Scostamenti
Improbabile trovare un serial killer in soprappeso con gote rubiconde e temperamento bilioso, notorio che sono tutti magri e controllati. Capita spesso di incontrare atei che pensano religiosamente e sedicenti religiosi che ragionano da atei matricolati, fascisti DOC che si proclamano di sinistra, proletari spadroneggianti e padroni umili, erotomani casti d’animo e castigati immacolati che nell'intimo sono satiri scatenati.
Rispetto alle concezioni più o meno puntuali che elaboriamo di noi stessi credendoci così o cosà, è come di fatto quotidianamente pensiamo e facciamo (o omettiamo di fare) che mostra ciò che realmente desideriamo e siamo. Ma ciò che di fatto facciamo non mostra proprio tutto , in pentola bolle molto altro ancora che permane rintanato, nascosto a noi stessi. Che ne sarebbe se uscisse allo scoperto riscuotendo la nostra perfetta coerenza?
Mappe
Più ci è chiaro e preciso il punto di arrivo e più saranno grossolane le mappe che disegniamo per raggiungerlo.
Ars moriendi
Erich Fromm nel suo saggio “Avere o essere?” vede la paura della morte procurata dal possesso delle cose, del nostro corpo, del nostro io. Più molliamo l’osso migrando dal paradigma dell’avere a quello dell’essere e meno angosciante sarà la morte. Utile osservare che per Fromm le stesse indicazioni, pari, pari, valgono anche per il vivere bene ed è proprio così, più ci attacchiamo alle cose e più ci impantaniamo in un’angoscia di vita, chiusi a riccio nell’intento di trattenere e incrementare illimitatamente ciò che possediamo, con la crescente paura di perderlo.
Ci sarebbe, però, da considerare -Fromm non sembra farne cenno- che il morire non solo ci costringe ad abbandonare tutto ciò che abbiamo, ma anche tutto ciò che siamo, a meno che sussista un sempiterno Essere con la maiuscola, alla Parmenide, Severino e ontologie affini. La viva natura, linea che contiene il segmento della nostra esistenza personale, è indizio del sussitere di questo Essere che ci precede, esprime, succede.
Permane un ultimo problema, anzi due: ma ‘sto sempiterno Essere sa di esserlo o siamo noi mortali che dobbiamo informarlo? E se così fosse chi sarà mai quella canaglia di demiurgo che ha architettato la cosa?
( Quasi ) papista
Sappiamo che col tempo i nodi arrivano al pettine; sappiamo che quando dei germi nocivi sono presenti, anche solo in nuce, se non vengono eradicati prima o poi produrranno malattie; sappiamo che le imperiose esaltazioni conducono a tragiche delusioni; sappiamo che opponendoci alle leggi della vita ci arriverà, per via naturale, una qualche nemesi tra capo e collo.
Però mai avrei pensato che queste critiche che avevo articolato sulle esagitate concezioni dottrinali di don Giussani, CL e Memores[1], specialmente riguardo l'interpretazione ecclesiologica dell'autorità, potessero un giorno essere condivise non da un mangiapreti di passaggio, ma dal Vaticano[2].
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1 Vita di don Giussani, vedi qui.
2 Rimando all’articolo a firma di Noël Marpeau, vedi qui. Tra i migliori articoli sull’argomento anche se mutilato dalla difficoltà di non poter accedere alle fonti, per la prevedibile cappa di riservatezza costruita dagli interessati. Riguardo la posizione, ripresa nell’articolo, di chi ritiene che per rifondare CL e Memores serva un ritorno al pensiero originario di don Giussani, penso che non sia una buona idea perché proprio in quel pensiero alberga la malattia:
«Se non c’è risposta a quel che sei, sei un disgraziato! […] Immaginate di andare in piazza Duomo a Milano alle sei di sera, d’estate, o in primavera, o d’autunno, d’autunno presto. Piazza Duomo è quasi piena, gente che va di qui, gente che va di là; ma osservate che c’è qualcosa che non va: sono tutti senza testa! Immaginate di essere lì: sono tutti senza testa, solo voi avete la testa! [sic] La vita è così, il mondo è così». (Conversazione di Giussani ad un gruppo di memores domini 1 ottobre 1995). «Quando ci si mette insieme, perché lo facciamo? Per strappare agli amici – e se fosse possibile a tutto il mondo – il nulla in cui ogni uomo si trova». (Incipit del messaggio di Giussani per il XXV Pellegrinaggio a Loreto). «Amici miei, che compito, che responsabilità! Perché gli altri nel mondo dipendono dalla nostra [sic] vita.» (Giussani ritiro di memores domini).
In tale ottica l’umanità intera troverebbe, dunque, completa realizzazione e redenzione solo nel lasciarsi afferrare e condurre da ciellini e memores, che obbediscono ai loro diretti superiori scelti da Dio stesso come responsabili della loro vocazione, poiché per Giussani l’obbedienza a Dio è data dall’obbedienza a colui che Egli ha posto come responsabile della loro vita. Ne consegue, per sillogismo categorico, che l’umanità intera troverebbe compimento e salvezza nell’obbedire alle autorità cielline. Forse c'è qualcosa che non va.
Riassemblamento
Processiamo a raffica, come fanno i computer, le caotiche mescolanze di intersecate circostanze casuali che, imprevedibili e indeterminate, incontriamo per la via. Le convogliamo in una tramoggia che le frulla e ottenuta la brodaglia un algoritmo, da noi programmato, le riassembla costituendole secondo un nostro ordine.
Ma forse quel caos andava bene proprio così come ci era arrivato. Forse nel frullarlo per ricostituirlo conformandolo, arbitrariamente, a nostre categorie standard di ordine e senso abbiamo perso qualcosa. Forse quella che noi chiamiamo casualità è la precisa espressione di una superiorità a noi nascosta.
Gli ultimi
L’anno scorso una pianta di Stramonio nata sulla roccia e tra le spine non era cresciuta manco una spanna, sempre più avvizzita conteneva solo tracce anemiche del suo alcaloide. Aveva prodotto un frutto nano da un fiore striminzito, però prima di morire da quel frutto erano usciti dei semi, le formiche li avevano trasportati nella terra più ricca e profonda e questa primavera sono germinati.
Oggi sono piante rigogliose alte quasi due metri con tanto di quell’alcaloide dentro da stendere un drago. Ricoperte da centinaia di fiori produrranno migliaia di frutti e centinaia di migliaia di semi.
Sostanza e qualità che, nonostante le condizioni sfavorevoli nelle quali erano costrette, un occhio attento avrebbe viste gloriose nella striminzita piantina dell’anno scorso. Questione di occhio più che di cuore.
Catechesi
Ripetiamolo assieme il nuovo catechismo sull’uso corretto del genere, impariamolo a memoria come quando ci si preparava alla prima comunione, sversiamolo nei pozzi prima di lasciare questo mondo, è dolce come la Coca Cola piacerà:
architetta, avvocata, chirurga, commissaria, critica, ministra, prefetta, notaia, primaria, sindaca, assessora, difensora… difensora? Sì difensora, è scritto nelle linee guida del MIUR.
Ehilà dico a voi, c’è ancora qualcuno dentro queste parole?
Modalità di esistenza
Per far bello il nostro giardino piantumiamo con cura fiori rari, lo zappiamo con fatica e lo osserviamo contenti. Ma una piena soddisfazione viene solo ammirandolo come se non fosse nostro.
Per qualche strana legge estetica la credenza del possesso contrae e degrada le cose, mentre la consapevolezza che le cose non sono nostre le espande e le nobilita. Accade così anche per il tavolo in cucina, provare per credere.
Strategie investigative
“Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.” (Pessoa)
Il patto narrativo è quel sottinteso accordo tra scrittore e lettore, dove il lettore compie una “parziale e momentanea sospensione delle facoltà critiche e accetta come se fosse vera una storia che sa in larga e diversa misura una storia fittizia” (H. Grosser). E perché mai il lettore e prima di lui lo scrittore dovrebbero accettare liberamente e consapevolmente la sospensione, seppure circoscritta, delle loro capacità critiche? Forse perché intuiscono che ciò che definiscono realtà è una loro credenza, una apparenza prodotta da prefissate, discutibili e parziali, facoltà critiche personali (“l'Io non è padrone in casa propria”, Freud), facoltà anchilosate che il gioco della finzione può rimettere in moto e espandere favorendo l'emergere del significato riposto della realtà.
Racconti e miti non sono le uniche manifestazioni di questa strategia investigativa del reale, anche la filosofia ne offre esempi, ben conosciamo gli innumerevoli “come se” che abbondano in Kant; nel metodo scientifico questi "come se" le chiamano ipotesi e non si farebbe un passo se non ci fossero, consideriamo il progredire della fisica teorica grazie a giovani scienziati scavezzacollo.
I dolci delle suore
La signora acquistava ogni domenica dolci nel convento di stretta clausura davanti casa, uno di quei conventi spagnoli col camposanto nel giardino e le novizie bambine. Diventata amica della suora portinaia la vicina si era offerta per far da tramite fra convento e mondo esterno, in caso di necessità le suore l’avrebbero trovata al terzo piano nella palazzina di fronte. Passavano gli anni e nessuna suora si faceva viva, ma trascorsi tre decenni il campanello suonava e si presentava l’ormai vecchia suora portinaia che, senza chiedere aiuto per faccende da sbrigare, voleva salire al terzo piano per vedere da là il suo convento, su quel balcone si fermava contemplandolo dall’inedita prospettiva, poi scendeva soddisfatta, attraversava la strada e rientrava per sempre nel suo convento.[1]
Evidente che nella clausura stretta assistiamo alla identificazione di suora e convento, così la vecchia suora contemplando il convento dal balcone di fronte vedeva tutta se stessa nella sua esistenza. L’efficace racconto ci riporta a quei momenti nei quali ci osserviamo come dal di fuori. Esperienza che tutti conosciamo quella del “vederci” senza specchio, basta considerare la capacità dell'intelletto di riflettere sui suoi contenuti, o il singolare "punto di vista" dal quale possiamo esaminare in tempo reale i nostri comportamenti, o modulare ciò che siamo immaginando.
E qui sorge la domanda, dato che tutto accade in noi stessi Chi osserva cosa? Dinamica osservatore-osservato ben nota a Oriente[2], ma noi che induisti non siamo che rispondiamo?
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1 La storia l’ho letta nell’ultimo capitolo del libro “La pazza di casa” di Rosa Montero. La scrittrice Montero l’aveva sentita dal romanziere José Manuel Fajardo, che a sua volta l’aveva appresa dalla narratrice Cristina Fernández Cubas. Nonostante il tortuoso percorso da scrittore a scrittore, notoria categoria di fingitori patentati, sembra che la storia sia vera. Visto il giro che ha fatto anch'io nel condensarla mi sono concesso di potenziarla, giusto un po'.
2 Roberto Calasso nel saggio «L'ardore» illustra la dinamica: "Dal Ṛgveda alla Bhagavad Gītā si elabora un pensiero che non riconosce mai un soggetto singolo, ma presuppone al contrario un soggetto duale. Così è perché duale è la costituzione della mente: fatta di uno sguardo che percepisce (mangia) il mondo e di uno sguardo che contempla lo sguardo rivolto al mondo. La prima enunciazione di questo pensiero si ha con i due uccelli dell'inno 1, 164 del Ṛgveda: «Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda». Non c'è rivelazione che vada oltre questa, nella sua elementarità. E il Ṛgveda la presenta con la limpidezza del suo linguaggio enigmatico. La costituzione duale della mente implica che in ciascuno di noi abitino e vivano perennemente i due uccelli: il Sé, ātman, e l'Io, aham."