Nel libro “Il cosmo come rivelazione” (Gabrielli Editori), è pubblicato un intervento di sole trenta pagine, ma denso di contenuti, del teologo spagnolo José Arregi, ex sacerdote, ex francescano minore. Il vescovo José Ignacio Munilla lo accusò di eresia sanzionandolo e lui se ne andò dalla Chiesa istituzionale. Un qualche vescovo masochista che fa scappare i più valorosi non manca mai. L’articolo si intitola “Il credo dinanzi alle scienze; Appunti per una teologia credibile”, segue una mia sintesi commentata. Molto commentata riguardo le criticità del post-teismo e del post-religionale estranee ad Arregi, che invece avverte la necessità di una teologia transteista, nonostante lo mettano nel calderone post-teista. Sotto tento di spiegare la differenza tra le due concezioni. [N.B. Gli estrapolati da José Arregi sono virgolettati, il resto è mio; giusto che non passi come detto da lui quelllo che non dice].
L’animismo dei popoli primitivi, ancora presente nello sciamanesimo, scorgeva un’anima in ogni cosa, poi col progredire della civiltà si separò sempre più la materia dallo spirito e viceversa. Arregi omette di citare che concezioni non dualistiche serpeggiano in tutta la storia della filosofia, basti ricordare tra tanti esempi possibili la visione schopenhaueriana che vede una “volontà” di vita, seppur cieca, presente in tutto l’universo, dall'uomo alla pietra. In ogni caso è innegabile che il dualismo spirito materia ha caratterizzato la tradizione occidentale greco-cristiana. Con le recenti scoperte scientifiche che vedono la materia costituita da energia questo dualismo millenario evidentemente non regge più. “La materia è energia, dice la fisica, ma allora domandiamo: cos’è l’energia, che abbiamo sempre immaginato come qualcosa di ben diverso da ciò che intendiamo per materia? Cos’è questa energia invisibile, inaccessibile, intangibile? E perché c’è energia? Perché tutto si muove e gira ordinatamente? E perché questa gravità che mantiene uniti, quasi amorosamente, l’atomo e le galassie, e come è possibile, allo stesso tempo, che l’Universo si espanda vertiginosamente? Perché tutto è come è? Cos’è? Perché è come è?”. Con quel “Cos’è?” Arregi fa metafisica, ma fa una metafisica collegandosi alla scienza in permanente rapporto dialettico coi suoi contributi: “Siamo interamente materia, ma materia complessa che si manifesta e si esprime in forme che definiamo spirituali e che emergono da ciò che chiamiamo materia”, non esiste quindi binomio materia e spirito, ma la materia è spirito e lo spirito è materia. Se le cose stanno così l’antropocentrismo vacilla, dato che lo stesso pensiero che l’uomo è il centro dell’universo, è smentito dalla circostanza che quel pensiero è frutto dell’elaborazione dell’energia che muove le particelle che costituiscono l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo, (la circostanza merita dei chiarimenti visto che se mangiamo pere non diventiamo pere ma restiamo persone, ci avevo provato qui).
Arregi vede l’inizio dell’antropocentrismo quando “10mila anni fa, la nostra specie umana Homo sapiens smise di vivere esclusivamente della caccia e dei frutti offerti dalla Madre Terra e iniziò a coltivare la terra, imparando a seminare e a piantare alberi. Fu un’ammirevole invenzione, un enorme passo avanti della civiltà, ma non esente da pericoli. Gli esseri umani si fecero signori e padroni della terra, ma anche servi e sudditi gli uni degli altri. Con l’agricoltura, l’essere umano acquisì potere sugli altri esseri della terra considerandosi a tutti superiore e applicando la logica del dominio e della subordinazione alle relazioni sociali e a tutte le istituzioni, compresa la religione”. Ricordo che lo storico Yuval Noah Harari ricordava, anch’egli, che l’antropocentrismo risale alla remota rivoluzione agricola, dove i sapiens da raccoglitori e cacciatori nomadi avevano iniziato a coltivare e allevare formando comunità stanziali con un numero sempre più alto e coeso d’individui. Incremento e coesione non solo dovuti a maggiori disponibilità di cibo, ma soprattutto grazie all’immaginare astrazioni condivise, divinità in primis, e a narrazioni di cosmogonie che vedevano l’uomo e il suo mondo sempre più al centro dell’universo. Storie che le attuali scoperte scientifiche minano alla radice.
La consapevolezza che interpretiamo il mondo anche poggiando su siffatti costrutti narrativi, su artefatti mitologici ereditati, dovrebbe portarci a sconfessarli tutti? E’ giunto il momento di finirla, una volte per tutte, di considerarli? Numerosi esponenti dei cosiddetti post-teismo e post-religionale affermano di sì, e hanno ragioni da vendere se tali verità sono considerate assolute e diventano occasione per stilare un corpo precettistico senza capo né coda. Cionondimeno, a ben vedere, queste narrazioni esprimono quote e cifre di valore che vanno colte e rinnovate nel loro spirito adeguandolo ai tempi. Arregi ci ricorda che religione e cultura sono inseparabili. Una cesura totale con le tradizioni religiose e sapienziali azzera con esse anche il kèrigma che veicolano, mentre una intelligente cernita ne permette il recupero. Il cestinarle in blocco senza vagliarle reinterpretandole penso sia operazione ingenua e grossolana, che ci conduce a passare, a piè pari, dal dualismo al monismo, dal teismo all’ateismo. Insomma a una brutta copia dell’illuminismo che ne emula la datata pars destruens, permanendo incapace di nuove proficue visioni del mondo, se non una proposta New Age che tenta forzatamente di fondere, il più delle volte confondere, misticismo e cosmologia. Criticità non da poco quelle del post-teismo, perché se ogni spiritualità tradizionale è giudicata nient’altro che una fantasiosa narrazione -dunque non è vero niente-, ne consegue un’accoppiata di nichilismo e relativismo spinti che annichilisce ogni estetica ed etica. E che fanno i post-teisti quando si accorgono che stanno tagliando il ramo che li regge? Fanno riferimento alla scienza proiettandogli addosso la dimensione mitologica, dalla quale si presupponevano emancipati. Il punto è che il sacro, majestas e tremendum, necessariamente ritorna perché è irriducibile dimensione pan-umana, e il sacro necessita di narrazioni per traghettare nel comprensibile l'incomprensibile.
Arregi lo sa, il suo discorrere è solido e si distingue dal post-teismo non precludendosi una onto-teologia, ovvero la possibilità di un Ente Supremo necessario, dico possibilità non proclamazione. Forse utile ricordare che una cosa sono i dogmi e i corpi dottrinari dei monoteismi tanto assurdi quanto opprimenti, quindi cestinabili senza remore, ma ben altra cosa è l’ipotesi vissuta di un qualche ente che seppur misterioso regge la realtà. Tra il proclamare la verità assoluta di questo ente necessario, verità addirittura rivelata, o il negarla pregiudizialmente, c’è anche una terza via che non si preclude di coglierla come Mistero che si manifesta nella realtà, in tutta la realtà incluse le tradizioni sapienziali e i loro miti -perché crederci tanto superiori ai tanti che prima di noi hanno indagato le cause prime coi limitati mezzi scientifici dei quali disponevano, ma non per questo meno arguti di noi tutti?-, scartando sì le scorie di quelle antiche tradizioni ma trattenendo il valore rinnovandolo, trovando così nel tesoro cose nuove e cose antiche.
Arregi è puntualissimo nel risolvere l'equivoco post-teista: “È chiaro che la soluzione al dualismo teista non può essere la sua antitesi correlativa, il monismo “panteista” secondo cui “Dio” e il mondo sono una cosa sola, come se tutto fosse “Dio” o “Dio” fosse la somma di tutte le cose. Dio o la Realtà ultima e il mondo non sono due ma nemmeno uno. Dio o la Profondità del Reale non è né dentro né fuori dal mondo. Dio non è dicibile né localizzabile”.