Si fa presto a dire mistica
Nel leggere “Confessioni estatiche” di Martin Buber (1878 –1965), classica carrellata di scritti mistici di differenti religioni e tradizioni sapienziali, non sono riuscito a ottemperare per tutte le pagine la giusta indicazione dall’Autore-curatore, che nella premessa invita a non inquadrare l’estasi spiegandola da un punto di vista psicologico, fisiologico o patologico, ma vedendola invece come esperienza vivente di essere umani che dicono “della propria anima e del proprio indicibile segreto”.
Terminata la lettura della raccolta si realizza che l’esperienza estatica non è esprimibile con la parola, eppure ci sono stati mistici che attraverso le parole la indicano e la evocano, stimolando la nostra intuizione verso ciò che sta dietro e oltre quel dire. Negli resoconti estatici riportati da Buber questo irrazionale razionalissimo oltre talvolta arriva, talvolta no. Questo arrivare o non arrivare non è dato dalla capacità o dalla incapacità del mistico-scrittore di utilizzare stratagemmi linguistici capaci di comunicare l’incomunicabile, ma dalla potenza dell’esperienza estatica, quando c’è, se c’è, la sua onda lunga si riversa nelle parole impregnandole.
Il problema è che in alcuni mistici questa parola impregnata espande all’istante la nostra limitata condizione, ma in altri restringe e nausea come fa il profumo di caprifoglio, le beghine ne sono spesso infradiciate, profumo così dolciastro da virare a note fecali. Qui una interpretazione psicologica, fisiologica o patologica del mistico, e della suscettibilità del lettore nei suoi confronti, ci può anche stare.
Elementare, Watson ?
Apprendo dal saggio di Vito Mancuso I quattro maestri, la storia del monaco buddhista Sangamaji. Il venerabile durante la meditazione venne avvicinato dalla donna che era stata sua moglie che con in braccio il loro figlio gli chiese aiuto, ma il venerabile impipandosene di entrambi tirò dritto continuando la sua meditazione[1]. Vito Mancuso, commentando la cosa, afferma che il suo imprinting è diverso da quello di Sangamaji e che, dunque, mai potrebbe diventare buddhista, pur manifestando affetto e stima per quella tradizione sapienziale. Ci sarebbe da specificare che non tutto il buddhismo è riducibile al permanere assorti in una così disumana atarassia, chi ha frequentato monaci o lama buddhisti sa quanto siano umanamente compassionevoli e gioviali, ma il nocciolo filosofico che differenzia le concezioni orientali dalle nostrane, evidenziato da Mancuso, è innegabile[2].
Rischiando un eccesso di sintesi e non poca grossolanità, possiamo dire che a Oriente l’accadimento di essere una specifica persona in questo mondo è interpretato come un problema, anzi è Il problema, mentre noi lo vediamo un vantaggio. Il discorso orientale, semplice quanto radicale, è che la vera realtà non è il divenire delle cose distinte, ma un ingenerato, immobile, immutabile, immortale, indivisibile, auto-fondante, sempiterno e onnipervadente tutt’Uno. Essere all’interno del quale non sussistono entità separate individuate. Non sussistendo alcuno né a maggior ragione qualcuno, nessuno nasce e nessuno muore, quindi nessuno soffre… Elementare, Watson. Se tu non esisti chi mai soffre e muore? In tale concezione il grande equivoco che produce la sensazione della personale finitudine e del conseguente sgomento deriverebbe dall’erroneo auto-identificarsi con l’apparato psicosomatico individuale in divenire; io-persona che sarebbe nient’altro che una falsa apparenza di fatto inesistente ma che equivochiamo per reale, mentre noi saremmo L'Essere impersonale, il Supremo Assoluto.
La prospettiva orientale è innegabilmente vantaggiosa nel permettere di raggiungere una istantanea liberazione dalla sofferenza psichica e dalla paura della morte, grazie ad una semplice operazione concettuale: quella di auto-ometterci da noi medesimi. A operazione conclusa saremo asettici testimoni del Supremo indifferenti allo scorrere delle apparenze dell'io e del mondo. Ma appaiono subito evidenti anche gli svantaggi dell'operazione: che senso ha morire da vivi per sentirci liberi? Ne val davvero la pena? Il problema sta nella premessa che genera la strategia difensiva dalla sofferenza, se la premessa cambia muta pure la strategia: che il male serpeggi ovunque, che soffriamo e che siamo mortali è certo, ma pur con tutto questo è davvero sempre e comunque svantaggioso essere individui di questo mondo? Svantaggio tanto estremo da saltar giù dal mondo e da noi stessi per mezzo di una ascesi radicale, ma fino a che punto è vera l’affermazione portata da Schopenhauer per giustificare tale ascesi, a suo dire generata da «L'orrore dell'uomo per l'essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore»?[3].
Se Schopenhauer avesse ragione sarebbe davvero necessaria e urgente una ascesi che ci liberi alla svelta da questo terribile teatro dell’assurdo nel quale siamo precipitati, ma visto che in questo teatro, oltre a olocausti e oncologie infantili, di tanto in tanto può anche capitare d’incontrare sotto un sole che regolarmente risorge bella gente per la via, non è vero che siamo messi così male. L’epilogo personale accadrà spontaneo senza necessità di forzate anticipazioni, nel frattempo perché non apprezzare ciò che specificatamente siamo[4] e personalmente possiamo, aiutando e dispiacendoci di qualcuno che va e rallegrandoci di qualcuno che viene? Anch’io buddhista non mi faccio.
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1 Riporto il brano estrapolato da Udana, 1,8, ed. it. A cura di Francesco Sferra, in La rivelazione del Buddha, vol I, cit., pp. 604-605, nel saggio I quattro maestri di Vito Mancuso viene citato pag. 208: « Nelle scritture buddhiste si legge la storia di un monaco di nome Sangamaji, che mentre era seduto in meditazione venne raggiunto da una donna che era stata sua moglie con il loro figlioletto. Per tre volte la donna disse: “Asceta, prenditi cura di me, ho un figlio piccolo”, ma egli neppure la guardò. Ella allora lasciò il bambino dicendo: “Questo è tuo figlio, asceta! Abbine cura!” ma, continua il testo”: “Il venerabile Sangamaji né guardò il bambino, né gli parlò”. La donna allora, che si era allontanata solo di poco, venne a riprendersi il bambino e andò via. Conclusione del sutra: “Con l’occhio divino che è puro e sovraumano il Beato vide tale comportamento scorretto dell’antica moglie del venerabile Sangamaji. Alla luce di ciò in quella occasione il Beato pronunciò i seguenti versi ispirati” “Non si rallegra di lei che viene, né si dispiace di lei che va. Sangamaji, libero da legami, è colui che io chiamo brahamana" ».
2 L’essere nati, albergare in un corpo, disporre di individualità, dalle religioni e dalle filosofie orientali è generalmente considerato un handicap, un ruzzolone dove l’unico vantaggio del momentaneo soggiornare in questa valle di lacrime, che chiamiamo mondo, è quello di voler liberamente rinunciarvi con ferma volontà, per approdare a un nirvana dove l’io scompare fondendosi con l’Assoluto. Viceversa nella tradizione giudaico-cristiana assistiamo al colpo di scena della divinità assoluta che sceglie di diventare uomo. Kenosis dicono i teologi, Iddio che riduce sé medesimo per entrare corporalmente nel mondo, così da salvare i disperati che ci vivono sopra. Riduzione di Dio che eleva all’istante, per effetto speculare, l’individualità di ogni uomo e dunque della storia e della civiltà a Dio. Per certi versi il cristianesimo è l’unica religione che afferma la convenienza, finanche il privilegio, di essere uomini, per l’evidenza che Dio ha voluto esserlo. Non a caso la visione cristiana, a differenza di quelle orientali, ha stimolato un antropocentrismo spinto, con tutte le problematiche storiche, ma anche i vantaggi - ci sarebbe scienza senza una quota di antropocentrismo?- che questa elevazione di Homo sapiens ha comportato. Le radici di questa esaltazione dell’uomo e della sua civiltà attivate dal cristianesimo le troviamo in Agostino, ma Hegel si è spinto forse oltre. L’idealismo filosofico che ha esaltato l’umano pensiero fino a negare l’esistenza autonoma della realtà se sprovvista di noi che la pensiamo, è germinato e ha attecchito nel milieu religioso della tradizione cristiana. Karl Löwith, lucidissimo al riguardo, così illustra ed elabora la tematica: «Nella filosofia della religione di Hegel, in realtà, si tratta innanzitutto di concepire la dottrina dell’incarnazione di Dio, poiché questo dogma si tocca direttamente con la metafisica hegeliana dello spirito finito e infinito. Dio è spirito e solo nello spirito può essere concepita la sua verità; per essenza l’uomo è parimenti spirito e perciò si trova in una relazione essenziale con Dio. Dio e uomo sono in relazione l’uno con l’altro, laddove la natura non ha un proprio rapporto con lo Spirito concepito come Assoluto. […] Ad una simile visione dello spirito quale “vertice” della soggettività, ad un simile far culminare l’universale, infinito Spirito divino in un unico soggetto, è giunto, però, solamente il cristianesimo. […] Il “rovesciamento” rivoluzionario operato dal cristianesimo consiste nel fatto che l’uomo non è considerato più come un essere che fa parte del cosmo e che, a differenza degli dèi immortali, è un essere mortale, piuttosto: è proprio il divino ad essere collocato al vertice della soggettività e Dio stesso ad assumere una natura umana». […] Dal momento che Dio si è rivelato in un singolo uomo storico, è diventato palese l’immane paradosso che non solo Gesù Cristo, ma l’uomo in generale ha una natura divina, che natura divina e natura umana nella loro essenza sono identiche: una identità dialettica, in cui Dio trova nell’uomo la propria autocoscienza». Potente (forse troppo) anabolizzante dell’io umano, roba pericolosa che potrebbe fare male. Male o bene che sia questa singolarità del cristianesimo rispetto alle altre religioni e spiritualità è dato inoppugnabile.
3 Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. 1, pag. 68.
4 Dalle nostre parti dove piuttosto che apparenze preferiamo vedere realtà specifiche e individualità irrepetibili, abbiamo inventato termini come quiddità che dice l'indagine e l'affermazione della specifica singolarità di qualcosa e ecceità che dice e conferma la realizzazione insostituibile e univoca della realtà ultima di un determinato ente.
Contemplazione rurale (bis)
Di fronte alla natura c’è quasi sempre da subire se è percepita come funzionamento, ma invece molto da contemplare se è sentita come flusso discorsivo che si mischia al nostro ordinandolo e potenziandolo.
Contemplazione rurale
Per realizzare un giardino e impararci qualcosa ciò che conta non è l'artefatto di piantumare trecento piante di un centinaio di specie, ma il sapere ritrarsi se il lentisco nel suo crescere soffoca la lavanda, e lasciare che questa marcisca e l’altro rinvigorisca grazie a quel marciume percependoli tutt'uno.
Inconfutabile sensazione
Nell’ascoltarlo trovava davvero giusto quel suo discorrere che partendo da perfette premesse dimostrabili concatenava razionalmente gerarchie di concetti ineccepibili e provati, giungendo a argomentata, circostanziata e puntualissima conclusione definitiva,
ma più trovava esatto quel dire e meno lo convinceva.
Il dio sensibile
“Il dio sensibile, saggio sul panteismo", è un libro del filosofo Emanuele Dattilo che articola il panteismo partendo dalle premesse concettuali di Spinoza, Giordano Bruno, Schelling, David di Dinant, Amalrico di Bène, Tommaso Campanella, Epicuro, Scoto Eriugena, Franz Kafka, Niccolò Cusano, Avicebron, Plotino e altri, non pochi passaggi sono attinti dalla Kabbalah. Anche se l’Autore eviti di annotarlo è interessante osservare quanto il panteismo serpeggi nel paradigma teista, quasi ne fosse un’eresia. Pensatori che Dattilo vede accumunati dall’essersi emancipati dalla tradizione del Dio architetto che crea dal nulla, concezione creazionista e architettonica sovente migrata, in forme palesi o criptiche, nell’intera filosofia post socratica. Per l’Autore il panteismo rifiutando la concezione del Dio creatore ridimensiona la concezione di salute individuale e sociale derivante da processi educativi, etici e culturali fautori di progresso, processi che per certi versi sono una continuazione di quell’inizio narrato in Genesi.
Il libro conduce a guardare in faccia la realtà in presa diretta per come è sempre stata prima dell’invenzione di un creatore antropomorfo, in un continuo infinito presente dell’aver luogo della vita. Ben si capirà che così facendo ci si avvicinerà a territori contemplativi, mistici e anche magici, ma il saggio non cade mai in derive misteriche. Riguardo l’etica evidentemente collassano tutti quegli arbitrii condivisi, che chiamiamo valori, derivanti dalla concezione teistica, ma in ogni caso rimane il problema della sofferenza, quello sì reale e al quale porre rimedio non attraverso regole morali, ma grazie a una più profonda consapevolezza della interconnessione naturale degli esseri senzienti e degli enti tutti.
Senza negare l’evidenza e l’utilità del progresso storico e sociale Dattilo porta a vedere il mondo -lo fa senza intenzione- come lo avrebbe potuto vedere un uomo primitivo, un mondo naturale libero da canoni culturali prefissati, a volte fuorvianti e asfittici. Evitando esaltazioni e esagerazioni viene proposto un naturalismo per così dire allo stato brado, prima di ogni contaminazione concettuale dualistica che separa la mente dalla materia, il sensibile dall’intelligibile, la materia dalla forma, l’essere dal pensiero, il soggetto dall’oggetto, la causa dall’effetto, il bene dal male e il sacro dal profano, aggiungerei anche la vita dalla morte. La proposta di fluttuare nella natura, nella materia, senza prefissarla con intepretazioni preconcette ma rispettandone la potente e viva dinamicità monistica, si dipana permanendo in terreno filosofico senza cadere in banalizzanti derive New Age, anzi implicitamente denunciando, nel rigore dell'esposizione, quanto certi modi frettolosi e superficiali di vedere siano nient’altro che una parodia del Deus sive Natura.
Forse il testo in qualche snodo andava integrato con dei chiarimenti. Affermazioni come "Dio è Tutto", "Tutto è Dio", sembra dicano qualcosa, ma a ben vedere affermano tutto e niente e dicono poco. Perché dicano andrebbe spiegata ogni volta la relazione tra il pensiero di chi le afferma, il linguaggio che questi adopera per esprimere quel pensiero, la realtà di riferimento, così da evitare il rischio di finire in trappole grammaticali -nel panteismo intendersi sul vocabolario da utilizzare è cruciale-, ma il testo si sarebbe appesantito non poco e il compito è giustamente lasciato al lettore. Il problema è che nel procedere con la lettura ho realizzato che più ci si inoltra nel panteismo e meno si può prescindere dalla filosofia del linguaggio, ma nel farlo ci si rende subito conto che nell’affrontare queste cose l’anello debole della catena non è colui che pensa e neppure la realtà pensata, ma le parole utilizzate per metterli in connessione. Quando c’è di mezzo Dio, personale o impersonale che sia, va sempre a finire che il linguaggio arranchi.
Emanuele Dattilo “Il dio sensibile, saggio sul panteismo”, Neri Pozza.
La cifra
Per spiegare in poche parole Homo sapiens a un qualche essere di un pianeta lontano, potremmo dirgli che siamo gli unici animali che ridono, oppure che siamo i soli che ragionano o che sanno che moriranno, ma per spiegarci davvero forse meglio fare qualche esempio dei nostri esemplari.
Potremmo riferire di registi che nel fare un film sulla giustizia sociale sottopagano gli attori, di preti che inneggiano alla castità e fottono i pargoli, di sindacalisti che parlano di giustizia e picchiano la moglie, di religiosi corrotti che rubano fondi destinati ai malati o di intellettuali che esaltano la legge ma sono insofferenti al codice stradale.
E’ questo scarto interno all’individuo la cifra che ci fa unici. Considerando anche gli esemplari che, opposti ai casi summenzionati, predicano male ma razzolano bene la separazione interna riguarda un po' tutti.
Homo sapiens quelli scissi.
Materialismo religioso
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa». (Dal Vangelo secondo Marco).
Giorno e notte una ottantina di organi del corpo suddivisi in una decina di apparati che si sono costruiti per conto loro funzionano, perlopiù con precisione, rispettando migliaia e migliaia di parametri.
Accadimento superiore, visto che noi non ne siamo capaci, al quale conviene affidarci dall’inizio alla fine.
Dispnea psichica
Il dogma discorsivo ordina che partendo da premesse dimostrabili si concatenino razionalmente enunciati, positivi o negativi, giungendo così a conclusioni logiche.
Davvero giusto. Ma fa bene alla salute?
Introiezioni
Dalla sorgente mica sgorga acqua nativa ma del sottosuolo, così è per il colpo di genio.
Non possiamo escludere che tutto quell’interpretare l’umano pensare come strabiliante momento creativo primo e originale ci derivi dall’aver introiettato il racconto di Dio che crea dal nulla.