Teologia quantistica
C’è la teologia della liberazione, l’ecoteologia, la teologia eco femminista e quella Queer. La teologia si fa in quattro per affrontare le problematiche inedite dei nostri giorni, elaborando specifiche connessioni tra spirito e materia in orizzonti sempre più vasti e complessi. Ammirevole: quale altra disciplina dimostra una così ramificata plasticità fluttuante?
Però, forse, la “teologia quantistica” potevano anche risparmiarsela, come si sono giustamente risparmiate la teologia termodinamica, la teologia gravitazionale e la teologia elettronica. Non tanto perché la definizione “teologia quantistica” sembra una battuta di Maurizio Crozza, o la dozzinale trovata di un qualche guru briccone che vuole fondare una nuova confessione New Age, ma per due altre ragioni.
La prima è che se una teologia procede cercando spasmodicamente un partner, significa che da sola vale meno del due di briscola; perdipiù nel caso di specie la meccanica quantistica è partner per certi versi mobbizzato, perché per nulla interessato a partnership con la teologia, manco ad averla come ancella. Ofelè fa el to mesté ! Ma se la teologia (quantistica) zoppica nel proporre una dialogante autonomia tra saperi distinti appiattendosi sul partner, sarebbe più dignitoso cestinarla per darsi alla fisica teorica, invece di un imbarazzante mendicare dalla meccanica quantistica stampelle in titanio di ultimissimo modello per trovare senso e giustificazione.
La seconda è che quando ci è di mezzo Dio, anche per toglierlo di mezzo come nella teologia atea (indifferente all'ossimoro c'è pure quella), andrebbe sempre conservata una cifra di mistero, di inaccessibile alterità, di paradosso, con correlate quote di angoscia e inquietudine, pungoli che stimolano salti e rinnovate ricerche.
Cool la meccanica quantistica nel suo ostentare che il livello subatomico funziona in modo differente dal nostro, senza un prima e un dopo temporale, senza un qui e un là spaziale, nella totale imprevedibilità di interconnessioni creanti. Roba strana forse divina, ma se non fossimo tanto abituati ci stupirebbe allo stesso modo la nostra dimensione macro coi suoi prima e dopo, i suoi qui e là mentre andiamo a ottanta all'ora sulla Provinciale e arriviamo in città all'ora prevista, nella nostrana perlopiù ordinata prevedibilità di cause che producono effetti, ma entrambi i livelli, micro e macro, poggiano sugli stessi numeri calcolabili.
Si può conoscere con precisione lo stato di salute di un corpo, se l’azotemia raggiunge i 10 mg e non supera i 50 vuol dire che stai bene, ma in quali parametri deve rientrare un’anima per essere considerata sana? Qui sì che si entra in tutt'altro regno e le misurazioni annaspano.
Alla fine l’appiattimento di Dio costipato in un corpo dottrinale e cultuale dogmatico e tradizionalista semper idem, come anche, all’opposto, la conformazione di Dio fino all’esaurimento per dissoluzione in circoscritte dimensioni culturali, sociali, ambientali e scientifiche (sempre misurabili), nei quali l’Assoluto che Dio esprime e rappresenta è ridotto (riduzionismo) a epifenomeno posticcio, si rivelano entrambi tentativi, specularmente apparentati, di addomesticamento e di contenimento del mistero -di Dio, della natura e nostro- snaturandolo così a idolo o a superfluo feticcio.
Rimedio antalgico
L’ingegnere che progetta macchinari sa bene che i componenti più robusti e affidabili non sono quelli costituiti da leghe speciali, ma quelli che non ci sono; se conservando la cilindrata complessiva un motore da sei pistoni lo riduci a quattro, quei due pistoni in meno permarranno eternamente indenni da usure e collassi. Comico? Mica tanto.
Insigni tradizioni spirituali e autorevoli speculazioni filosofiche applicano lo stratagemma del pistone dissolto all’io personale. Filo rosso di alto lignaggio che dal Vedanta a Parmenide percorre il neoplatonismo e poi i mistici renani fino al neoparmenidismo di Severino, affiorando e sparendo qua e là come un fiume carsico. Tracce le possiamo scorgere in Schopenhauer e apprezzare nell’ultimo Jung o in Pessoa.
Il discorso, semplice quanto radicale, è che la vera realtà non è il divenire delle distinte cose, ma un ingenerato, immobile, immutabile, immortale, indivisibile, auto-fondante, sempiterno e onnipervadente tutt’Uno. Essere che non conosce divenire all’interno del quale non sussistono entità separate individuate. Non sussistendo alcuno né, a maggior ragione, qualcuno, nessuno nasce e nessuno muore. Se tu non sei chi mai soffre e muore?
In tale concezione il grande equivoco che produce la sensazione della personale finitudine e del conseguente sgomento deriva, dunque, dall’erroneo auto-identificarsi con l’apparato psicosomatico individuale in divenire; io-persona che sarebbe nient’altro che una falsa apparenza di fatto inesistente che equivochiamo per reale, mentre noi siamo Essere impersonale, il Supremo Assoluto.
La prospettiva è innegabilmente vantaggiosa nel permettere di raggiungere una istantanea atarassia, attraverso una semplice operazione concettuale bypassando laboriose ortoprassi. Spassionati testimoni del Supremo ci intratterremo come accade vedendo il falso come falso e il vero come vero, tutto qui. Evidenti anche gli svantaggi: che senso ha morire da vivi per essere eterni? E poi, è davvero così svantaggioso essere individui di questo mondo? Un buona soluzione è forse optare per un’aurea mediocritas, conservando la concezione come sfondo della nostra esistenza personale, così da continuare a gioire delle gioie e addolorarci ancora dei mali, ma non troppo.
Fondazionalismo
Tutto considerato rispetto ad un fisico teorico che asserisce certezze indiscutibili e definitive su enti che il suo occhio non può vedere, perché troppo piccoli o perché troppo grandi, o perché se li guarda quelli mutano, ottempera di più il metodo scientifico quel teologo che, consapevole dei limiti del suo operare[1] tenta ipotesi che giudica provvisoriamente plausibili. Di solito succede il contrario ed è il teologo che fa la sua sparata ritenendola valida una volta per tutte, mentre lo scienziato è consapevole del fallibilismo delle proprie congetture, atteggiamento necessario per affinare i suoi strumenti di indagine e controllo, ma talvolta capita anche l'opposto.
A ben vedere il potenziale discrimine che genera antagonismo fra il teologo e lo scienziato, il poeta e il filosofo, l’economista e l’artista, e pone fra loro in conflitto gli esponenti di specifici e giustamente autonomi[2] saperi, inclusi gli esponenti dei differenti saperi che albergano sparpagliati nella nostra mente, non è dato tanto da ciò che indagano e neppure dalla specifica disciplina che utilizzano ad hoc, ma dall’insorgere del fondazionalismo che pretende di sottomettere ad uno specifico e distinto sapere tutti gli altri, ma distinto non significa diviso e neppure unico e nemmeno sovrastante.
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1 Anche l’occhio del teologo teista al pari di quello del fisico teorico e del cosmologo non può vedere, a faccia a faccia, ciò che indaga, però se putacaso riuscisse a vederlo ha il vantaggio che Quello [Dio] non dovrebbe mutare quando è osservato. In teoria, beninteso...
2 Senza distinzione e autonomia dei saperi prima o poi ci si impantana in ingenui olismi (paciughi) New Age.
Il pungolo
Poteva iniziare da un’altra parte e in un altro periodo, invece la filosofia è nata nel VI-V secolo nella piccola Grecia. Qualcuno sostiene sia giunta proprio lì dall’Oriente, altri che a parte qualche influsso dall’Egitto e dalla Mesopotamia gli antichi greci abbiano fatto da perlopiù da soli. C’è chi dice che quel pensiero, che per primo nella nostra parte di mondo ha indagato le cause prime delle cose e dell’essere, sia stato favorito dalla prosperità dei luoghi, perché risolto il problema del sopravvivere si può finalmente pensare ad altro -a riguardo, meglio non dimenticare oltre alla felice ubicazione geografica e ai favori climatici il contributo di donne sottomesse e di schiavi sfruttati. C’è chi ci ricorda che gente abituata a salpare l’àncora e prendere il largo, sia stata facilitata a viaggiare anche col pensiero. Altri ricordano le 'poleis', città politicamente autonome, dove gli abitanti dicevano la loro in piazza e per dirla in modo comprensibile dovevano osservare e ragionare. C’è chi sottolinea che a stimolare il pensiero astratto sia stata la scrittura con le lettere, che si stava affermando. C’è anche da considerare la sensibilità di menti finissime apparse proprio lì, capaci di cogliere con meraviglia il sublime che ci circonda, che “è” invece che non esserci, e insieme di sperimentare sgomento di fronte all’ineluttabile dolore che contraddistingue i mortali, pungolo che forse più di ogni altro attiva l’indagine di pensiero; più è aguzzo più attiva.
Concause chiare e tutte possibili, ma oggi che rimane di tutto questo? Quattro gatti qui, quattro là, ma in fin dei conti forse non molti di meno di quelli dell'inizio. Gli attuali non raggiungeranno le vette filosofiche di quei primi, però grazie all’incremento demografico degli ultimi duemilacinquecento anni gli odierni quattro gatti non sono forse di meno di quelli dell’inizio, antiche élite ristrette di qualche cane sciolto che correva per la via e di non molti altri che più ordinati passeggiavano sotto portici e in giardini pensando e dialogando, mentre tutti gli altri (non filosofi) spingevano il carro. Forse (solo) sotto questo aspetto sono un po' meglio i quattro gatti di oggi.
Discrepanze
Vivevano entrambi nello stesso mondo, ma uno lo vedeva evidente e scontato come succede alle lucertole, l’altro ne era invece stupito. Non so perché.
Fondamentalismo laico
Triste la condizione dell’appartenente alla confessione religiosa fondamentalista, obbligato di continuo a ottemperare assurdi catechismi. Messo peggio è però l’integralista illuministico, tanto devoto all'allegoria della libertà da costringersi, a oltranza, a difendere le vignette di Charlie Hebdo anche se gli fanno schifo.
“Sì, sì”, “no, no”
Ci sono decine di migliaia di piante che si potrebbero utilizzare a scopi terapeutici, e più se ne scoprono e studiano e più aumenta il potenziale numero delle specie utilizzabili, anche se poi alla fine se ne usano di fatto poche centinaia. Il punto è che si sono, via, via, affermate le piante che funzionano meglio a scapito di quelle che, pur esplicando una certa azione terapeutica, risultano meno performanti.
Talvolta è un po’ così è anche per le parole, più se ne sanno meglio è, anche se poi di tutte quelle coniate hanno successo quelle che davvero (ci) servono. Prendiamo ad esempio la parola “panenteismo”, che è una variante del più utilizzato termine panteismo. Panteismo significa immanenza, dunque la coincidenza e l'equivalenza, di Dio (o del dio) con l’Universo e la Natura: Dio è la natura, la natura è Dio. C’è un panteismo dove l’equivalenza di Dio e Natura è immediata e panteismi dove, invece, la coincidenza è mediata, in quanto pur permanendo una certa equipollenza tra Dio e Natura, Dio è visto cosciente e la Natura no. Con il termine panenteismo si intende una forma di panteismo che vede Dio immanente nell’universo e nella Natura, ma nel contempo anche trascendente; un tentativo di sintesi tra teismo e panteismo, che da una parte conserva il panteismo facendo coincidere Dio e Natura, dall’altra salva il teismo che afferma un Dio cosciente e personale distinto dalla sua creazione. All’interno di tale significato possiamo incontrare accenti diversi, se nel panenteismo si vuol sottolineare che Iddio è dentro tutte le cose, si mette un trattino così: "pan-enteismo", se invece si vuole far risaltare il primato di Dio, che pur albergando nelle cose le precede e trascende, si mette un trattino cosà: “panen-teismo".
Però nel dizionario di filosofia Abbagnano, il migliore, quello grosso, alla voce Panenteismo c’è scritto che il termine designa “una sintesi tra teismo e panteismo che consisterebbe nell’ammettere che tutto ciò che è, è in Dio e esiste come rivelazione o realizzazione di Dio. In realtà questo punto di vista è proprio quello del panteismo classico e pertanto non si vede l’utilità del termine”.
Se il dizionario dice il vero, oltre al constatare che abbiamo scritto fin qui per dire niente, si potrebbe anche riscrivere la sentenza di Wittgenstein integrandola così: “I limiti e gli eccessi del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Forse non aveva poi torto Gesù di Nazareth: “Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno.”
Mediterraneo
Ogni territorio ha forse le piante che si merita, dalle nostre parti il più ricco è quello della costa del Mediterraneo, fino ad una decina di chilometri all’interno. Un Cirmolo prealpino può evocarti un qualche rito celtico e con la genzianella aromatizzi la grappa, ma nel Mediterraneo tutto è esagerato. Se ti si secca un Fico è quello maledetto da Gesù, nell’incontrare i Gigli selvatici del campo vedi quelli della parabola, nel passare davanti al Prugnolo riappare la corona di spine. L’amaro Assenzio arboreo è proprio quello esaltato nell’Apocalisse e il Terebinto è lo stesso che il Siracide glorifica come giaciglio di angeli. l’Asfodelo è quello che gli antichi greci coltivavano sulle tombe certi che piacesse ai defunti; anche gli antichi romani nel vederlo rispuntare dopo l’incendio sulle morte ceneri, si erano persuasi che avesse a che fare con gli inferi. Le querce sono sempre quelle di Mamre coi tre viandanti ospiti di Abramo nell’ora più calda del giorno. Appena più in là la Ruta della decima che è forse l’omerica Erba Moly che Hermes strappa dalla terra per proteggerci da Circe. Forse meglio terminare qui la passeggiata, prima di essere risucchiati in un eterno continuo presente trans-temporale senza ritorno.
Epistemologia di strada
Per vivere appieno l’universo dovremmo muoverci alla velocità della luce, abitare il subatomico e molto altro che non sappiamo ancora.
Mentre ci proviamo non dimentichiamoci di ottemperare le superate leggi newtoniane del nostro mondo ordinario, giusto per non sbattere.
fifty-fifty
Ci muoviamo in sistemi di cause che producono effetti, ordine prevedibile e meritocratico, dove artefici del nostro destino evitiamo di sputare controvento e i nodi, prima o poi, arrivano al pettine. Ma siccome non sappiamo da dove il vento venga e dove vada, fluttuiamo nel contempo dentro sistemi caotici al cospetto dell’inaspettato, quelli del “che Dio ce la mandi buona” e “in bocca al lupo”.
Osservando la civiltà possiamo individuare le strutture istituite dal primo sistema e quelle che abbiamo architettato per anestetizzare il secondo. A volte si mischiano e compenetrano, ma decostruendole, giusto un po’ nei loro elementi base, si può agilmente vedere da che parte stanno.