Dentro e fuori la storia delle Chiese cristiane incontriamo innumerevoli ed estese tradizioni di pensiero che hanno combinato Dio con la ragione. All’interno delle confessioni religiose si è proclamata la Sua esistenza, tentando comunque criteri di razionalità nel darne ragione; negli ultimi tempi anche tenendo conto della scienza e delle sue nuove scoperte: “E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle” (Pro 25, 2).
Elaborazioni che hanno avuto esiti più o meno felici, svolte per gradi attraverso mediazioni e inferenze che, partendo da premesse maggiori e minori, sono approdate a conclusioni ritenute ragionevoli. Se le cose stanno così, ovvero che riconoscere e affermare Dio è processo ragionevole, ne consegue che l’atto di fede risulta superfluo, anzi per certi versi disturbante il processo stesso. In effetti le teologie che coniugano ragione e fede rendono meno urgente e necessario l’atto di fede. All’interno di questa prospettiva di metodo credenti e non credenti, pur giungendo a conclusioni differenti, indagano poggiando sulla ragione, muovendosi pertanto all’interno dello stesso paradigma.
Invece la fede appartiene ad altri regni, più esistenziali e meno concettuali. Prima o poi un brusco atto di fede cieca lo faremo tutti, credenti e miscredenti, forse per trovare senso alla sofferenza che dilaga senza valida e giusta ragione, o forse per l’inadeguatezza del nostro sapere e ragionare al cospetto del sublime universo, sicuramente una atto di fede, perlomeno per l’ignoto, lo faremo “per natura” morendo. Nel personale faccia a faccia col mistero c’è poco da mediare ma solo da saltare (Kierkegaard) senza rete in tutt’altre ignote categorie.