Clorosi metafisica
Addomesticare l’ignoto e irrazionale Dio è ridurlo a parvenza manco si sa più di cosa, un po’ come quando si confina una belva nello zoo del paese o si fanno acclimatare in una serra di Liverpool pomodori di Pachino.
Economia in perdita
Il diffuso fenomeno di provare più piacere nel sacrificio narcisistico di pagare rate per l’acquisto di un nuovo oggetto che sostituisca quello in uso, anche se perfettamente funzionante ma solo un pelino meno performante, rispetto al piacere di contemplare un tramonto a gratis, ha forse a che fare con dinamiche masochistiche e orgiastiche.
E’ come se un imperativo morale collettivo ci spingesse a lavorare nevroticamente contro i nostri interessi così da soffrire a pagamento; una sorta di misterioso desiderio di punizione da godere in gruppo.
Taoismo
Muovendosi nel Dào meglio fluttuare teneri che marciare tranchant, non tanto perché la tenerezza sia una virtù in sé, ma perché in quelle acque non appena affermi qualcosa crei il simultaneo accadere della cosa opposta, così più sei duro nell'affermarla più risulti preciso nel negarla.
Grammabelligeranza
Un giorno i cani del mondo stufi di sentirsi dire: “Gli manca la parola” risposero con Occam: “E’ futile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno”. Esseri parsimoniosi i cani, anche troppo, noi grazie alla parola abbiamo fatto (bene e male) molto più di loro.
Però su una cosa hanno forse ragione: non poche nostre dispute e incomprensioni religiose, filosofiche e politiche sono state e sono, inconsapevoli, dispute grammaticali, ovvero dispute (quasi) sul niente.
Grammacrazia
“E il giorno della fine non ti servirà l'inglese” (Franco Battiato, Il re del mondo, EMI 1979).
Si pensa poggiando su parole interiori e attraverso di queste, ma si pensa anche senza parole come fa il calciatore che tira giusto perché pensa giusto senza farsi discorsi[1].
Le parole materializzano l'invisibile pensiero e come fa il taxi lo tra-ducono così che arrivi a qualche destinatario. Il problema è che se partendo da questa indispensabile funzione della parola, diciamo così materializzante-logistica, si arriva all’equivoco di scambiarla per fondamento e mattone del pensiero, giungendo iperbolicamente ad affermare che possiamo pensare solo in base al numero delle parole che possediamo e che, dunque, se ne possediamo poche pensiamo poco e male, mentre se ne possediamo (capitalisticamente) tante pensiamo tanto e bene, è forse concezione un po' esaltata; potremmo chiamarla grammacrazia[2].
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1 Lo facciamo un po’ tutti questo pensare senza utilizzare parole, consideriamo gli esemplari di sapiens nati da poco, i vecchi analfabeti eppure saggi, tutta l’arte che non utilizza parole dette e scritte (roba sterminata), e anche l’arte che utilizza parole nelle sue significative pause e nelle espressioni di facce silenti. Lo fanno tutti quelli che sanno molto meno parole di Wikipedia ma pensano meglio e di più di questa, lo fanno i malati neurologici che cessano di parlarsi e di parlare ma non per questo di pensare, in fondo lo fa tutta la natura.
2 Così è per la parola vista in senso ontologico metafisico, ma non per questo possiamo negare che la parole costruiscono pensiero, e viceversa, specialmente in ambito sociale e politico, dove la miseria di linguaggio riduce la visione del mondo. Ma un livello non esclude l’altro, basta chiarirci di che cosa stiamo parlando, avendo chiaro il raggio d’azione, l’angolazione, ecc., per dirla filosoficamente lo statuto epistemologico che stiamo ottemperando.
Grammaidolatria
Alle volte possiamo pensare anche senza parole e non di rado i pensieri migliori (talvolta pure i peggiori) sono proprio quelli che, liberi da chiacchiericcio o da dotta parola interiore, sviluppiamo, elaboriamo e concludiamo, senza formulare parola. Lo facciamo più spesso di quel che sembra, contemplando la natura quasi sempre[1].
Se i pensieri stanno in piedi (anche) da soli è indizio che non sono fatti di sole parole. Poi grazie alla parola possiamo esprimere e comunicare agli altri il nostro pensiero così che tutti possano palparlo, e non è poco; anzi sotto certi aspetti è tutto, ma considerando che le cose sono anche senza nome, e visto che l’atto di pensiero è possibile anche senza linguaggio, affermare che in principio è la parola[2] è forse una esagerazione, può anche darsi un’idolatria.
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1 Nel trovarci di fronte a un Terebinto possiamo credere di vederlo benissimo anche se ci sfugge, succede quando ci poniamo nella traccia descrittiva spazio-temporale che ricorda il suo nome, la sua storia e le sue storie, i suoi usi, la sua struttura e la sua chimica, e invece di vedere il Terebinto ripetiamo parole sul Terebinto. Possiamo invece, ed è facile, cambiare traccia evitando ogni memoria e ogni parola che argomenta per trovarci semplicemente al suo cospetto, in tutt’altro paradigma e regno. Forse un buon modo per prepararsi a morire è quello di iniziare ad entrare in quest’altra eterna immanenza; le immagini del film "Solaris” di Tarkovsky (la musica è di Bach), che possiamo vedere qui, ci offrono un esempio di questa immanenza trascendente. Potremmo chiamarla contemplazione ma è meglio evitare, perché dargli nome è già uscire da quella traccia, se un mistico apre bocca rischia di gracchiare.
2 "Parola" e “Verbo” nel senso di logocentrismo, dove il logos, parola verbo, sarebbe non solo l’unico veicolo di ogni conoscenza, ma causa della coscienza che abbiamo della realtà che senza la parola non sarebbe. Parola esaltata, dunque, a sostanza, principio attivo, potenza, ipostasi, insomma all’Essere stesso nella sua totalità come l’incipit del Vangelo secondo Giovanni proclama. Ma alla fine ci sarebbe da chiedersi: cos’è di fatto questa Parola con la P maiuscola se non le umane parole del linguaggio in uso? Cos’è questa esaltazione del Verbo se non un discutibile inno all’antropocentrismo?
A capienza trascendente
«Come se la “verità” fosse una persona così indifesa e goffa, da aver bisogno di difensori» (Nietzsche), da sempre le tradizioni religiose hanno istituito comandamenti e precetti per preservare e difendere l’ortodossia delle dottrine proclamate e raddrizzare ciò che si discosta da esse. Quelle dei pacchetti precettistici che pretendono di raddrizzare l’umanità sono ortoprassi sempre meno accettate. Dal primato di presunte verità oggettive stiamo passando al primato del soggettivo, e forse la religione universale del futuro sarà costituita da miliardi di spiritualità differenti, una per ogni abitante del pianeta.
Va da sé che con il ridimensionarsi delle religioni tradizionali con i loro standard condivisi di ortodossia e l’incrementarsi di fluttuanti spiritualità individuali, l’esercizio di un fattivo pluralismo, che stimoli e protegga il processo, sarà sempre più importante. Con miliardi di spiritualità eterogenee, si innescherebbe un bel vespaio se solo un due per cento iniziasse a sostenere che la propria spiritualità è superiore alle altre.
Il problema è che il pluralismo se diventa comandamento imposto, se lo si esalta a dogma correlato da rigorosi precetti obbligatori, se non accetta il paradosso di accogliere chi lo combatte, non è più pluralismo. Non è relativismo che accetta qualsiasi cosa, ma neppure spara a vista all’eretico come fa un certo pluralismo politicamente corretto, deriva confessionale che fa rientrare dalla finestra i dogmatismi religiosi che erano usciti dalla porta.
“La mia libertà finisce dove comincia la vostra”, ma quel dove non è definibile o misurabile, non è equidistanza, omeostasi, alternanza, non è qui o là, non è fin qui o fin là, probabilmente è un dove trascendente non ubicabile e non istituibile con dimensione e capienza non circoscrivibili.
Dadaismo New Age
Nel dadaismo new age, nuova forma di spiritualità sempre più di moda, iI guru di turno può sparare a ruota libera cose che non stanno né in cielo né in terra, del tutto disinteressato al rapporto delle parole coi fatti. Sa bene che qualsiasi cosa dirà sarà percepita saggia, vera e santa, dai suoi proseliti, non per ciò che dice ma perché è lui a dirlo, o a tacerlo: l'esprimersi a monosillabi del maestro dadaista new age e a maggior ragione i suoi silenzi, sono qualcosa di potentissimo per i devoti, che invece di realizzare che il guru non sa proprio cosa dire, o non ha niente da dire, caricano inconsapevolmente quell'afasia di sacro mistero, per poi farcirla di sfolgoranti contenuti attinti dalla profondità del loro cuore e della loro mente.
Queste presupposte autorevoli e indiscutibili verità non sono, dunque, prodotte dal guru ma dai suoi devoti nel loro considerare la figura del maestro il non plus ultra, a prescindere. Più il maestro sarà deficiente e più gli ignari discepoli lo colmeranno con sublimi farine del loro sacco, fino a farlo traboccare. Processo il più delle volte emotivo, ma anche proiezione del proprio confuso pensiero dove “tutto sembra essere compreso, afferrato ed espresso con purezza, e invece non lo è, [equivoco] che offre alla curiosità ciò di cui va in cerca e alla chiacchiera l’illusione che tutto venga in essa deciso” (Heidegger). Filosofia e psicoanalisi possono aiutare a fare un minimo di chiarezza e ordine, non a caso il dadaismo new age, altezzoso, le esilia entrambe.
Come con la coda dell’occhio
Che cos'è l’essere? Come è? Perché è? Sono le domande ontologiche e metafisiche che chiedono ragione dell’essere, della verità (assoluta), del senso (ultimo). Dato che siamo (esistiamo) percependo noi stessi e il mondo, ci troviamo in una situazione per nulla semplice, sotto certi aspetti tragica: da una parte, facciamo esperienza di ciò che è per la semplice immediata esperienza che c’è (ci sono io, c’è il mondo, ci sono gli altri), ma dall'altra ci resta preclusa la conoscenza completa e assoluta di tutto questo (cos'è questo essere, come è, perché è?), visto che il percepire e il conoscere di noi mortali permane, per legge naturale, circoscritto all’interno del nostro parziale orizzonte mentale e percettivo.
Per dirla biblicamente: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” che il Signore disse a Mosè, o il “Dov'eri tu quand'io ponevo [l’essere]?” che domandò a Giobbe che si lamentava di pecore rubate e di ingiuste piaghe sul suo corpo.
E’ la classica opposizione kantiana fra fenomeno (ovvero come appare a noi la realtà) e noumeno (vale a dire ciò che la realtà è davvero in senso assoluto). Il problema è che se si pretende di veder questo assoluto faccia a faccia, nell’aut aut: se non vedo tutto e subito non mi schiodo, o ci infognamo in puerili equivoci prendendo lucciole per lanterne come accade in non poche confessioni religiose, o precipitiamo in una impasse paralizzante, in un cul-de-sac.
Forse meglio cambiare strategia, considerando che questo cuore della realtà possiamo comunque pensarlo e narrarlo, anche se permarrà uno scarto perenne tra la pensabilità dell’assoluto e ciò che realmente è. Per avvicinarci a questo cuore che fa tutte le cose non ci resta che girarci intorno a distanza di sicurezza così da percepirlo, attraverso la pensabilità e la narrazione, come con la coda dell’occhio.
Teorico irraggiungibile zero assoluto
Si possono formulare certezze assolute e definitive solo a cose ferme visto che se si muovono, e basta la danza di un elettrone, mutano.
Ma esistono cose tanto ferme?