Nella dottrina ecclesiologica cattolica il vescovo è per il sacerdote ‘segno’ tangibile della presenza divina. Che dunque il pastore fischi e la pecora obbedisca è prassi diffusa. Anche se talvolta i pastori argomentano invece di zufolare e le pecore prendono personale iniziativa invece di soggiacere acriticamente alle indicazioni dell’autorità, in ogni caso, per la concezione dottrinale cattolica, sono proprio e solo gli atti di obbedienza o disobbedienza nei confronti dei ‘superiori’ a definire pregio o miseria del ‘subalterno’ a prescindere dal suo reale operato. Mera faccenda di metodo: prima riconosci Iddio presente nello spazio e nel tempo attraverso la figura dell’autorità ecclesiastica obbedendogli, poi - ben chiarite le parti - si valuteranno persone e discuteranno accadimenti.
Conforme a tale concezione ecclesiologica è il contenuto della lettera inviata dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola a don Giorgio De Capitani. Difforme a tale concezione è il pensiero del destinatario. L’arcivescovo ordina al sacerdote, per presupposta incompatibilità ambientale e in conseguenza di sopraggiunti limiti di età, il trasferimento da un borgo dei colli brianzoli, dove aveva implementato una viva comunità, a un altro. Don Giorgio contestando le motivazioni addotte nella lettera enuclea all’arcivescovo i motivi reali del ridimensionamento sociale del suo sacerdozio conseguente al trasferimento: una gerarchia ecclesiastica che difende il proprio primato su quello della persona, di tutte le persone, e punisce i disobbedienti alla linea imposta. La vicenda migra così dalla cronaca provinciale alla storia universale: due concezioni confliggono, quella dell’arcivescovo che, riferendosi alla tradizione, afferma di rappresentare Iddio in terra e quella di don Giorgio che, riferendosi ai Vangeli, vede invece il Soggetto (ogni soggetto) sovrano, ogni persona istituzione in sé, istituzione primaria che le altre istituzioni, ecclesiale in primis, dovrebbero valorizzare e servire invece di comandare. Posizioni contrastanti che evocano archetipi universali e esprimono paradigmi storici.
Avevo compreso anni fa la potenza dell’ “Istituzione del Soggetto” nel fuoriuscire dai Memores domini a freddo, rapido, senza preavviso, dopo una notte un po’ insonne dove, tirando onestamente le somme, avevo concluso che Comunione e Liberazione, i Memores, la Chiesa cattolica, e forse anche Dio, erano una invenzione umana, una cattiva idea.
Vi sono molteplici modalità per scioglere un nodo di quel tipo e io avevo - forse con poca fantasia - optato per l’uscita rapida, completa, definitiva, con sbattimento di porta. Il mio più alto responsabile nella piramide gerarchica don Giussani - ai tempi riferimento autorevole anche per l’allora don Angelo Scola – informato dell’ “evasione” in atto mi aveva telefonato mentre facevo le valigie per “ordinarmi” di raggiungerlo immediatamente. A suo dire non avrei potuto andarmene senza prima aver parlato con lui. Mi aveva fatto presente, preoccupato per me ed in perfetta coerenza con la sua concezione di Chiesa, che senza il suo beneplacito nel congedarmi dal gruppo monastico, non sarei più stato tranquillo nel rapporto con Dio. Potevo anche andarmene ma, per il mio equilibrio, solo nell’obbedienza (la recentemente lettera inviata da Scola a De Capitani testimonia la precisa e fedele impostazione ecclesiologica giussaniana dell’arcivescovo di Milano). Avevo risposto a don Giussani che non sarei andato da lui ma, se tanto ci teneva, avrebbe potuto venire lui da me. Così Giussani, che era uno con l’intelligenza rapida, aveva subito compreso che in quel mio disconoscere l’autorità che rappresentava non credevo più né a lui e - in coerenza con me stesso e la nostra storia - neppure al suo dio, così ognuno è andato avanti per la sua strada.
E’ stato facile andarmene. Solo un certo sconcerto per la spiazzante meraviglia nel constatare quanto fosse potente la facoltà di essere libero, di dire personalmente no a duemila anni di tradizione, di teologia e di potere dentro i quali mi ero liberamente infognato e che, per la medesima personale libertà-autorità, stavo abbandonando. Nessuno poteva far nulla per impedirmelo: l’istituzione-costituzione personale è primaria, inopinabile, più potente di tutte le altre. La scelta si è rivelata, negli anni a seguire, sana e proficua, eppure a Giussani una cosa la riconosco: ci metteva la persona, ci metteva la faccia, aveva gli attributi per condurre tali accadimenti in presa diretta, mai si sarebbe attardato a inviare una lettera-decreto ispirata al diritto canonico.