Anche senza studiare Schopenhauer basta osservare i piccioni in calore che gonfiano il collo girando su se stessi, il fiore di issopo che attira l’ape impollinatrice, i ragazzi col ciuffo alla rockabilly nel tentativo di attrarre qualche femmina nella piazza del paese che accorre con minigonna mozzafiato, per constatare che siamo zimbelli della natura, obbedienti al sommo funzionamento finalizzato alla perpetuazione della specie, della vita, dell’essere. Unica eccezione nel sommo funzionamento qualche strano esemplare di sapiens, che invece di ottemperare il decreto biologico opta, anarchico, per una ascesi che si oppone all’immane forza propulsiva che fa e perpetua la vita.
Opposizione che il più delle volte produce colpi di rinculo tanto violenti da far cessare il tentativo sul nascere, o attiva inenarrabili perversioni, ma altre volte l’immane lotta intrapresa da fachiri, stoici e monaci, sì strana ma nondimeno presente in ogni tempo e a ogni latitudine, determina filoni esistenziali e intere storie personali. Quale sarà l’origine di questo misterioso ideale oppositivo e rinunciatario alla vita?
Paul Valadier nella sua monografia su Nietzsche[1], risponde all’interrogativo vedendo questa rinuncia ascetica attivata proprio dalla forza vitale che intende combattere. Citando Nietzsche scrive che l’ideale ascetico “ha origine nell’istinto di difesa e di salvezza di una vita in via di degenerazione”. L’asceta consapevole della inevitabile caducità del mondo e del suo individuale apparato psicofisico prende distanza da queste potenziali ceneri, abbracciando quelle parti e dimensioni, diciamo così spirituali, che considera stabili e imperiture. Ancor prima di iniziare, per legge naturale, a perdere pezzi per strada come le foglie in autunno, l'asceta reprime da subito le sue parti caduche per focalizzarsi sulle parti che considera imperiture. E’ un po’ come giocare d’anticipo nella partita dell’esserci nel tentativo di vincerla, come si fa nel calcio, nel tennis e pure nel jazz.
Quindi la strategia dell’asceta tende alla vita e all’essere attraverso una rinuncia che “nasce dalla volontà di vivere la vita, rifiuto della vita come modo per tenere alla vita. L’asceta tiene non già al suo ideale bensì alla propria vita”. L’ideale “serve dunque a mantenersi in vita contro ciò che, di sé, sembra sconfessare la vita”. L’asceta anch'egli zimbello della natura è mosso dalla stessa potenza che stimola i piccioni a gonfiare il collo, che eccita il fiore a produrre nettare per attirare l’ape, ed è spronato dallo stesso decreto biologico che spinge i ragazzi a farsi il ciuffo alla rockabilly per attrarre femmine così da perpetuare la specie, con la differenza che l’asceta ottempera il decreto naturale con una devozione assoluta e chirurgica, per certi versi un po’ più egoica nel suo tentativo di permanere individuo eterno cavalcando la specie.
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1 “Nietzsche e la critica radicale del cristianesimo”, Paul Valadier; Edizioni Augustinus.