. Anche se talvolta i pastori argomentano invece di zufolare e le pecore prendono personale iniziativa invece di soggiacere acriticamente alle indicazioni dell’autorità, in ogni caso, per la concezione dottrinale cattolica, sono proprio e solo gli atti di obbedienza o disobbedienza nei confronti dei ‘superiori’ a definire pregio o miseria del ‘subalterno’ a prescindere dal suo reale operato. Mera faccenda di metodo: prima riconosci Iddio presente nello spazio e nel tempo attraverso la figura dell’autorità ecclesiastica obbedendogli, poi - ben chiarite le parti - si valuteranno persone e discuteranno accadimenti.

Conforme a tale concezione ecclesiologica è il contenuto della lettera inviata dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola a don Giorgio De Capitani. Difforme a tale concezione è il pensiero del destinatario. L’arcivescovo ordina al sacerdote, per  presupposta incompatibilità ambientale e in conseguenza di sopraggiunti limiti di età, il trasferimento da un borgo dei colli brianzoli, dove aveva implementato una viva comunità, a un altro. Don Giorgio contestando le motivazioni addotte nella lettera enuclea all’arcivescovo i motivi reali del ridimensionamento sociale del suo sacerdozio conseguente al trasferimento: una gerarchia ecclesiastica che difende il proprio primato su quello della persona, di tutte le persone, e punisce i disobbedienti alla linea imposta. La vicenda migra così dalla cronaca provinciale alla storia universale: due concezioni confliggono, quella dell’arcivescovo che, riferendosi alla tradizione, afferma di rappresentare Iddio in terra e quella di don Giorgio che, riferendosi ai Vangeli, vede invece il Soggetto (ogni soggetto) sovrano, ogni persona istituzione in sé, istituzione primaria che le altre istituzioni, ecclesiale in primis, dovrebbero valorizzare e servire invece di comandare. Posizioni contrastanti che evocano archetipi universali e esprimono paradigmi storici.

Avevo compreso anni fa la potenza dell’ “Istituzione del Soggetto” nel fuoriuscire dai Memores domini a freddo, rapido, senza preavviso, dopo una notte un po’ insonne dove, tirando onestamente le somme, avevo concluso che Comunione e Liberazione, i Memores, la Chiesa cattolica, e forse anche Dio, erano una invenzione umana, una cattiva idea.
Vi sono molteplici modalità per scioglere un nodo di quel tipo e io avevo - forse con poca fantasia - optato per l’uscita rapida, completa, definitiva, con sbattimento di porta. Il mio più alto responsabile nella piramide gerarchica don Giussani - ai tempi riferimento autorevole anche per l’allora don Angelo Scola – informato dell’ “evasione” in atto mi aveva telefonato mentre facevo le valigie per “ordinarmi” di raggiungerlo immediatamente. A suo dire non avrei potuto andarmene senza prima aver parlato con lui. Mi aveva fatto presente, preoccupato per me ed in perfetta coerenza con la sua concezione di Chiesa, che senza il suo beneplacito nel congedarmi dal gruppo monastico, non sarei più stato tranquillo nel rapporto con Dio. Potevo anche andarmene ma, per il mio equilibrio, solo nell’obbedienza (la recentemente lettera inviata da Scola a De Capitani testimonia la precisa e fedele impostazione ecclesiologica giussaniana dell’arcivescovo di Milano). Avevo risposto a don Giussani che non sarei andato da lui ma, se tanto ci teneva, avrebbe potuto venire lui da me. Così Giussani, che era uno con l’intelligenza rapida, aveva subito compreso che in quel mio disconoscere l’autorità che rappresentava non credevo più né a lui e - in coerenza con me stesso e la nostra storia - neppure al suo dio, così ognuno è andato avanti per la sua strada.

E’ stato facile andarmene. Solo un certo sconcerto per la spiazzante meraviglia nel constatare quanto fosse potente la facoltà di essere libero, di dire personalmente no a duemila anni di tradizione, di teologia e di potere dentro i quali mi ero liberamente infognato e che, per la medesima personale libertà-autorità, stavo abbandonando. Nessuno poteva far nulla per impedirmelo: l’istituzione-costituzione personale è primaria, inopinabile, più potente di tutte le altre. La scelta si è rivelata, negli anni a seguire, sana e proficua, eppure a Giussani una cosa la riconosco: ci metteva la persona, ci metteva la faccia, aveva gli attributi per condurre tali accadimenti in presa diretta, mai si sarebbe attardato a inviare una lettera-decreto ispirata al diritto canonico.

Giovedì, 29 Agosto 2013 09:54

Un paio di scarpe. Reazioni.

Picasso nell’osservare “Un paio di scarpe” (Vincent van Gogh, 1886) annotava l’abilità artistica del pittore;

Heidegger scorgeva lo svelamento-incarnazione di un qualche Ente Universale,

Schapiro e Derrida – bisticciando con Heidegger – vedevano, il primo un autoritratto dell’Autore; il secondo un semplice paio di scarpe.

Derrida vede, dunque, questo:



dozzinalmente così:



e anche così:

mascalzone.

Martedì, 27 Agosto 2013 18:02

Piazza & Casa

Avverto un latente mix fascistaborghespretesco in chi urla di voler mandare “tutti a casa”, anche se Ulisse avrebbe interpretato la minaccia come il miglior augurio.

"Tutti" è ente inesistente, mera astrazione, e separare la casa dalla piazza non ha mai portato a nulla di buono. Fa male alla piazza, fa male alla casa.

Martedì, 27 Agosto 2013 11:03

L’Altro

Inghiotto la compressa e il mal di testa cessa di colpo come un temporale estivo grazie a chi l’ha formulata, grazie all’ingegno di tutti quelli che hanno dato risorse e intelligenza per generare-realizzare farmaci efficaci. Salgo sul treno, sull’aereo, sul traghetto e arrivo a destinazione. Talvolta i sedili sono sporchi, qualche volta ritardano, ma grazie all’ingegno di qualcuno, grazie all’Altro, arrivo.

Non lo conosco, sovente è morto da tempo o abita lontano, ma in ogni caso merita obiettiva riconoscenza per l’aver inventato la pizza napoletana, per l’aver scritto nel Seicento un testo di filosofia, per aver progettato e realizzato un computer che mi fa lavorare meglio e anche per l’antiparassitario che toglie il prurito al gatto, per il calorifero e la forchetta, la neurochirurgia e le regole di grammatica, per le scarpe e gli occhiali.

Qualcuno ha procurato molto danno e poco profitto, qualcun altro ha però compensato, anche morendoci, riparando con bilancio positivo. Un po’ di ammirazione, gratitudine, riconoscenza sono il minimo sindacale che l’Altro oggettivamente merita.
Tutto sommato dittature e olocausti sono stati storicamente implementati da malmostosi ingrati.
« E che felicità ci dà l'insegna luminosa quando siamo in cerca di benzina »
cantava Franco Battiato (“Frammenti” 1980). Faceva lo spiritoso, però non male.

Lunedì, 26 Agosto 2013 10:11

Aladin

Poso 10 euro sul banco: «Toscani Extravecchi», rapidi me li danno col resto, giusto il tempo per voltarmi a destra tirato da un crocidare elettronico: un anziano, scarpe lise, pigia bottoni su un cassone dorato. Sopra c’è scritto “Aladin”, appena sotto la scritta un monitor con figure del cazzo che ruotano e gracchiano. Più ruotano più gracchiano, più gracchiano più incantano il vecchio pirla che c’è davanti.

Lo conosco, era un contadino valoroso. Coltivava ceci e fave, potava con maestria mandorle e ulivi. Per ricrearsi si appostava sottovento per sparare alle volpi. Gli piaceva sentirsi più furbo di loro. Gli piaceva vincere. Così avevano fatto i suoi avi da sempre: cacciare per nutrirsi, dinamiche primordiali di attesa, di vita, di rischio, di sconfitta o vittoria. Raggiunta la pensione aveva venduto la casa di campagna e riposti zappa e fucile si era trasferito in paese. Palazzotto popolare.

Forse è meno pirla di quanto appare. Le ragioni delle sue compulsive ossessioni nell’angolo della tabaccheria sono profonde e antiche, finanche nobili. “Aladin” mero equivoco.

Sabato, 24 Agosto 2013 17:14

vocazione

I regolamenti vanno bene per il condominio, le prescrizioni per la cistite, i precetti per faccende militari e gli ammaestramenti per addomesticare uccelli esotici. 

 

Per realizzare vocazioni è invece necessario onorare, senza ritardo, norme fluttuanti.

Lunedì, 19 Agosto 2013 14:38

Grande, grande, grande.

Albori di internet. Ricordo l’euforia. Mi eccitava l’idea di aprire una “vetrina” a New York per vendere, da quelle parti, i miei prodotti; un giro in Google e un altro in Wikipedia e in quello zapping metempirico mi percepivo un po' onnisciente; poi con l’arrivo dei 'Social Network' sembrava che l’umanità intera potesse essermi amica.

E’ trascorso un decennio: cedo, grazie alle rete, qualche prodotto a Cuneo e anche a Rieti; Google lo utilizzo per sapere di qualche enciclica papale e la ricetta per fare il latte di mandorla; Wikipedia mi informa del pensiero di qualche filosofo minore e nei 'Social Network', invece dell’interezza dell’umanità, incontro gruppi sovente scomposti.

Non mi preoccupo, rinuncio all'illimitato e circoscrivo: universalità non è immensità.

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