Plagio
Strana forma di rubare è il plagio:
una appropriazione totale del bene senza che nulla sia sottratto al legittimo proprietario che ne dispone per intero come prima del furto;
talvolta molto di più per l’ostentazione della refurtiva inscenata dai ladri.©2013
C’era una volta
Io chi sono? Non sono causa di me stesso eppure sono. Per emanciparmi dalla strana condizione avevo creduto a fiabe popolari di genere tradizionale di quelle condivise, di quelle che sistemano, di quelle che piacciono, di quelle che tranquillizzano. Ogni civiltà ha le sue. Però ricordo al risveglio dall’ultima operazione, dopo sei ore di anestesia, la coscienza che andava e veniva in un istante come quando si accende e spegne la lampadina del soggiorno. Quando si spegneva, nello sparire vedevo che con me si dissolveva l’intero universo. Quando si accendeva, prima tornavo io e immediatamente dopo, successivo al mio pensiero, tutto quanto. E’ dunque l’universo che esiste grazie a me e non il contrario. Davvero semplice: se si riuscisse a spiegarlo all’asilo le religioni smetterebbero di colpo, come i temporali estivi. Non serve. I bambini lo sanno già anche se poi lo dimenticano. Lì, al sorgere dell’amnesia, chiedono disgraziati che gli si racconti una fiaba.
Prevenzione
Il permaloso, l’altezzoso e anche il fondamentalista dovrebbero, perlomeno, preavvisare l’interlocutore.
Metodo efficace è che si appiccichino sulla giacca un triangolo giallo per segnalare al mondo pericolo latente;
un cerchio rosso a indicare divieto e uno azzurro che avverta degli obblighi a lui dovuti.
Utile anche un rettangolo rosso relativo al materiale antincendio per spegnerlo quando si incazza.
Indispensabile quello verde per le vie di fuga.
“Vita di don Giussani”
Nel redigere di umane vicende le “cose” vengono inevitabilmente a esistere attraverso l’angolazione di chi le scrive. Alberto Savorana autore della biografia «Vita di don Giussani» informa, dunque lealmente e dall’introduzione, dell’amicizia devota al protagonista, nucleo affettivo e punto di vista dal quale svilupperà il saggio biografico:
«A lui i fatti della mia vita - interessi, professione, famiglia - sono strettamente legati. Nel rapporto di lavoro e di amicizia con don Giussani mi sono trovato dentro un flusso esistenziale e storico - “una febbre di vita”, come amava dire -, che non si è mai interrotto.»
Chi cerca una biografia conforme allo “statuto epistemologico storiografico” ha, pertanto, sbagliato posto: a don Giussani l’Autore vuole bene e intende onorarlo celebrandolo. Legittima e libera proposta di patto narrativo che, fatta salva la medesima legittima libertà di critica per il lettore-recensore, abbiamo accettato. Recensore appartenuto nel periodo 1970-1980 a Comunione e Liberazione, momento storico che nella biografia appare cruciale, sia in ambito ecclesiale che sociale. Impegnato a Milano nella prima metà di quel decennio a scansare sprangate di extraparlamentari devoti a Lenin - da quelle parti e in quel periodo era d’uso appartenere a una qualche Chiesa -, nella seconda metà a frequentare regolarmente Giussani, all’interno del gruppo paramonastico memores domini da lui guidato.
Appare irrefutabile, appurate le premesse, l’incombente rischio di scivolate agiografiche che Savorana, nello svolgersi biografico, riesce in parte a attutire omettendosi: un Piccolo scrivano fiorentino che riporta e raccorda citazioni, scritti di altri, circostanze e testimonianze attinenti al protagonista evitando, perlopiù, di dire “la sua” se non chiarendo passaggi complessi e armonizzando conflittualità all’interno di una visione mitica che interpreta Giussani paladino di verità, bellezza e giustizia.
In un approccio affettivo o fondamentalistico, che accetta come certi e inconfutabili i presupposti narrativi, nella fattispecie l’identificazione della presenza di Cristo-verità-bellezza-giustizia con Giussani e Comunione e Liberazione, l’opera può essere letta come un avvincente e seducente (a chi piace il genere) romanzo amoroso-cavalleresco valoroso per estensione (1350 pagine), ma è sufficiente un minimo di pensiero attivo, di decostruzione nel merito, perché il fascino lasci posto a numerose perplessità. Pur riportando accadimenti conflittuali vissuti da Giussani oltre a sporadici frammenti di testimonianze non entusiastiche sulla sua figura, la biografia risulta, nell'insieme, omissiva per scelta di materiali tendenzialmente conformi - come da programma - alla celebrazione, sovente tanto omogenei da risultare concelebrativi.
Lo stile della biografia affresca i primi anni del giovane prete alLa piccola fiammiferaia di Andersen, con affumicanti stufe a carbone e malattie che incombono e nel riportare stralci estrapolati dai discorsi e dagli scritti più ‘vigorosi’ di don Giussani - a beneficio attenuante del biografo, va riconosciuta la quasi impossibilità di rintracciarne di non vigorosi - evoca, per piressia, I dolori del giovane Werther del primo Goethe. Una realtà passionale dipinta con smisuranza che narra di dolori supremi o di godimenti traboccanti, ostentando - a differenza di Goethe - muscoli ipertrofici gonfi di Teorie con copiosità di toni esclamativi, di aggettivi e avverbi gagliardi oltre a verbi un po’ circensi: “travolgere, rischiare, infiammare, sfidare, abbagliare, bruciare, gridare, sobbalzare, incendiare, percuotere, schiantare, irrompere, stupire, esplodere, stravolgere” favorenti l’esaltazione e inibenti l’inferenza. Narrazione che, attraverso un insolito linguaggio binario di “disgrazia/grazia”, conduce in una atmosfera a tratti asfittica a tratti iperossigenata, sopra e sotto le righe del pentagramma naturale, in un pianeta abitato da individui col fiato mozzato e gli occhi sbarrati, o per terrore della personale disperata e mortale miseria umana, o perché stupefatti dalla sovrabbondante grazia di un Dio che, fattosi uno di loro, entra traboccante nel tempo-spazio salvandoli dall’orrore.
La mole di citazioni fa riecheggiare immagini di palazzotti monumentali dell’ex URSS, quelli parallelepipedi con migliaia di finestre allineate, sempre diverse ma sempre uguali, che monotone dicono e ridicono - nel metodo e nel merito - il nucleo filosofico-ecclesiologico giussaniano. L’immedesimazione del biografo con tale quantità di citazioni, del e sul protagonista, è tale da indurci alla illustrazione critica del pensiero di Giussani stesso, restringendo la valutazione della biografia in sé a quanto fin qui esposto. Descrizione critica non introduttiva, che pertanto potrebbe risultare ostica al lettore che si approcci per la prima volta alla tematica e per mia eventuale dappocaggine espositiva e per le oggettive e numerose ambiguità, contorsioni, ridondanze, oltreché ossimori, crampi mentali, doppi legami e tripli salti mortali nei quali sono costrette capacità di intendere e logica nell'affrontare l'architettura giussaniana.
Concezione ecclesiologica giussaniana così sintetizzabile: Dio entra nella storia dei miserabili uomini e presceglie alcuni. Lì prende casa nelle loro viscere «fin nel midollo delle ossa» e attraverso l’unità dei prescelti, a Lui e tra loro incorporati, si fa incontro. Esperienza-presenza annunciata all’umanità tutta per salvarla dal nulla che le incombe addosso; ogni bene nel tutto ricondurre e nel totale appartenere a tale avvenimento, ogni male fuori da lì:
«La gioia più grande della vita dell’uomo è quella di sentire Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore. Il resto è veloce illusione o sterco» (don Giussani p. 51).
Ammesso e non concesso che ogni identità personale sussista sulla differenza da tutti gli altri e pur considerando l’intera storia del cristianesimo con i connessi miliardi di cristiani presenti nel mondo - che peraltro nel riferirsi al messaggio includente di Gesù di Nazareth appaiono, sovente, ben lontani dalla concezione giussaniana - l’affermazione appare imbarazzante nel suo squalificare ogni forma culturale e esistenziale e qualsiasi modalità di essere nel mondo se difformi dalla propria, in quanto tutto “il resto” valutato da Giussani “illusione e sterco” rappresenta e esprime, inequivocabilmente, la stragrande parte dell’intera umanità e di tutta la sua storia. Corrivi di fronte a tanta altezzosità gli sfavillii di consenso trasversale, con rare eccezioni di sobrietà, della stampa nazionale nel presentare la biografia, probabilmente recensita con pregiudizio positivo senza averla integralmente letta o senza averla, forse, intesa (Gianni Riotta, Vincenzo Sansonetti, Francesco Alberoni, Eugenio Mazzarella, Pierluigi Battista, Filippo Ceccarelli)[1]. A ben vedere una sana identità sta agli antipodi da ogni particolarismo e identicità autistica, semper idem implicitamente violento nel castrare ulteriori domande e precludere differenti possibilità. L’identità per definirsi e consolidarsi necessita di continua e movimentata interpretazione-riformulazione dell’ambiente nel rapporto con tutti gli uomini; interazione universale, creativa e costante dell’Io con ciò che lo circonda e viceversa, così la forza dell’identità è misurabile dalla capacità di fluttuare per riformulare-riformularsi e la miseria dalla statica identicità, vale per l’identità della persona, di un gruppo, di un popolo.
Il “sentire Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore” mentre tutto “il restò è veloce illusione o sterco”, proferito da Giussani ventiquattrenne, appare in centinaia di pagine nucleo del programma educativo di tutta la sua esistenza a venire: risentimento primigenio verso il mondo che immagina vendetta. Urgenza educativa suscitata da una «passione per l’umano» che interpreta la persona, in quanto non causa di sé stessa, costituita da miseria e indicando - in un atto di “fede razionale” - il divino "Altro” come esclusiva e compiuta risposta all'umana strutturale leopardiana insoddisfacibilità. Preoccupazione educativa generata da alienazione per il supposto assedio delle differenti e circostanti culture, declinata in tutte le forme immaginabili: passione educativa, priorità educativa, urgenza educativa, ansia educativa; nelle varianti belliche da sindrome da accerchiamento: difesa educativa e missione educativa «come se la “verità” fosse una persona così indifesa e goffa, da aver bisogno di difensori!» (Nietzsche, Al di là del bene e del male). Chiara la contraddizione: se esistesse davvero una verità assoluta, universale, integrale, immodificabile ed unica, sarebbe evidentemente costitutiva[2] non educativa; non avrebbe necessità alcuna d’essere propagandata, inculcata e neppure difesa perché s’imporrebbe per forza propria. Nei numerosissimi stralci di esercizi spirituali pubblicati nella biografia possiamo osservare un collaudato canovaccio immaginativo-narrativo che, a fini educativi, si ripete sistematicamente. Giussani all’inizio diceva la miseria della condizione umana, esponendo un nichilismo estremo e assoluto, quando il bisogno di salvezza dell'ascoltatore raggiungeva l’acme, proprio un momento prima che giudicasse lo spermatozoo un bandito allo stato puro (Cioran) e che si sentisse sparire incenerito nel nulla eterno, faceva 'arrivare i nostri’: Iddio che salva nell’avvenimento della Chiesa cattolica; nella fattispecie Comunione e Liberazione, "Chiesa al quadrato" (Luciano Caimi). Una strumentalizzazione della sofferenza e della ricerca di senso all'umano esistere dove più l’oratore-attore era abile nel rappresentare e affermare un nichilismo devastante e disperato - Giussani era bravissimo - e più lo spettatore, se ingenuo, si disponeva piccolo-piccolo, quanto il due di briscola quando il fante irrompe in tavola, a accogliere l’annuncio di nostrani Allahu akbar, Gott mit uns; presupposto monolitico eminente Avvenimento risolutivo grande-grande e obbedirgli. Va riconosciuto a Giussani il merito di aver enunciato la Rivelazione cristiana evitando di partire dall’alto dei cieli e correlati dogmi curiali, sovente irrazionali quanto opprimenti, ma argomentando con taglio esistenzialistico (senso religioso) “dal basso”, ovvero dal chiedersi e chiedere la ragione ultima, dunque esauriente, del proprio essere ed esistere nel mondo evitando di attardarsi in rarefatti percorsi teoretici ma ponendo l’accento sulla realtà concreta del vivere nel mondo; senso e significato sull'essere e sull'esistere di ciascuna persona nelle specifiche e reali circostanze del quotidiano. Approccio efficace e condivisibile, non per niente i giovani accorrono. Buono l'inizio, problematico lo svolgimento in quanto l’ente “Nulla”, nel quale Giussani vede originariamente infognata l'umanità intera, è teoria che non trova riscontro nella realtà che necessita di un vero e proprio atto di fede glissando sull’evidenza della realtà della Natura, dell’umanità e della storia; dopotutto basta una cane che muove la coda e il nichilismo vacilla. Opporsi al nichilismo proclamando una verità assoluta è processo che appartiene allo stesso nichilismo, anzi lo catalizza nel permanere nel «Niente è vero, tutto è permesso» (Nietzsche - Così parlò Zarathustra), al voilà la Verità indiscutibile (in nome della quale) tutto è permesso. Trasponendo la metafora di Mao Tse-tung quando scriveva che i guerriglieri devono «nuotare in mezzo al popolo come i pesci nell'acqua», possiamo osservare che nichilista e fanatico nuotano nello stesso lago. Nichilismo che se estremo conduce a due possibilità: la prima, nota ma di fatto poco diffusa, che si esprime nel rifiuto d’esistere fino anche al suicidio; la seconda più diffusa ma sfuggente, che invece reagisce a tale ipotetico nulla con narrazioni salvifiche sopra le righe, costruzioni in apparenza agli antipodi dal nichilismo grazie ai suoi salvatori di patrie e di anime traboccanti di “valori” e entusiasmo, mentre, a ben osservare, proprio sul nichilismo si radicano e poggiano. Dopotutto in ogni esaltato, sotto, sotto, c’è un disperato.
Peculiare narrazione che fonda le Chiese cristiane così riassumibile: la natura e gli uomini creati in principio da Dio permanevano, e in qualche modo continuavano a permanere anche nel cristianesimo, in una sorta d’insussistenza ontologica: «Io [Iddio] sono colui che è, e tu [creatura] sei colei che non è» (da santa Caterina da Siena). Il problema è che Dio era concepito, prima dell’avvento di Gesù Cristo un Tutt’altro assolutamente trascendente la sua stessa creazione; entità incommensurabile, inesprimibile, inconcepibile, un Aldi là di tutto assoluto (formula patristica di stampo neoplatonico attribuita a Gregorio Nazianzeno). Stando così le cose vediamo una terra abitata da creature, sì, reali nondimeno ontologicamente insussistenti e da un Dio creatore, sì, plausibile ma albergante in così alti cieli, tanto altro e oltre, da risultare inconcepibile alle sue stesse creature, ma all’improvviso… Colpo di scena mozzafiato: il sublime Tutt’altro si fa uomo. L’irrisolvibile è risolto e quell’universale limbo paralizzante di entità rarefatte, per illimitata piccolezza o per infinita grandezza, viene spazzato via per sempre grazie all’incarnazione di Dio in Gesù Cristo e alla Sua presenza sacramentale nella realtà umana della sua Chiesa nel mondo. Colpo di scena narrativo forse grossolano, infantile e infantilizzante, rispetto a più dignitosi e più realisti, quanto faticosi, percorsi di ricerca filosofica sulla problematica che forse Dio meriterebbe dalle sue creature, in ogni caso tanto caro a Giussani. Come dargli torto? Tra tutte le storie che l’umanità ha concepito n’esiste qualcuna più affascinante, semplificante e consolatoria?
Giussani evidenziava la natura oggettiva, storica ed esperienziale del cristianesimo, espressa da Comunione e Liberazione, utilizzando le parole “avvenimento”, “realtà”, “esperienza”, “incontro”, “compagnia”, per rimarcarne l’antitetica natura e struttura rispetto a teorie e idee, in tale prospettiva sovente utilizzava il più moderno e scientifico termine “fatto”. Un estemporaneo positivismo affermante l’autorità immediata e incorruttibile del fenomeno in sé, nel caso di specie il fenomeno storico di un gruppo particolare d’individui come prova valida e veritiera della presenza di Dio nel tempo tramite i da Lui prescelti, per la bruta evidenza che tale gruppo c’è. Interpretazione che oltre al glissare sull'evidenza che «un Dio che ha dei favoriti non è Dio ma un idolo» (Kierkegaard, Aut Aut), trascura di considerare la ragionevole possibilità che tale aggregato umano possa costituirsi e sussistere pur sprovvisto di regia soprannaturale per mera accettazione degli appartenenti alla medesima, accomunante, teoria. Inevitabile questo sistematico ricorrere alla fallacia argomentativa e al diallélo, quell’argomentare che si affanna di dare per dimostrato ciò che in realtà è proprio da dimostrare, non è per nulla agevole convogliare razionalmente Dio, mondo e umanità intera, dentro una bolla, senza concedersi qualche trucco. Evitando di tirare in ballo la fisica quantistica nel suo sentenziare quanto un fenomeno sia plasmato da chi lo osserva, l’ermeneutica filosofica spiega quanto concepire il “fatto” dogma inconfutabile possa rivelarsi via sdrucciolevole, non perché il fatto non esista, ma perché intimamente legato a interpretazioni, teorie, idee: «I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni» (Nietzsche); «I fatti sono carichi di teoria» (Popper); «Così come un popolo sceglie i propri governanti, la teoria conferisce autorità all’osservazione, affinché governi la giustificazione delle teorie» (P. Kosso).
Significato e prassi dell'obbedienza alla e nella "Compagnia sacramentale" di CL sono espressi da Giussani su binari doppi, tripli, plurimi: all’interno del gruppo l'obbedienza è regolarmente intesa totale, assoluta, pragmatica, diretta e precisissima: autorità cielline anfibi terro-celesti con una zampa nella finitudine e l’altra nell’eterno, uomini che per processo “analogico” (analogia entis) rappresentano Iddio stesso per i subalterni: «Mai possiamo aderire di più alla misericordia di Dio che nell’ubbedire alle persone, alle pietre dove Dio ci ha collocati» (p. 446). Struttura gerarchica dove l'appartenente alla comunità obbedisce ad univoco superiore, sacra autorità concatenata al sottoposto per diretta prossimità, capo che all'interno del gruppo a sua volta obbedisce, senza deviazioni, ad un suo superiore. Nel rapporto di CL nei confronti del Magistero il coincidere dell'autorità Istituzione-Cristo tende invece a stemperarsi e a chi indicava l’autentificazione della autorità ecclesiastica come segno e garanzia di verità per CL, Giussani replicava: «Non sono d’accordo […] perché uno in coscienza deve essere perfettamente certo, anche se la Chiesa non si è ancora pronunciata. Perché quando la Chiesa si pronuncia su una cosa… obbedisco. E lì cessa il mio carisma.» (p. 445) Emerge, dunque, una analogia con Cristo autoreferenziale, una sorta di Prelatura personale de facto che - due pesi due misure - esige obbedienza nel condurre, ma reclama autonomia se guidato; proclamazione d'indipendenza dal mondo, dallo Stato e dall'incardinamento alle autorità della Chiesa cattolica romana (quest'ultima argomentata e legittimata, con un doppio salto mortale, dalla assoluta obbedienza al Magistero) ma esigendo, nel contempo, completa costrizione e totale sottomissione all'interno del gruppo. Ritornando alla concezione giussaniana di dipendenza all'interno di CL - “dipendenza” è lemma squisitamente giussaniano -, va precisato che al dipendente è chiesto di fare proprie le ragioni dell’autorità, individuando e accogliendo l'informazione di fondo che esprime il "Superiore" per farla diventare intimamente propria sentendone il valore, in quanto l’autorità è ritenuta Cristo presente, individuo di per sé effimero eppure veicolante l'Assoluto, va da sé che anche il superiore che vale zero acquisterà un po’ di valore nell’azzerare il sottoposto. Per il subalterno urge, dunque, che indifferente al grado di sensibilità, onestà e verità del Superiore, lo interiorizzi per presupposta sacramentalità da lui espressa e significata. Arbitraria e assoluta obbedienza - che manco il Concilio Vaticano Primo (1870) riconosceva al papa - a Giussani dai suoi diretti subalterni, che a loro volta chiedono ai propri sottoposti, che replicano ai loro, i quali reiterano. Gerarchica piramidale (clericalismo) giustificata dalla teoria di Dio nel mondo attraverso Cristo, quindi di Dio nella storia attraverso Cristo nella Chiesa, pertanto di Dio presente nel pezzo di Chiesa di Comunione e Liberazione e, dunque, albergante nei suoi responsabili. Giussani estende alla volontà delle autorità cielline la dottrina cattolica dei sacramenti, ritenuti efficaci indipendentemente dalla moralità di chi li somministra, ex opere operato in persona Christi, per il fatto stesso di aver fatto la cosa come se fosse Cristo. Presupposta presenza divina che si manifesterebbe nelle autorità del gruppo - tutte sistematicamente operanti ex cathedra 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 - per nulla motivata, né logicamente, né teologicamente, grottesco connubio di deus ex machina e meme: il dio che magicamente appare nella macchina ciellina auto-propagantesi al suo interno. Va specificato che, a differenza del Concilio Vaticano Primo, Giussani poneva l’accento sull’alterità dell’autorità piuttosto che sull’infallibilità, alterità che proteggerebbe dai rischi derivanti dalla personale propensione alla spiritualità per i possibili equivoci di attrazione fatale per i territori del sacro attivate da soggettive dinamiche endogene, da formazione reattiva generante pietismi ossessivi, da forze archetipiche, da inconsce fantasie individuali, da puerili innamoramenti prodotti da voragini psichiche o da narcisistiche auto contemplazioni proiettate sulla - e, dunque, riflesse dalla - figura del Cristo, della Madonna o di qualche santo. Equivoci prodotti da misticheggianti affascinamenti che l’obbedienza all’avvenimento altro della Chiesa cattolica - la religione più materialista al mondo - smantellerebbe alla radice, in quanto obbedienza a realtà storica tutta poggiata sulla “verità” della Rivelazione e sulla oggettività della tradizione: certi della presenza del Dio vivo nei responsabili di Comunione e Liberazione l’obbedienza alle loro indicazioni salverebbe il subalterno sottoposto dall’egoica mortale individualità emancipandolo dal nulla che lo costituisce, salvezza indipendente dalla veridicità e ragionevolezza delle indicazioni del capo, anzi più aumenta lo scostamento tra l’indicazione dell’autorità e l’opinione del sottoposto e più l’indicazione risulterebbe, in tale ottica, redentiva: in CL ben oltre il formale militaresco yes-sir-così-sia, replicato a oltranza finalizzato all’efficiente coeso funzionamento del gruppo - groupthink (William H. Whyte, Irving Janis) - si obbedisce, dunque, per essere e diventare sé stessi in quanto la personale identità sarebbe costituita dalla divina alterità espressa dal superiore: «Quello di peccato, nel convenzionale senso teologico e secolare del termine, è un concetto che si colloca nel contesto della struttura autoritaria […], secondo questa concezione il nostro nucleo umano non risiede in noi stessi, bensì nell'autorità alla quale ci sottomettiamo (Erich Fromm, Avere o essere?)». «Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo. E' dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. E' giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità. Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi, non farebbe che un salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo allenato a camminare in libertà. Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro.» (Kant, Beantwortung der Frage: Was is Aufklaerung? in "Berlinische Monatsschrift"). Per fortuna, forse per grazia, tale concezione della permanenza di Cristo nel rapporto con l’autorità ha sì prodotto sparsi ed episodici scompensi psichici ma rare devastazioni complete, grazie a quei ciellini che, O felix culpa, l’hanno ottemperata in modo intermittente e grado relativo invece che continuo e assoluto come Giussani voleva. Al riguardo ricordava Santa Teresa del Bambin Gesù che, a suo dire, grazie all'obbedienza a una perfida badessa realizzava una totale emancipazione salvifica da se stessa, redenzione direttamente proporzionale alla perfidia del capo: più è altro (differente) e più funziona nel raddrizzare il legno storto. Un processo di infantilizzazione e sottomissione - "pedagogia nera" (Rutschky, Schatzman, Miller) - evidentemente devastante e patogeno sia per il sottoposto, sia per il superiore, che Giussani lenisce nel merito ricordando quanto la compagnia di CL si sia rivelata per lui stesso autorità grazie a interventi di ragazzini, di persone semplici, che l’avevano «percosso» (espressione singolare che indica una speculare contiguità simmetrica nel metodo) riattivandogli energie e ragioni per riprendere con rinnovato vigore il percorso. Estemporaneo annota: «Io sono autorità nella misura in cui valorizzo questo e non cerco di piegare e di rattrappire questa vita per un mio dominio clericale. Noi non siamo un’istituzione ecclesiastica, noi siamo un movimento di vita, è come un fenomeno artistico, è una genialità di vita». (p. 485) La visione sacramentale della compagnia in sé viene ulteriormente attenuata, con motivazioni differenti, nel Capitolo 29: «Ma non vi accorgete […] che umanamente parlando è proprio orribile identificare la compagnia come l’ambito che meccanicamente ti assicura il gusto di vivere?» (p. 900)
La biografia accenna al protagonismo disinvolto e autoreferenziale di alcuni esponenti di Comunione e Liberazione che vede don Giussani richiamarli, schernirli, prendere distanza siderale da quel tipo di compagnia: «Della vostra compagnia io me ne infischio» (p. 899). Testimonianza che separa nettamente la concezione etica del fondatore e guida del Movimento, da quella di qualche ciellino un po’ narcisista e anche un po’ mariuolo perché scheggia impazzita. Nell’affermare l’onestà del fondatore e della stragrande maggioranza degli appartenenti a CL, riteniamo che la biografia ometta di individuare e affrontare storicamente dalla fonte alla foce - senza, dunque, moralismo, bensì con approccio eziologico - le origini e le ragioni dei numerosi e recidivi accadimenti di illegalità, nell’universo cattolico squisitamente ciellini, a nostro avviso già presenti in nuce seppure in buonafede nella imperiosa e tragica esaltazione (hýbris) religiosa di Giussani, che hanno progenerato e poi caratterizzato - prevedibile "eterogenesi dei fini" e sorta di nemesi - parte della cronaca giudiziaria lombarda, e non solo, nell’ultimo decennio.
Al riguardo il giudice della settima sezione penale del tribunale di Milano, riferendosi a una condanna in primo grado inflitta a un memor domini - per dichiarazioni mendaci al P.M. sulla titolarità di conti correnti esteri - aveva ben focalizzato la problematica, scrivendo:
«Desolante l’atteggiamento menzognero adottato nei confronti della pubblica autorità da persone appartenenti ad ambiti sociali portatori di elevati ideali […] permanente nebulosità circa i reali motivi che ne hanno determinato la condotta».
A compensazione della biografia - invito all’integrazione esplicitamente richiesto dall’Autore a tutti coloro che hanno conosciuto don Giussani - tentiamo di rispondere al puntuale e ragionevole interrogativo del giudice di Milano, basandoci su quanto abbiamo personalmente visto e udito.
Scorgiamo due motivi di correlazione, sinistramente sinergici, tra l’onesta baldanza religiosa di Giussani e la tracotanza narcisistica di qualche suo seguace:
Emulazione stilistica del leader.
Giussani allargava smisurato, urgente, irresistibile, pirotecnico, impellente e a oltranza, il personale giudizio di valore a asserzione di realtà universale costipando, come uno schiacciasassi, ciò che incontrava in tale prospettiva. Alcuni a lui prossimi, non curanti dei contenuti veicolati in tanta foga, ne hanno appreso il metodo imitando il piglio fiero, ma sostituendo con fini propri il merito. Fatto ("Avvenimento") e patto (unitario) etimologicamente poggiano su atto (āctus), nella fattispecie atteggiamento che non determina né garantisce, di per sé, il sano ordinamento personale, così religionari e gangster, in missione per conto di un qualche dio, pur dissimili nei fini possono anche somigliarsi nello stile e determinazione per raggiungerli.
Deriva assiologica tribale.
La comunione tra gli appartenenti a Comunione e Liberazione era definita da Giussani con l’affermazione: «Io sono Tu che mi fai», con quel “Tu” intendeva Dio e nel contempo, riferendosi al mistero dell’incarnazione cristiana, ogni aderente al gruppo. In questa concezione il nome di ogni ciellino è ritenuto sacramentalmente unificato all’origine con quelli degli aderenti al gruppo; annegamento soteriologico dell'Io nel corpo comunitario. Comunità giudicata da Giussani incontro-avvenimento-presenza salvifica segno sacramentale di Dio stesso, “ontologicamente” - qui da intendersi non come criterio di pensiero che inventaria gli enti (che cosa c'è) ma, con accezione metafisica (che cos'è, come è, perché è), che li fa essere ex nihilo (Giussani tende a identificare l'ontologia con la metafisica) - costitutiva l’“Io” di ogni singolo componente. Il singolo uomo è in sé insignificante, è nulla. Per "essere"[3], deve diventare cellula appartenente e obbediente alla corporazione, come le api e le formiche sono nulla senza il loro gruppo organizzato, consorziato, congregato, endogamo. Anzi di più: attraverso un processo d’ipostatizzazione del gruppo a verità assoluta e universale per l’appartenente la dipendenza diventa incondizionata ed esistenzialmente totalizzante, “ontologica” come i buchi nel formaggio che fuori da lì non esistono più. Nella concezione assiologica giussaniana la morale non poggia, dunque, sul comportamento umano in rapporto all'idea condivisa che si ha del bene e del male relata all'imputabilità del soggetto - concezione bollata da Giussani moralistica -, ma su una singolare teoria etico-assiologica di appartenenza al gruppo sacramentale: più fai parte più sei nel giusto, più fai parte e più vali, più appartieni e più sei redento, prescindendo dal personale agire. Giussani affermando - nel solco di Matthew Fox - che non sono le cose in sé da abbandonare ma gli atteggiamenti di possesso per le cose, implementa un dualismo tra morale e prassi in un mix gnostico e paolino dove, giudicando il gruppo di riferimento il valore assoluto e i beni materiali un nonnulla, invita ad un atteggiamento di possesso “come se” non avessimo, di godimento come se non godessimo, di utilizzo come se non usassimo, pur anche di fatto possedendo, godendo e usando. Blues Brothers che «in missione per conto di Dio» passano col rosso per salvare il mondo, giudizio di valore dove ogni nome è fuso e confuso nell'incorporazione al gruppo; un “Noi” Alpha-Omega super-Ente dove «l’individuo ha rapporto con Dio solo attraverso il suo popolo, la sua tribù, la sua casta, attraverso appunto la sua appartenenza ad un collettività. Da un punto di vista psicologico si tratta qui di uno stadio iniziale dell’evoluzione umana o religiosa, cioè di una religiosità del noi, di impronta primitiva, in cui il singolo non esiste ancora affatto come individuo autonomo. Questo stadio evolutivo viene definito da C.G. Jung, con l’impiego di un termine dello studioso delle religioni Lévy-Bruhl, come quello della "participation mystique". Ciò significa che si tratta di una partecipazione pre-personale e pre-individuale di ciascuno al tutto.» (Hanna Wolff , «Vino nuovo - Otri vecchi» Il problema d'identità del cristianesimo alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, pag.146.) Singolare consorteria metafisica salvifica, corpo mistico coincidente la presenza di Dio nella storia e strutturante-giustificante alla radice ogni partecipante al gruppo. Una sovrastima del gruppo, della sua moralità e del suo potere, che produce illusione di invulnerabilità ed esaltato ottimismo favorendo l’azzardo morale nell'assunzione di rischi, al riguardo Giovanni Fornero ricorda nell’analisi di Weber la precisa contrapposizione dell’etica della responsabilità (Verantwortungsethik) rispetto all’etica della convinzione (Gesinungsethik), dove: «l’etica della convinzione corrisponde all’ “agire rispetto al valore” ed è tipica di chi si vota in modo intransigente ad un determinato ideale (elevato a meta assoluta, cui tutto deve essere sacrificato), senza preoccuparsi né dei mezzi, né delle conseguenze connesse al proprio agire. L’etica della responsabilità corrisponde [viceversa] all’ “agire razionale rispetto allo scopo” ed è tipica di chi si preoccupa sia dei mezzi atti ad ottenere determinati scopi, sia degli effetti connessi al proprio operare.» (Nicola Abbagnano Dizionario di filosofia, UTET, terza edizione, p. 930). All'interno di questa presupposta assoluta evidenza del Dio nascosto, misterioso e incommensurabile, che si manifesterebbe al mondo nella corporazione ciellina, in questo entusiamo collettivo (enthusiasmòs: "indiamento") di suggestione e acrisia a tale presupposto sacro fondamento unitario che redimerebbe, di questo sciovinistico imperativo collegiale, di questo familismo su base religiosa, di questo provinciale noi totalitario-salvifico, l’operato dei membri evidentemente obbedisce - indifferente alle generali e universali misure e norme dell'umano diritto costituite, istituite, e socialmente condivise - a regole proprie. L’impianto teoretico di don Giussani dettante la prassi politica dei cattolici nella società era, in sintesi, il seguente: «La posizione nell’impegno culturale è quella di un popolo [cattolicesimo, nella fattispecie Comunione e Liberazione] che approfondisce la coscienza di portare in se stesso il principio risolutivo della crisi per tutti; noi portiamo la salvezza.» (Giussani “Dall’utopia alla presenza”, “L’Equipe”), da qui l'impeto missionario di CL nel mondo. Dopo decenni d’impegno, abnegazione, lotte, finalmente il programma salvifico planetario teorizzato da Giussani veniva realizzato dal gruppo dei prescelti - attraverso il PDL col sostegno della Lega Nord, entrambi paladini dei valori cattolici non negoziabili - e la salvezza universale irrompeva in Lombardia, solo là, però in tutta la sua gloria, così: arresto del consigliere Gianluca Rinaldin per truffa, Nicole Minetti indagata per induzione alla prostituzione minorile e Daniele Bellotti per tifo violento, Monica Rizzi per dossieraggio, arresto di Franco Nicoli Cristiani per corruzione e tangenti, Massimo Ponzoni per corruzione, concussione e bancarotta, indagati Angelo Giammario per corruzione e finanziamento illecito dei partiti, Renzo Bossi per appropriazione indebita, Davide Boni per corruzione, arrestato Domenico Zambetti per voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa per aver acquistato voti dalla 'ndrangheta, indagati per peculato e truffa Franco Nicoli Cristiani, Massimo Buscemi, Davide Boni, per corruzione Marcello Raimondi. Presidente Formigoni rinviato più volte a giudizio, nel processo di primo grado attualmente in corso per la vicenda Maugeri - procedimento che vede coimputati altri esponenti storici di CL - richiesta dai P.M. una condanna a nove anni di detenzione perché "capo di un gruppo criminale" responsabile per 10 anni, sempre secondo l’accusa, di un sistema di corruzione con sperpero di decine di milioni di denaro pubblico, oltre a benefit di circa otto milioni di euro. Tutti assolutamente innocenti fino all’ultima sentenza definitiva. Nel frattempo, nell’attendere l’iter della Giustizia, consapevoli che «ogni volta che ci si presenta la scelta tra far salva la teoria e far salvo il fenomeno, la storia del pensiero insegna che è più proficuo parteggiare per il fenomeno» (James Hillmann), un minimo d’indagine sul divario tra l’universale salvezza teorizzata da Giussani e il provinciale sfacelo di fatto realizzato è da farsi; Chiesa italiana in primis - non dimentichiamo che, seppur con radicali prese di distanza dal formigonismo di numerosi cattolici, l'impegno politico di CL era in quel periodo sostenuto da gran parte del Magistero, Giovanni Paolo II incluso. Come sopraesposto l’indagine è più semplice di quel che sembra perché il divario non c’è proprio: il proclamare al mondo «noi portiamo la salvezza» è già, e di per sé, promozione e costituzione di associazione a delinquere, o perlomeno puntuale apologia. In tale iperbolica etica dell'appartenenza e conseguente impeto politico-missionario scorgiamo una palese ambiguità all'interno del gruppo: quando l'intervento dell'esponente ciellino nella società appare valoroso, viene interpretato come diretta espressione dell'agire di Dio nella storia attraverso il gruppo dei prescelti, viceversa se l'azione risulta misera, delinquenziale o oscena, è vista come mera espressione autorale-individuale della quale risponde la specifica persona. In tal modo l'entità CL, mai imputabile al pari di Dio, della Vergine Maria, degli angeli e degli incapaci d'intendere e volere, permane illibata.
Sappiamo che la cultura occidentale è caratterizzata, e in gran parte strutturata, da una miscela di sacro e profano, una mescola di paganesimo, illuminismo, tecnica, tradizione giudaico-cristiana, ecc. ecc. . Utile al riguardo, e per certi versi inaspettata, l’analisi del cardinale e teologo francese Yves Marie-Joseph Congar (1904 –1995), espressa nel terzo capitolo del saggio teologico ecclesiologico «Per una teologia del laicato» scritto nel 1956. Congar, fedele al credo cattolico, analizza il piano di Dio dettato nella rivelazione, dal «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» all’ultimo capitolo dell’Apocalisse, dove Dio «assumendo lui stesso la carne della nostra umanità» vuole costruire il suo tempio di comunione attraverso Gesù Cristo «capo della Chiesa, ma anche di tutta la creazione»; Regno di Dio universale nel quale Congar dettaglia differenti e complessi aspetti, tra questi quello escatologico dell’ultimo giorno e quello «dinamico o progressivo» del tempo della Chiesa, tempo intermedio del già, dove «Gesù stesso è, in un certo senso, il Regno di Dio» e il non ancora della Parusia, dove Cristo alla fine del piano salvifico ritornerà sulla terra. Dunque due tappe e in mezzo un tempo intermedio. A che scopo tale tempo? Iddio onnipotente senza indugiare avrebbe potuto terminare il suo piano con l’Ascensione concludendo con la Pentecoste. Congar vede in tale indugio uno scopo preciso: Dio o il Cristo o la Chiesa non sono i soli artefici di tale piano, per giungere a meta è necessario il libero agire degli uomini nella storia perché senza tale cooperazione il Regno di Dio rimarrebbe incompiuto. In tale interpretazione «La regalità di Cristo resta, di diritto, universale» mentre la Chiesa sarebbe un regno spirituale della fede distinto dal «mondo naturale degli uomini e della storia», entrambi differenti coprotagonisti della realizzazione del Regno, «Rendete a Cesare quel che è di Cesare…». Nel piano unitario di Dio la Chiesa e il mondo sono entrambi finalisticamente ordinati al Regno di Dio, «ma per vie e titoli differenti», così «la regalità universale di Cristo non corrisponde a quella di una regalità ugualmente universale della Chiesa». Ne consegue per il cristiano che il profano sviluppo umano storico non è un processo antagonista e nemico - il giussaniano giudicare il mondo "illusione e sterco" con paradigma medievale che entra a gamba tesa nel post moderno -, o nella più misericordiosa interpretazione mero accadimento subalterno da tollerare, ma in quanto forza indispensabile all’accadimento del Regno evento da valorizzare e col quale allearsi. Sacro non contrapposto al profano, quindi non «Resistenza del Mondo ma Resistenza nel Mondo». Tralasciando il possibile effluvio di concezioni hegeliane, riguardo un supremo Principio regolatore della storia avvertibile in Congar, quello che qui ci sembra puntuale è l’intelligente sintesi, dal punto di vista cattolico, della complessa realtà in una concezione aperta che agli antipodi del dualismo gnostico ricapitola universalmente il soggetto in sé medesimo, l'Altro e il mondo.
Con esposizione meccanica la biografia di Savorana dettaglia tutto il preoccupato impegno di Giussani - assillo espresso in centinaia di pagine, letteralmente e fino alla noia - atto a riscontrare la corrispondenza tra l’io nelle sue insite necessità primarie e la realtà che Giussani impersona con l’accadimento cristiano esplicitato da CL, richiamando gli appartenenti a Cristo nella esperienza dell’origine del Movimento, dove la realtà è giudicata - CL in primis - presenza e segno di “Altro”; elativa compagnia umana prescelta da Dio che pur nella storia la trascende e giudica non per pensiero, valore, competenza, merito e iniziativa degli appartenenti, ma per ontologica ineffabile vigoria infusa dall'"Alto"; una imputazione di giustizia infusa dai meriti di Cristo e dalla sua grazia, ibridamente prossima alla visione protestante - Sola Fide e Sola gratia dove Solus Christus e Soli Deo Gloria coincidono con taglio cattolico all'istituzione CL -, sulla quale si fonda, indipendentemente dal proprio operato, la totale giustificazione personale. Nel contempo Giussani rimedia rischi di omissione idealistica del soggetto e di deresponsabilizzazione, impliciti in tale fissa prospettiva di "ratto salvifico" per mera appartenenza alla compagnia sacramentale nell'"eterno ritorno dell'uguale", invitando a un creativo, libero e originale, impegno personale nel sociale, da lui valutato indizio di fede matura che dal singolo pervade l'ambiente. In questa “immanenza escatologica”, in questo “magismo” che espande oltremisura il soggetto esautorandolo; Promoveatur ut amoveatur, in questa concezione che interpreta la persona segno di un soprannaturale "Altro" tramite sé stessa e sé stessa mediante un trascendente "Altro", Giussani nel rilevare all'interno di CL penuria di iniziativa personale nel sociale vede immaturità e intimismo e nel constatarne l’abbondanza scorge riduzioni pietistiche e derive associazionistiche o personalistiche. Il resoconto biografico nell'ostentare l'esuberanza di Giussani nell'interminabile esagitato richiamarsi e richiamare il Movimento all'ideale, certifica quanto lui stesso e la "compagnia divinizzata" annaspino nel tentativo di ricapitolare a sé la realtà, l'immediatezza della vita, gli accadimenti, la complessità delle cose, le soggettive sensibilità. Emerge una qualifica (deificazione) della persona (il ciellino prescelto) che la squalifica (reificazione), una divisione, una ambiguità, un doppio legame, un coitus interruptus tra l’opera di Dio e quella dell’ “Io” che non trova pacificazione e come Sisifo non raggiunge meta. Un conflitto tra realtà e ideale originato dal supporre che ci sia sempre un misterioso, e misterico, Quid infinitamente più "grande", ontologicamente sempre più in qua, o escatologicamente sempre più in là, del soggetto che nell'immediato pensa e fa. Il perseguire tale asintonica, arzigogolata, fessa, inattuabile, identità - costituita da una presupposta sacra Alterità espressa dalla personale soggettività e viceversa - ingenera un limbo surriscaldato, un "come la fai la sbagli" speculare alla giustificazione infusa da Dio per l'appartenente alla comunità dei prescelti, un film malfermo con l’audio fuori sincrono che dice con precisione quanto l’ideale annunciato non sia realtà costitutiva ma narrazione mitica sovrapposta forzosamente alla vita che nel tortuoso, replicato, ossesso, tentativo di inglobarla produce labirinti di insoddisfazione in una esistenza sempre più scissa da se stessa. Tutto sommato una esperienza più necessita di essere sistematicamente illustrata, dimostrata, spiegata, rispiegata, ri-supportata, ri-giustificata, riprodotta, ripetuta, ricelebrata, richiamata e - fedele alla linea - espansa, meno è credibile, in quanto il fondato sta in piedi e si afferma da sé, mentre l’infondato necessita di essere tenuto artificiosamente e forsennatamente su. Labirinto non strettamente giussaniano ma ecclesiologico, quando la dottrina trinitaria si codifica autoritativamente e normativamente nei secoli IV-V con i concili di Nicea e di Calcedonia, il primo in reazione alla dottrina di Ario che interpretava Gesù, in quanto figlio generato dal Padre, non esistente da sempre bensì avente un inizio, entità seppur divina subordinata - subordinazionismo dicono i teologi - al Padre, quindi ciò che si era incarnato in Gesù non era totalmente Iddio non originato ma una sorta di sottoprodotto. Nicea risolve la problematica proclamando che il Figlio è fatto della stessa sostanza di cui è fatto il Padre. In seguito la dottrina di Calcedonia, stimolata da Cirillo di Alessandria e Nestorio, definisce un punto cruciale rimasto in sospeso: quanto esterna e quanto interna al Padre l’entità cristica? Come divina e come umana l’ipostasi di Gesù Cristo? E specialmente quanto divina e quanto umana? Cirillo propendeva per quella divina detto monofisismo, mentre Nestorio concentrò l’attenzione sulla figura storica di Gesù, però se Iddio s’incarna - immanenza alla materia - difficile preservarne la trascendenza (soprannaturale) e dunque l’efficacia salvifica (soteriologica). Le dispute sull’identità metafisica di Gesù fu complessa e prolungata con condanne e riconciliazioni, risolvendosi con un compromesso riguardo l’interazione tra Gesù e Dio così formulato: Gesù Cristo una ipostasi divina con due nature una umana e una divina. Vero Dio e vero uomo, nell'unità della sua Persona divina, ora Iddio puoi anche dipingerlo per venerarne l’immagine, ma occhio a ben comprendere la differenza tra ipostasi e natura, equivocarle unificandole è eresia (modalismo).
Sintomatico di tale titanismo, di questo enfiare l'individuo fino a farlo scoppiare dissolvendolo, di questa coatta esaltazione pantocratrice del soggetto che lo esautora da sé medesimo svilendo le personali potenzialità, l'inabilità di CL al partorire, sull'universale pubblica piazza - nonostante l’espressione di migliaia di appartenenti in mezzo secolo di esistenza e l'imperversare, all'interno del gruppo, di autorità di ogni ordine e grado - eminenti personalità d'ingegno e talento per ingrigliamento autoritativo inibente l'autorale pensiero. Di Giovanni Testori e William Congdon, vicini - seppur in modo differente - al Movimento e ampiamente citati nella biografia, evidenziamo, prendendo distanza dagli intenti strumentali di concelebrazione giussaniana dell'Autore, l'intrinseco genio personale: straordinari, poggiando sulle proprie gambe, lo erano prima, e da prima, prescindendo da ogni dipendenza e appartenenza. Con motivazione distinta - nel caso precedente per fagocitazione e sfoggio nella architettura biografica di personalità significative, qui per omissione di rappresentanza - ricordiamo Giacomo B. Contri, psicoanalista e ancor prima filosofo, peraltro valoroso biografo di Giussani[4], che Savorana, censurandone il pensiero, relega a inespressiva comparsa.
Nel saggio biografico viene dettagliata l’evidente preferenza e prossimità, libera, truistica e legittima, del protagonista nei confronti di Comunione e Liberazione, ma inopinata compare una affermazione di Giussani stesso vagamente quietistica, proferita nell’ultima parte del suo percorso: «Non solo non ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta» (p. 1138), che risulta storicamente falsa e un po' umoristica: forse un piccolissimo mirato contributo personale a CL lo ha dato anche lui. Contraddizione veniale smentita dalle 1137 pagine precedenti della biografia stessa, che dettagliano tutto il fibrillare di Giussani nell’implementare e imporre metodologie atte a generare, conservare, espandere e difendere il “suo” Movimento e peculiare carisma, con tanto di conflittualità, specialmente nella seconda metà del primo periodo, all’interno delle Chiesa stessa.
Nei resoconti di rapporti epistolari e con i prossimi emerge quanto Giussani era tollerante e amichevole, sempre stimando e valorizzando chi incontrava personalmente. Concezione che muta nei suoi libri e discorsi pubblici, dove l’individuo è invece tendenzialmente interpretato con implicita disistima e diffidenza, visto sotto la sistematica minaccia di culture dominanti o infognato in concezioni massificanti che dal di fuori e dal proprio intimo gli incombono addosso. Un porsi-opporsi che interpreta “Mondo” e Dio blocchi contrapposti - «illusione e sterco» VS «Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore» - superpotenze antagoniste in perenne guerra fredda o rovente senza prospettiva di distensione e disarmo, senza possibilità di sinergia e di proficua contaminazione sociale-storica (filosofia greca, diritto romano, princìpi dell’illuminismo con la tradizione cristiana), “Enti” nemici fagocitanti l’individuo a prescindere dalla soggettiva personalità; interpretazione che preclude al soggetto la realizzazione suscitata e operata dal personale pensiero sovrano.
La biografia nell’affermare il pensiero sorgivo (Scola) del protagonista illustra, nel contempo, gli autori che Giussani ha frequentato e citato, da Giacomo Leopardi a Romano Guardini, da Jacques Maritain a Pier Paolo Pasolini fino a Søren Kierkegaard. Visioni e prospettive esistenziali, concettuali ed artistiche di autori che se approfondite nel loro complesso oltre ad una fuggevole contiguità col pensiero e il metodo di Giussani non di rado si rivelano affatto distanti. Osserviamo un prepotente, rapsodico, attingere, qua e là, materiale atto ad avvalorare inflessibili teorie predefinite, invece di un confronto completo, approfondito e dialogico con l’Altro. Evidente la contiguità tra il pensiero di Giussani e quello Kierkegaard, approfondito da Karl Barth, nel vedere l’umana primigenia angoscia di piombare nel baratro del nulla risolta dall’inserzione dell'eternità nel tempo operata da Cristo, con la differenza che per Kierkegaard tale dinamica si attua in un quadro esistenzialistico personale, mentre per Giussani secolare corporativo. Per non cadere in puntualizzazioni pleonastiche glissiamo sul notorio scostamento tra Pasolini e Giussani, preferendo accennare al guardiniano concepire la totalità del reale, tanto preso e ripreso da Giussani intendendolo, sciaguratamente, come una granitica e fissa interpretazione della realtà caratterizzante il gruppo dei prescelti, invece che universale dinamica sempre nuova nel moto costante; fluttuante opposizione polare che Guardini con esemplare finezza e rigore di pensiero aveva colto come fondamento ontologico e antropologico del concreto-vivente. Un “pericopizzare” - tagliare tutt’intorno - poco accurato e piuttosto strumentale, al pari degli operai edili che nell’eseguire movimenti terra trovando valorosi reperti li triturano e amalgamano col rullo compressore per realizzare, secondo progetto, la massicciata del nuovo edificio. Andamento che con Leopardi raggiunge livelli imbarazzanti: la rivista culturale “Cenobio” (LII [2003], 4), nell’articolo “Il Leopardi cristianissimo di don Luigi Giussani” pone l’attenzione sull’ultima strofa della poesia “Alla sua donna” dove Giussani si attarda in « una parafrasi esplicativa del senso letterale, seguita da un momento ermeneutico in cui si afferma il valore di annuncio cristiano di tali versi; valore, testimonia don Giussani, da lui scoperto con intensa emozione quando, quindicenne, frequentava la prima liceo presso il seminario.»
Se dell’eterne idee
l’una sei tu, cui di sensibil forma
sdegni l’eterno senno esser vestita,
e fra caduche spoglie
provar gli affanni di funerea vita;
o s’altra terra ne’ superni giri
fra’ mondi innumerabili t’accoglie,
e più vaga del Sol prossima stella
t’irraggia, e più benigno etere spiri;
di qua dove son gli anni infausti e brevi,
questo d’ignoto amante inno ricevi.
Giussani commenta: «Questa è stata la strofa che mi ha travolto – lo posso dire – la vita. Perché dice: se tu, bellezza, che, quand’ero ragazzo, credevo di trovare per le strade – ma non c’è in terra cosa che ti somigli! -; se tu bellezza sei un’idea di Platone che vive nell’iperuranio, in qualche mondo astrale, oppure vivi in qualche altro pianeta più felice della terra, perché “di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita”, perché sdegni di rivestirti di carne e “fra caduche spoglie / portar [sic] gli affanni di funerea vita”, in un corpo carnale portare i dolori e la morte? Se tu questo sdegni perché sei una delle realtà eterne, “di qua dove son gli anni infausti e brevi / questo d’ignoto amante inno ricevi”. Quando lessi questa strofa la prima volta – mi ricordo come se fosse oggi, la giornata di inizio dell’anno scolastico del mio seminario, in prima liceo a 15 anni, - dissi: ma come, che cos’è il messaggio, l’annuncio cristiano se non questo? È l’annuncio che la bellezza, con la “B” maiuscola, non solo non ha sdegnato di rivestire “l’eterno senno di sensibil forma”, non solo non ha sdegnato di “provar gli affanni di funerea vita”, ma è morto [sic] per l’uomo. »
Gli addetti ai lavori di “Cenobio” proseguono chirurgici:
«Vediamo ora uno per uno i marchiani errori [...], con l’avvertenza che sono tutti concentrati nelle dieci parole che costituiscono la proposizione relativa e l’infinitiva che ne dipende: “cui di sensibil forma / sdegni l’eterno senno esser vestita” (s’intende che poi tali errori si proiettano, per così dire, sull’infinitiva coordinata). Premettiamo per confronto l’interpretazione corretta, che è all’incirca la seguente: “[Se tu sei una delle idee eterne] che la sapienza divina non permette si rivesta di forma corporea” (Dio cioè non consente che l’idea di donna sognata dal poeta si incarni in una donna reale. Superfluo ricordare che l’eterno senno non designa affatto il Dio cristiano, ma qualcosa che sta tra un principio impersonale e il demiurgo platonico).
Nella parafrasi sono presenti quattro errori di tipo morfosintattico:
1) la relativa introdotta da cui diventa, senza alcuna ragione, addirittura un’interrogativa diretta (e pertanto una principale) introdotta da perché;
2) e 3) sdegni, che è terza persona del congiuntivo, diventa seconda persona dell’indicativo;
4) l’eterno senno, che è il soggetto della relativa già arbitrariamente trasformata in interrogativa, nella parafrasi scompare letteralmente senza lasciar traccia, sicché soggetto dell’interrogativa stessa diviene il tu della proposizione condizionale, riferentesi alla donna, ovvero alla sua “idea”.
Nel commento poi, che vorrebbe fornire l’interpretazione autentica della strofa:
5) vediamo che sdegni si trasforma addirittura in non ha sdegnato, ossia nel suo opposto (!);
6) ritroviamo l’eterno senno, che è però diventato complemento oggetto di rivestire, da soggetto che era di sdegni; mentre dal canto suo esser vestita (passivo, riferito all’idea platonica) diventa attivo (rivestire), pur avendo per soggetto quella medesima idea (col bizzarro risultato che, letteralmente, la bellezza riveste Dio);
7) infine scopriamo che tale idea è addirittura Cristo stesso in quanto “bellezza, con la ‘B’ maiuscola”. Il che, a parte la distorsione estetizzante (senza dubbio quanto meno discutibile sotto il profilo teologico), è anche filologicamente scorretto, poiché l’idea che agita i sogni del giovane poeta non è la bellezza, bensì la donna ideale; il che è, al tempo stesso, molto di meno e molto di più. »
Spietati concludono: «Circa la parafrasi: quel che è ora di moda snobbare come esercizio scolastico tale da ottundere quasi la mente, rendendola sorda ai valori poetici del testo, si conferma in realtà operazione preliminare indispensabile per ogni successivo intervento ermeneutico. È velleitario sciorinare pretesi tesori nascosti di un testo poetico di cui a livello letterale non si è capito nulla.»
Scivolata riteniamo procurata più da esaltazione fagocitante che da consapevole slealtà per la quale emergono conseguenze tragicomiche nel considerare tutte le volte che la bislacca interpretazione è transitata per decenni all’interno della bolla culturale ciellina e non solo, da bocca a bocca, da scritto a scritto, da meeting a meeting, da professore ciellino a studente, indenne dal minimo sospetto che Leopardi cantasse tutt’altro. Quando poggiandosi su Kierkegaard si afferma che l’essenza del cristianesimo consiste nell’inserzione salvifica dell'eternità nel tempo operata da Cristo, o stravaccandosi su Guardini quando rincarava che non è la comprensione di Dio l’estremo del cristianesimo ma quella di Incarnazione, si dice in apparenza molto ma di fatto niente se ci si ferma lì, dato che tale concezione sprovvista di fattispecie può produrre di tutto, da san Francesco a l’Inquisizione. Tutto, dunque, da rivedere affrontando con serietà i testi originali per ciò che dicono, da Maritain a Pasolini, da Teilhard de Chardin a Bulgakov, da Solov’ëv a Dostoevskji, da Claudel a Péguy a Kierkegaard ecc. ecc., Gesù di Nazareth incluso.
Le citazioni biografiche, gli aneddoti, le testimonianze, le annotazioni, rendicontano precise l’idiosincrasia per qualsiasi filosofeggiare e teologizzare da parte di Giussani, un poggiarsi «non su una sintesi di idee ma su una certezza di vita». La metafisica di Giussani vede la struttura della materia costituita da Cristo stesso, mistica oggettiva (Adrienne von Speyr, Hans Urs von Balthasar) dove l’ascesi personale consiste nel raggiungere e permanere in tale concezione interpretativa della realtà. Teoria che vede l’entità Dio-Cristo-Chiesa-CL costitutiva di tutti gli enti, una sorta di essenza onnipervadente che gli farebbe girare gli elettroni dentro, glorificando così la realtà (acosmismo). Pensiero che rigetta intellettualismi - ma anche lo studio approfondito delle discipline filosofiche e teologiche - per fondarsi sull’esperienza empirica dell’ “Avvenimento”, al riguardo negli ultimi anni del suo operato Giussani vira dall'incitare all'«Avvenimento-Presenza VS Mondo» verso l'aut aut di «Essere VS Nulla», enti, questi ultimi, a ben vedere, più alleati che nemici, in quanto specularmente apparentati come se generati da identica matrice: coppia gemella Nulla & Dio associazione metafisica a delinquere tipica dei fondamentalismi religiosi, "Teoria della mancanza" che esautora l'esistente implementando un Dio tutto poggiante su un presupposto e artificioso “Ente Nulla” di fatto inesistente e per nulla vuoto in quanto evidentemente ricolmo da Io-Altro-Natura, che per essere implementato necessita di aspirazione a oltranza dell'esistente, sottovuoto spinto poi imbottito da un onnipervadente dio -. Supposto esclusivo e smisurato evento e incontro tangibile che irromperebbe nella storia per rispondere e risolvere l’inconditionnel de la demande d’amour (J. Lacan) spaccandola in prima e dopo: Cristo presente nella Chiesa, più precisamente nella concretezza e attualità del pezzo di Chiesa espresso da Comunione e Liberazione. Che il lettore si approcci alla biografia considerando il Cristo mai esistito se non attraverso chi ha scritto di Lui, oppure lo identifichi col Gesù di Nazareth uomo, oppure Dio, o nel contempo entrambi, a ogni pagina sorgerà urgente una domanda, La domanda:
come e perché, attraverso quale inferenza, episteme, esperire, poggiandosi su cosa, Giussani assimila, come dato di fatto, il Cristo Verità assoluta, Giustizia compiuta, somma Bellezza, realizzazione e compimento storico dell'umanità tutta, con il pezzo di Chiesa denominato Comunione e Liberazione indipendentemente dal pensiero valoroso o micragnoso dei suoi appartenenti? Identificazione così certa da metafisicare:
«Se non c’è risposta a quel che sei, sei un disgraziato! […] Immaginate di andare in piazza Duomo a Milano alle sei di sera, d’estate, o in primavera, o d’autunno, d’autunno presto. Piazza Duomo è quasi piena, gente che va di qui, gente che va di là; ma osservate che c’è qualcosa che non va: sono tutti senza testa! Immaginate di essere lì: sono tutti senza testa, solo voi avete la testa! [sic] La vita è così, il mondo è così». (Conversazione di Giussani ad un gruppo di memores domini 1 ottobre 1995). «Quando ci si mette insieme, perché lo facciamo? Per strappare agli amici – e se fosse possibile a tutto il mondo – il nulla in cui ogni uomo si trova». (Incipit del messaggio di Giussani per il XXV Pellegrinaggio a Loreto). «Amici miei, che compito, che responsabilità! Perché gli altri nel mondo dipendono dalla nostra [sic] vita.» (Giussani ritiro di memores domini, p. 728). In tale ottica l’umanità intera troverebbe, dunque, completa realizzazione e redenzione solo nel lasciarsi afferrare e condurre da ciellini e memores, che obbediscono ai loro diretti superiori scelti da Dio stesso come responsabili della loro vocazione, poiché per Giussani l’obbedienza a Dio è data dall’obbedienza a colui che Egli ha posto come responsabile della loro vita. Ne consegue, per sillogismo categorico, che l’umanità intera troverebbe compimento e salvezza nell’obbedire alle autorità cielline. Riguardo il merito di tali asserzioni, di questo svilire all'estremo il mondo intero plateale manifestazione di risentimento (impotente) verso di esso, di questo valutarlo poco cristianamente non-prossimo, evitiamo il giudizio derivante dal preciso ricordo della nostra remota obbedienza, all'interno dei memores domini come a Cristo in terra, a un tale condannato in primo grado per dichiarazioni mendaci al P.M. e in differente procedimento rinviato a giudizio per corruzione - olocausto provinciale affatto scevro di nostra imputabilità seppur peccato di gioventù, implementato da Giussani con intento di universalizzarlo - preferendo affidare al raziocinio del lettore eventuali valutazioni di una possibile contiguità col ridicolo - "du sublime au ridicule il n'y a qu'un pas" - o colla delirante follia.
L'entusiasmo apologetico per la coincidenza assoluta Dio-Cristo-Chiesa-CL contrapposta al mondo appare, talvolta, vagamente mitigato da Giussani: «Il bene sta al fondo di ogni essere» (p. 905); e sistematicamente esercitato:
riferendosi ai duemila anni di tradizione cattolica, che senza soluzione di continuità legano Gesù di Nazareth alla Chiesa e a CL, Giussani vede la «fraternità sacramentale» di Comunione e Liberazione espressione storica di Dio perché inserita in tale storia. Prova evidentemente debole visto che la storia della Chiesa, evento non del tutto inedito ed esclusivo in quanto determinato dalla “ellenizzazione del monoteismo semitico” migrato nel Nuovo Testamento, è caratterizzata fin dall’origine da numerosi scismi, dove ogni parte - anche il cattolicesimo risulta mera parte in causa, al pari delle altre dottrine cristiane - rivendicava e rivendica ortodossia e primato. Istituzione peraltro planetaria dove al suo interno, nonostante univoci enunziati normativi, abbondano copiose pluralità di espressione della fede, delle quali Comunione e Liberazione rappresenta, tra le innumerevoli, circoscritta esigua espressione.
Altra dimostrazione probante la troviamo nella proposta evangelica, ripresa spesso da Giussani, del “vieni e vedi”. Noi siamo andati e abbiamo veduto soggetti valorosi, persone ordinarie e individui meschini, come dappertutto. Per interpretarli in blocco “straordinari” prescindendo dalla fattispecie di ognuno, causa di “stupore”, per rimanerne “affascinati”, per esaltarli singoli e aggruppati a “Mistero” e “Destino” di tutta la storia e dell’umanità intera - nomi e dinamiche care a Giussani -, avremmo dovuto cedere al malsano invito di addossare ai ciellini, un tempo amici di percorso, occulti funzionamenti di arcane entità, narrazione fantastica che poggiandosi sul nulla esiste solo nei pantani di pensiero di quelli che ci credono.
Qui concludiamo consapevoli della rudezza con la quale abbiamo onorato don Luigi Giussani, ma dopotutto risulta inattendibile un’amicizia indifferente al pensiero dell’amico meglio un avversario che lo contesti con cura.
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1 Le recensioni della stampa nazionale appaiono nell'insieme, noncuranti della complessità della tematica, parata di spot promozionali.
2 L’ho appreso da Giacomo B. Contri, Educazione VS Costituzione.
3 «Essere è essere agli ordini», Cfr. Jacques Lacan, Seminario Encore, p. 34.
4 Luigi Giussani e il profitto di Cristo, Giacomo B. Contri, Studium Cartello.
Alberto Savorana
Vita di don Giussani
Rizzoli editore
Computisteria esistenziale
Ho fatto il conto dei familiari, conoscenti, prossimi, amici, che sono morti e mi risulta che sono molti di più di quelli vivi. Ho anche provato - senza riuscire a terminare la conta - a passare in rassegna artisti e uomini di pensiero che mi piacciono: sono quasi tutti morti, qualcuno da tremila anni.
Mica c’è tanta differenza tra i vivi e i morti, mica c'è un confine tanto preciso che li separa e può anche accadere, e accade, che talvolta i vivi risultino semplicemente vegeti mentre i cosiddetti defunti sono lì, mai fermi, a implementare: elargiscono eredità, talora appartamenti in periferia, più spesso ricchezze che ci costituiscono.
Diversamente credente: Ateo, Agnostico...
Ho visto, e invito alla visione, del video relativo al confronto fra Roberto Mancini e Duccio Demetrio: «il divino è nelle cose finite: senza limite è la terra? Per spiare oltre i nostri confini» - Filofest 2013, incorporato alla fine del post.
Ho apprezzato di Demetrio l’accenno a tematiche cristiane già anticipate dalla filosofia greca, mi ha lasciato invece perplesso - forse a causa di una certa gravità espositiva - il suo invito a contattare e abbracciare la naturale terra, proposta un po’ asfittica e precettistica.
Mi è sembrato invece che Mancini - nonostante a tratti si rivolgesse alla platea come a un gruppo di boy scout – grazie al suo approccio personal-esistenziale abbia espresso nel metodo una posizione dinamica, aperta e proficua e nel merito più convincente nel sollecitare e invitare all’ “Altro”. Pur diffidando della parola amore, detta forse con troppa disinvoltura da Mancini, ho percepito convincente la sua proposta di partnership.
L’uomo che ricapitola la sua esistenza raccogliendo legni levigati a capocchia dall’apatico Tevere - del quale Demetrio ha letto uno stralcio autobiografico – tutto sommato appare isolato e desolato, incapace di fruttificare perché solo. Archetipo drammatico e potente dal quale intendo emanciparmi.
Ignoro se, e quanto, l’ “Altro” esposto da Mancini mi preceda, mi basta e avanza che accada con i miei simili. Se essere credenti, anche cattolici, è condividere quanto ha detto Mancini, lo sono anch’io, ma nella seguente forma: “diversamente miscredente” (l’eventuale contiguità con l’handicap non mi offende).
Limbo. Racconto
Quella domenica di fine gennaio mi ero svegliato strano, il mondo non aveva più significato e a me era passata la voglia d’inventargliene uno. Esausto volevo riandare nel sonno profondo, là dove non si parla, non si pensa e non si sogna eppure si esiste ancora. Un bel posto. All’inizio del pomeriggio ero ancora avvolto nella coperta di lana merino, mummia che voleva dormire. Dormire ancora. Dormire profondamente. Dormire per sempre. Troppa fatica riattivarsi. Troppo fastidioso scoprirsi. Troppo complicato allacciarsi ancora le scarpe. A che pro? Ma la vescica stava per scoppiarmi e nel correre al cesso la vita era continuata.
Svuotato avevo incontrato nello specchio un uomo quasi vecchio con la faccia da uovo sodo e gli occhi spalancati con pupille fisse all’insù, molto all’insù. Ventre gonfio, mani magre, baffi spessi rasati ai lati come Hitler e Chaplin e gli incisivi superiori un po’ gialli. Probabilmente ero io.
Uscito da casa percorrevo senza motivo il marciapiede a testa bassa. Osservavo come una cinepresa il porfido che scorreva sotto di me. Avevo dimenticato i nomi di quasi tutte le cose e quelli che ricordavo non mi servivano più. Forse ero diventato un gatto. Un forestiero mi aveva chiesto un’informazione così avevo rialzato la testa e nell’indicargli la piazza del mercato era tornato uomo. Lì mi era venuta voglia di fumare. Il vecchio tabacchino mi aveva dato due scatole di Toscani extra vecchi ed io nove euro e ottanta centesimi. Tutto a posto, tutto prevedibile, tutto funzionava ancora.
Forse erano stati gli sconosciuti incontrati la sera prima ad alterarmi, quelli che si erano seduti, proprio davanti, nel bar della piazza. Quei tre maschi con le mani da donna. Quelli che mangiavano pane e sorseggiavano del rosso in silenzio, poi improvvisa la parola. Nell’ascoltarli un torpore dalla pancia mi si era espanso in tutto il corpo, forse anche più in là. Avevano detto cose che non ricordavo più, ma che mi davano ancora una specie d’agorafobia letargica. Si erano alzati a sincrono, i bastardi, e attraverso la vetrina li avevo visti sparire ad est mangiati dal buio e il giorno dopo mi ero svegliato gatto con la voglia di diventare pietra.
Corroborato dalla nicotina nel tardo pomeriggio ero andato rapido al bar per indagare, la barista nel farmi un espresso mi aveva risposto di spalle:
«Si che me li ricordo, tre di passaggio che parlavano inglese… Per me erano gay». Tutto a posto, tutto prevedibile, tutto funzionava ancora. Mica tanto. Io li avevo sentiti parlare italiano.
Nell’uscire dal bar mi ero aperto un passaggio attraverso un capannello di anziani cacciatori. Iniziava a nevicare ed era quasi buio ma loro chissà perché rimanevano lì, la forza delle loro voci mi distraeva dallo sforzo di far emergere dalla memoria le facce dei tre bastardi. Li avevo salutati distratto, però ero rimasto incuriosito da una raffica di bestemmie che avevano intercalato ai discorsi di caccia, proprio mentre gli passavo vicino. Bestemmie di una qualità precisa. Qualcuno n’aveva sparata una doppia in rapida successione come faceva agli stornelli nel bosco:
«Peto di Maria Vergine antartica! Merda del Divin Pargolo!»
Un altro aveva latrato: «Mestruo immacolato di Santa Teresa!»
Nell’allontanarmi dal gruppo le litanie erano cessate di colpo come i temporali estivi. Che sia stato proprio io a galvanizzarle? D’istinto era tornato indietro per una verifica sul campo, percorsi due passi e mezzo avevo sentito un inequivocabile: «Minchia vagante di San Tommaso d’Aquino!»
Tornato a casa avevo cercato la Bibbia, da qualche parte doveva esserci ancora una copia e dentro doveva pur esserci scritto se ero diventato un diavolo che aizzava alla bestemmia, o un angelo che faceva incazzare i diavoli che albergavano nei cacciatori, o un mix di tutti e due, ma ero troppo stanco e il giorno dopo era lunedì, l’ufficio m’aspettava. Meglio lasciar perdere la Bibbia e riposarmi per poter continuare il mio lavoro d’impiegato in pratiche automobilistiche. Meglio onorare il regime dell’appuntamento, meglio continuare ad essere il ragionier Malagnino. Ivo Malagnino il single del paese. Forse nel compiere ancora per bene il mio lavoro, il mio dovere, tutto si sarebbe sistemato spontaneamente e l’energia di vivere mi sarebbe tornata nel rinnovare ancora patenti, nell’elargire ancora targhe ai motorini, nel leggere ancora il giornale e, la sera, nel masturbarmi ancora facendo memoria delle cosce di Ilaria, la collega specializzata nelle certificazioni degli impianti GPL.
Ero arrivato in ufficio puntuale dalla mia postazione, una scrivania dozzinale vagamente liberty, interpretavo a fatica il mondo, però funzionavo ancora. Nel riscrivere numeri che mi regalavano stabilità consideravo che non avrei bevuto più, perché cinque boccali di birra da mezzo litro avrebbero potuto far venire le mani da donna anche a Geppino, il meccanico convenzionato con l’agenzia che revisionava gli autoarticolati. Sei boccali poi, come quelli che avevo ingurgitato sabato sera, avrebbero potuto farlo svanire il Geppino… Svanire per sempre ad est, inghiottito dal buio come in un film di Sergio Leone.
A metà mattinata mi piaceva far finta d’essere tornato normale e poi, anche se stanco, un po’ normale lo ero per davvero. Anche se:
1 nostalgico del sudario in lana merino;
2 affascinato dall’inorganico;
3 incazzato con i tre fantasmi del bar;
dei punti fermi da condividere con i miei simili ne avevo ancora:
nel lanciare in aria una moneta da cinquanta centesimi ricadeva sempre a terra; 3 per 2 faceva sempre 6 e se mangiavo troppo cioccolato mi veniva sempre la diarrea proprio come accadeva al mio capo, il dottor Saracini, Mario Saracini, proprietario dell’agenzia.
Anche se in altre parti del cosmo la moneta non è assodato sarebbe tornata giù e 3 per 2 poteva anche fare un’altra cosa, probabilmente il cioccolato mi avrebbe procurato la cagarella anche su Sirio. Meglio, però, starmene tranquillo, mimetizzato coi normali, lì nella mia nicchia, quella del mio pianeta, quella del mio paese, quella della mia gente, quella delle scrivanie dozzinali in stile floreale, quella del bel culo della moglie del barista.
Un bisticciar di colleghe mi aveva interrotto il pensare, Ilaria aveva deragliato su un congiuntivo ed Elvira l’aveva fatta sentire indegna d’esistere. Ero lì lì per dire la mia perché Ilaria meritava solidarietà, invece l’altra sarebbe stato meglio non fosse mai nata. Non tanto per quel suo ostentato doppio mento e nemmeno per quei suoi preamboli infiniti nell’esprimersi, ma per la montatura degli occhiali che aveva sulla faccia. Retrò neri e lucidi. Con aste enormi e tre brillantini sopra.
Troppo faticoso, troppo complicato, troppo fastidioso dire la mia. A che pro? Meglio stare zitto. Meglio continuare a fare il ragioniere. Meglio stare fermo. Meglio rimanere immobile. Mica potevo dire, a quella col doppio mento e gli occhiali con i tre brillantini sopra, che ogni volta che la vedevo uscire da chiesa e dar cinquanta centesimi al ragazzotto ghanese che stazionava sempre lì non lo faceva per carità, ma perché inconsapevolmente attratta da quel coso enorme che il mendicante aveva sotto i jeans, più grosso, più nero e più lucido dell’asta dei suoi occhiali. Meglio starmene immobile, zitto. Da tanto tempo facevo così ed ero rimasto vivo.
Avevo appreso da ragazzo ad emulare gli scarafaggi in pericolo che per tollerare l’angoscia fan finta d’essere morti. Un vecchio prete bastardo e esaltato mi faceva sempre leggere la storia di un convertito, avevo letto e riletto il testo per poi interpretarlo al teatro amatoriale della parrocchia dove facevo la parte del diavolo. Lo spettacolo terminava con il protagonista, un ex Don Giovanni diventato frate, che all’epilogo della sua esistenza, un istante prima di schiattare, sentenziava:
«Tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il cielo sia lodato!) non è la nostra».
Rapido l’incantesimo del quietismo mi si era incistato nel cervello: dovevo semplicemente rimanermene immobile, fiducioso che se stavo davvero fermo un qualche Dio mi avrebbe salvato; se invece avessi preso iniziativa per raggiungere mete avrei attirato tragedie. Davvero semplice.
Da tanto tempo al Dio del vecchio prete non ci credevo più eppure, sotto, sotto, non escludevo che se fossi rimasto assolutamente immobile un Mandrake celeste, o una qualche Minchia Vagante, mi avrebbe favorito un destino benevolo. Mi avrebbe di qua e forse anche di là, nel regno celeste delle anime immortali, sistemato le cose, tutte le cose. Perché no? Tutti in paese facevano delle cose strane, non era obbligatorio ma neppure vietato che io facessi 'o scarrafone mistico.
Il vecchio tabacchino mi aveva persino confessato che, ogni mattina da più di cinquant’anni, nel vestirsi si allacciava sempre la scarpa sinistra prima della destra per propiziare gli incassi ed esorcizzare disgrazie.
Come succede quando si accudisce un cane mi ero affezionato al mio quietismo, mi piaceva, lo difendevo e così quel lunedì sera all’invito di Ilaria alla festa avevo risposto:
«Grazie ma stasera non posso proprio venire, ho un impegno».
E mentre Ilaria in minigonna mozzafiato festeggiava in bella compagnia il suo trentasettesimo compleanno stavo onorando il mio urgente e improcrastinabile impegno, nel posto dove «tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il cielo sia lodato!) non è la nostra» là stravaccato sul divano, anestetizzato dalla birra e ipnotizzato da un documentario di Piero Angela sull’antica Roma.
Fu proprio così che la mattina successiva, impegnato da protagonista assoluto in un trafiletto di cronaca provinciale, non mi ero presentato al lavoro:
«ICTUS FULMINANTE TROVATO MORTO CON LA TELEVISIONE ACCESA E IL SIGARO IN BOCCA»
Elvira col doppio mento più ostentato del consueto e i suoi occhiali retrò, neri, lucidi, con aste enormi e brillantini sopra inforcati sul naso, si era precipitata in chiesa per raccomandarmi a Dio. Aveva chiesto al Creatore che mi facesse riposare quieto.
Nebbia, qua e là dei vecchi seduti su grandi massi rotondi come la sfera di Parmenide, uno con la barba canuta legge un libro enorme. Poco più in là selvaggi con la faccia pitturata danzano in cerchio. Qui è facile capire che non stai sognando ma sei morto per davvero: la gravità è quasi assente e tutto è continuo-infinito-presente. Questo posto i cattolici nella loro dottrina escatologica lo chiamano Limbo, non è male, nessuno ti rompe i coglioni e c’è il cinema. Proiettano ad ogni ospite il lungometraggio della sua esistenza in vita, il mio s’intitola: «Le gesta di Malagnino, ragioniere di provincia» e mi fa rivedere tutta la storia del personaggio che credevo d’essere. Qui ognuno visiona il film che si merita. Per ammetterti nel Limbo non devi essere battezzato così da avere ancora addosso il peccato originale. Si tratta di una colpa impersonale a trasmissione genetica, è per questo che qui ci così sono tanti neonati e anche pargoli, sono così numerosi che hanno dovuto aprire una sezione apposita, si chiama “Limbo dei bambini”. Sono lì confinati tutti i bambini morti prematuramente che, anche se non hanno avuto il tempo di compiere neppure un peccato personale, sono tuttavia marchiati in eterno dal peccato originale: un piccolo segno sull’alluce destro a forma di XY. Ce l’ho anch’io, ma è strano che ce l’abbia. Io da bambino ero stato battezzato e il Battesimo smacchia l’XY. Forse nel rito battesimale qualcosa non ha funzionato… Avranno omesso qualche passaggio, o forse l’acqua benedetta era inquinata, oppure il Battesimo mi era stato officiato da un finto prete. Chissà? Se un qualche Arcangelo guardiano scoprisse che sono battezzato mi radierebbero all’istante, ma qui sto bene e voglio rimanerci. Per occultare meglio la clandestinità sto per i fatti miei, mi viene facile anche nel regno dei mortali ero un introverso. Nel mio settore ci sono solo ospiti adulti, uomini e donne non lavati dal peccato originale perché nati e vissuti prima di Cristo, oppure che non sono stati informati della sua venuta nel mondo. Moltitudini e moltitudini di disparate etnie che sfavoriti dalla sorte non hanno conosciuto il cristianesimo, centinaia di miliardi tutti qui, ma il posto è capiente e non si sta male. Il problema serio è un altro, tempo fa un mattino di settembre un prelato aveva iniziato a sparare minchiate su questioni dottrinali cruciali, aveva iniziato a dire che il limbo andrebbe abolito e il Papa lo aveva preso sul serio. Da qualche tempo il catechismo, del Limbo, non ne parla più. Brutto segno. La CTI, Commissione Teologica Internazionale, ha addirittura emanato un documento per eliminarlo. Lo sfratto imminente mi preoccupa. Dove mi destineranno? Tra Paradiso e Inferno opterei per il Purgatorio, almeno lì hai qualcosa da fare, ma qui è meglio. Paradiso e Inferno sono posti da incubo, rimani lì con l’occhio fisso in eterno … Che la visione sia beatifica o terrifica non me ne frega un cazzo, è la fissità perpetua che mi angoscia. Però ci sarebbe una scappatoia per non eliminarlo: la teologia dice che oltre ad essere un luogo il Limbo è anche uno stato. In tal caso, in quanto luogo non luogo, non darebbe fastidio proprio a nessuno e potrebbero anche conservarlo. In fondo a parte la ressa e l’assenza di cristiani è un posto accettabile. Al cinema ci vado spesso, Il film del mio transito terrestre lo proiettano in 3D a colori strani, una specie di scala d’azzurri, anche l’audio è in 3D, forse 4. La scena che più mi piace è quella sul finire del primo tempo, quella dell’ospedale: mi trovavo ricoverato in una stanzetta a due letti, la 3, nel letto 6, con un piede e un femore rotti. Fratture gravi, scomposte. Stravaccato sul letto cercavo di rammentare come avevo fatto a ridurmi così, ricordavo con precisione che stavo guidando e l’autoradio cercava i canali in automatico, girava, girava, girava… ma poi si fermava sempre lì, sul display c’era scritto “F.M. 95.108 Radio Maria Madre” e una voce di femmina mi parlava, aveva la voce strana come di pornostar balcanica però non diceva parolacce. Correvo di brutto, l’incrocio con corso Cavour si avvicinava rapido e il semaforo dal verde era passato al giallo, rapito dai sospiri che venivano fuori dall’autoradio era confuso se accelerare per liberare l’incrocio o frenare. Frenavo, acceleravo, frenavo ancora, mentre quella della radio col fiato-voce simulava una specie d’orgasmo e la gamba destra mi si era rizzata e avevo accelerato proprio quando usciva il rosso e dall’altra parte passava il furgone bianco del fiorista. E lì sul più bello finisce il primo tempo.
Quando non ho voglia di rivedere il mio film, o nell’intervallo tra i due tempi, mi allontano dal Limbo e vago nel mondo. Mi intrattengo nel monitorare l’ultimo giorno d’esistenza di qualcuno, non li scelgo, si presentano a capocchia. Una volta mi è capitato di osservare uno morire secco stecchito mentre ballava al night con l’amante, ma i più divertenti da veder schiattare sono i soggetti pii. Diffido della gente pia, soggetti che da adolescenti torturavano di nascosto gatti randagi. Il secondo tempo del film inizia col bel primo piano del mio vicino di letto, uno proprio decrepito che sembrava già morto. Aveva un cancro nelle vertebre e in mano una piccola radio che si era portata da casa, la teneva sempre accesa e l’unico canale che riceveva bene era “F.M. 95.108”, proprio quello della santa-porca che mi aveva fatto scontrare col furgone bianco del fiorista. Il volume lo teneva basso per non disturbare i degenti del reparto, ma dal mio letto, lì in quel corpo di ragioniere, riuscivo a sentire ancora la voce di quella femmina… Lei mi parlava, faceva lunghe pause e ci sospirava dentro, facevo l’indifferente come se stesse parlando a tutti, ma nell’intimo mi ero convinto che parlasse proprio e solo a me. Ecco! Il film è già cominciato: fanno vedere la radio, sento già lo stacchetto musicale “Abbiamo contemplato le tue meraviglie”, attacca sempre l’organo e subito un coro di pargoli in sottofondo con sopra la voce di un maschio castrato, che annuncia: «Dagli studi di Radio Maria Madre suor Mariangela Petronilla Scalzi conduce: “Cori angelici”».
Ecco adesso arriva lei…. All’attacco fa sempre una pausa dove inspira tutta l’aria del mondo, poi dalla gola profonda la espira lentamente per far vibrare le corde vocali. Eccola:
«Caro fratello… Non dico cari fratelli e sorelle perché parlo singolarmente all’anima di ognuno di voi… Si proprio a te caro ascoltatore unico e irripetibile… Mi perdoneranno le ascoltatrici se chiedo, dunque loro, il piccolo fioretto di tradurre in “sorella” quando dico “fratello”. Quindi, caro fratello, anche oggi la tua sorella in Gesù, Mariangela ha contemplato le meraviglie del Signore e ti parlerà di come gli angeli sono organizzati in differenti ordini…»
Lei rapita dalle alte sfere ed io mi trovavo dentro quel corpo di ragioniere azzoppato e con la patente ritirata per un anno. Bastarda!
«Caro fratello… ogni Gerarchia angelica contiene tre Ordini o Cori… Che in decrescente ordine di potenza sono: prima Gerarchia: Serafini… Cherubini… Troni o Ophanim…»
Ophanim? E’ un bel nome cazzo!
«Beneamato fratello… appartenenti alla seconda Gerarchia angelica sono: Dominazioni… Virtù, Potestà; terza Gerarchia: Principati, Arcangeli, Angeli… dunque caro amico in Gesù… ebbene si! Il tuo angelo custode che ti protegge dal peccare e dalle disgrazie appartiene proprio alla terza Gerarchia…»
Proteggere dalle disgrazie? E mi aveva fatto schiantare sul furgone bianco del fiorista! Eh si! Mi prendeva per i fondelli, mi teneva per le palle la Mantide… A questo punto del film, se ben ricordo, la porca dovrebbe spiegare i Serafini… Si i Serafini…
«Caro fratello i Serafini da "Seraph"… appartengono al più alto ordine di angeli, asservono il ruolo di guardiani del trono di Dio e continuamente cantano le sue preghiere. Quattro di loro circondano il trono di Dio, dove bruciano eternamente senza mai consumarsi nell’amore e nello zelo per Dio. I Serafini sono facili da riconoscere sai… Sono angeli con sei ali…»
Sei ali? Non la reggo più! Meglio allontanarmi dallo schermo e camminare veloce nei corridoi del Limbo per smaltirmi l’incazzatura. Sei ali? Lì all’ospedale mi sarebbe bastato un corpo con due piedi che funzionavano ancora, invece ero bloccato in quel corpo di ragioniere storpiato e il mio orizzonte erano le pareti della stanza e una volta al giorno il corridoio, quando mi portavano con la carrozzina arrugginita a defecare nel bagno dei disabili. Sei ali? Manco qui nel Limbo. Sei Ali? Manco allo zoo. Sei ali e aveva sospirato di brutto… Sei! Proprio come il numero del mio letto d’ospedale. Sapeva tutto la porca. Mi controllava… E certo! Nel film non lo fanno vedere ma ricordo bene che all’ingresso del nosocomio c’era scritto con caratteri di bronzo su un marmo nero: «Ente Ecclesiastico» e nell’angolo in fondo al corridoio c’era anche la statuina della Madonna con dodici lucine sempre accese intorno alla testa, intorno al cranio immacolato, all’osso sacro della sua testolina. Era sua giurisdizione quell’ospedale, giocava in casa la Mantide della radio! Ecco perché la sua complice, la caposala che bagnava le calle davanti alla statua della Madonna, aveva sorriso nel vedere il mio compagno di stanza sintonizzato su “F.M. 95.108”. Anche le infermiere che la accompagnavano erano soddisfatte come lei, godevano nell’intimo nell’ascoltare Radio Maria Madre mentre facevano iniezioni nei culi. Una con la cuffiettina celeste mi si era avvicinata, nel cambiarmi la flebo aveva fatto un sorrisino da imbecille, proprio come quello di Santa Veronica Giuliani nell’immaginetta che, quand’ero piccolo, mia nonna teneva sul comodino. Era falsa come Giuda, si vedeva che quel sorrisino ebete occultava orribili intenzioni. Tutto il personale ospedaliero apparteneva sicuramente ad un’associazione a delinquere metafisica. Gente pericolosa. Avevo escogitato di comportarmi come se fossi uno di loro perché non mi facessero fuori. Ricordo che la mattina dopo il primario, nel fare il giro, mi aveva chiesto perché avessi stampato sulla faccia un sorriso strano. “Riso spastico” aveva detto. Non gli avevo risposto, mica potevo dirgli che per mimetizzarmi facevo la faccia di Santa Veronica Giuliani. Il professore aveva fatto scrivere nella cartella clinica:
«Si sospendono gli oppiacei in qualsiasi forma e dosaggio e si prosegue la terapia antalgica con non steroidei: Naprossene sodico mg 550; 4 capsule due volte al dì dopo i pasti».
Dopo pranzo n’avevo ingurgitate due, però la faccia da Santa Veronica non mi era andata via e il dolore alla gamba mi era ritornato fortissimo e lei era lì, ancora lì, sempre lì che mi sussurrava dalla radio del vicino di letto. Quando attaccava a sospirare ero colto da un priapismo che mi faceva più male della gamba rotta, la sinistra. Ricordo che mi ero ficcato due pezzi di carta igienica nelle orecchie per non sentirla, ma il coso mi era rimasto ancora dritto e grosso. La caposala si era accorta della carta igienica nelle orecchie e anche del coso grosso e mi ha aveva fatto una faccia che non gli avevo mai visto. Faccia da complice della Mantide che mi parlava dalla radio. Ero rimasto muto, come potevo spiegare che i sospiri della radio mi galvanizzavano il coso. Il primario non era ancora passato, lui avrebbe detto “ipertrofico” e fatto scrivere delle cose sbagliate nel diario clinico. Lui non sapeva che la Mantide me l’aveva fatto diventare ritto, come un Serafino in missione speciale, perché il membro gagliardo asservisse a ruolo di guardiano di un qualche trono divino. Asservire? Che suono pericoloso… Eh si… ricordo bene come godeva la Mantide nel pronunciarlo, lo scandiva lenta, lo sibilava sottovoce: assssssservire… Vipera cornuta.
Un’ infermiera si era accorta che nessuno veniva a trovarmi. Per me era normale, per lei no. Mi si era avvicinata per sussurrarmi che nell’ospedale c’erano due gruppi di volontari che aiutavano i malati: la “Pia Associazione Dame della Misericordia” e la “Legione di Maria”. Muto gli avevo dato il pigiama sporco e cinque euro in offerta. Nel Limbo non ho più di questi problemi, qui emettiamo secrezioni d’acqua distillata e non abbiamo necessità di lavarci. Il posto più lercio è il Purgatorio, lì spurgano ad oltranza roba strana e nonostante enormi lavatrici rotanti in perpetuo puzzano di brutto. Passate manco due ore il pigiama era lavato, non so se dalle Dame o dalla Legione. Me l’aveva riconsegnato quello che vendeva i giornali nel reparto, confezionato in una busta di carta ben piegato. Era un po’ umido e con un odore strano. Molto strano. Odore di calla, di giglio, di secrezione femminea mista ad ammorbidente. Odore di lei. Nella busta c’era un volantino giallastro come quelli che i vivi trovano sotto il tergicristallo quando posteggiano in periferia, quelli che pubblicizzano ai mortali cucine kitsch a prezzi stracciati. C’erano scritte poche parole ma belle grandi:
«CARO AMMALATO, OGGI LA TUA CROCE PUO’ DIVENTARE GIOIA. OFFRI LA TUA SOFFERENZA PER LE VOCAZIONI SACERDOTALI!!!»
Avevo già dato cinque euro… La Mantide era sicuramente la mandante del messaggio, insaziabile la vampira voleva succhiarmi tutto, a quelle come lei piaceva far soffrire i maschi, proprio come la statua della Madonna, quella nell’angolo del corridoio dell’ospedale, quella con le dodici lampadine sempre accese intorno alla testa, quella che schiacciava la testa al diavolo. L’avevo guardata bene la madonnina di gesso colorata di turchese, il faccino faceva una espressione autistica, un mix di sofferenza e ebbrezza; il diavolo col tallone della Madonna sulla testa tirava fuori un po’ la lingua ed esausto ghignava eccitato. Non capivo se piaceva di più alla Madonna schiacciare il diavolo o a lui essere calpestato, manco qui dal Limbo trovo risposta. Io da diavoli e madonne non ci voglio andare, gente perversa, qui al Limbo siamo più seri, non ci mettiamo i piedi in faccia. Ricordo che la caposala sulla colonna vicina alla statua Madonna aveva appiccicato, col cerotto, un manifesto del Ministero della Salute a prevenzione delle patologie ossee:
« POSSIBILI CAUSE DELLO SPERONE CALCANEARE:
1. problemi posturali;
2. lavori pesanti e nei quali si mantiene sempre la stessa posizione;
3. sport come il basket e la corsa;
4. soprappeso».
“ 5. Calcare la testa al diavolo” però sul manifesto non l’avevano scritto. Forse il Ministero della Salute aveva appurato che la testa del diavolo era gommosa e nel pestarla non procurava traumi. Anche qui nel Limbo abbiamo corpi che un po’ assomigliano alla gomma piuma, se ne fossi stato attrezzato quand’ero Malagnino non mi sarei spaccato nello sfondare il furgone bianco del fiorista.
Ricordo che il mio vicino di letto, quello col cancro nelle vertebre, quello così decrepito che sembrava già morto, era stato dimesso dopo pochi giorni perché morto per davvero. Non l’ho mai visto qui nel Limbo, chissà dove sarà finito? Era là nel letto con la radio accesa e nessuno si era accorto che fosse cadavere da un po’. Per tutta la mattina avevo sentito nella stanza puzza di pollo scaduto… Però lui aveva la faccia rilassata, non l’avevo mai visto così in forma. La caposala, la banda delle infermiere e forse anche la statuina della Madonna, si erano sentite beffate da quel suo andare via spontaneo, come se niente fosse. Avrebbero voluto confortarlo nell’agonia, a loro piacevano le agonie e le prolungavano a dismisura, ci inzuppavano il pane, più lunghe erano e più godevano. Raggiungevano l’estasi quando qualcuno rantolava con un pizzico di cervello ancora funzionante, quel giusto per fargli sentire ancora il dolore. Facevano il possibile e l’impossibile per non far arrestare il cuore del sofferente: pompa di benzina che trasformava in preti i ragazzi normali; sofferenza dell'umanità benzina che faceva funzionare Dio che così alimentato ardeva ed esisteva, nessuna musica dalle alte sfere ma rumore di fornace. La figlia del morto aveva donato la radio al nosocomio e la caposala l’aveva pulita con l’alcol per darla al nuovo compare di stanza:
«La tenga lei, così passa un po’ il tempo… Monsignore».
Quel vecchietto longilineo messo peggio di quello di prima era un monsignore cazzo! Mi sentivo in trappola, fottuto. L’avevo lì a manco due metri il monsignore, sdraiato nel letto di quello che era morto. Per non farmi notare fissavo il soffitto con la faccia da Santa Veronica Giuliani, ma lui con un filo di voce mi aveva parlato:
«Ha dolori così forti che non le va di parlare? Bravo… Si vede che li sopporta con letizia…»
Già mi vedevo agonizzante mentre pompavo carburante per far funzionare il carrozzone cattolico… Ero rimasto muto, pietrificato, inorganico e il porco aveva smesso di guardarmi e acceso la radio. Imbranato girava la manopola in cerca di canali, sapevo che si sarebbe fermato lì… E l’aveva fatto con un volume un po’ più alto di quello che era morto. A quell’ora la Mantide non c’era, trasmettevano «Quindici minuti con Padre Celestino, demonologo e mariologo.»
Basta con i ricordi, meglio rivedere in presa diretta… Ecco al cinema sta proprio per arrivare la scena del demonologo-mariologo che parla dalla radio:
«Cari Fratelli Maria ci insegna l’umiltà e, ogni giorno, ci dice “Io sono meno che niente ma Dio mi ama!”»
Che voce da coglione il demonologo! Da vivo non mi ero accorto. Quando ero arrivato nel Limbo il film della mia esistenza mortale mi era piaciuto così tanto che l’avevo rivisto, d’un fiato, per sette volte, ma adesso certe scene non le reggo più e abbandono la visione, forse sto invecchiando. Il demonologo aveva detto “meno che niente”, ma dal tono della voce adesso capisco che con quel “io sono meno che niente…” voleva invece dire “io sono una merda ma Dio mi ama”. Quindi Iddio amerebbe la merda? Che strano. Anche il monsignore che ascoltava la radio era perplesso, ricordo che per non perdere la fede aveva girato rapido la manopola in cerca d’altri canali, ma poi aveva preferito il mariologo-demonologo al gracchiare indistinto di musiche punk, ma d’improvviso aveva suonato il campanello perché gli mancava il fiato e in due minuti era già in coma. Apriti cielo! La caposala ingorda di sofferenza aveva convocato le subalterne, il primario e il cappellano. Il primario non c’era, un suo aiuto aveva fatto di tutto per conservare il monsignore in vita senza che ritornasse cosciente. Nella foga non avevano spento la radio ed il mariologo-demonologo continuava a sparare minchiate e siccome quando muori l’udito è l’ultimo senso che ti abbandona il monsignore se lo sarà cuccato tutto… Una morte orribile. Avevano allestito un paravento per occultarmi la visuale i cannibali, però vedevo la silhouette del cappellano che impiastrava la faccia d’olio al morente come si fa nel cucinare il pollo alla diavola, una roba schifosa che chiamavano “unzione degli infermi”. Per sua fortuna il monsignore era morto prima che lo succhiassero tutto. Ricordo che l’avevano messo su una portantina per spedirlo alla camera mortuaria, spento la radio e appoggiata, tutta imbrattata d’olio, sul mio comodino. Ero preoccupato… non di sporcarmi il pigiama, ma che tutti quelli che l’avevano toccata prima di me erano schiattati rapidi come birilli. Non sapevo se toccarla per riaccenderla… Ma a quell’ora arrivava lei e mi dispiaceva rinunciare alla sua voce. Dovevo scegliere tra Eros e la Morte. Avevo scelto Eros e chissà perché ero rimasto vivo. Zoppo ma vivo. Che gran bastarda la Mantide forse un po’ gli piacevo, peccato non sia qui nel Limbo, quelle così vanno in Paradiso un posto triste che assomiglia ad un reparto psichiatrico.
Quand’ero vivo avevo conosciuto un agnostico, un bel tipo, uno da Limbo, ma che invece desiderava il Paradiso. Mai contenti gli umani. Pregava così:
Dio credo in te perché se esisti ottengo eterna salvezza e se non esisti ho comunque vissuto un'esistenza lieta rispetto alla consapevolezza di finire in polvere,
Dio se esisti ed io ci ho creduto: + (mi è convenuto);
Dio se non esisti ed io ci ho creduto: x (non ci ho perso né guadagnato);
Dio se esisti ed io non ci ho creduto: - (ci ho perso);
Dio se non esisti ed io non ci ho creduto: x (non ci ho perso né guadagnato).
E si udì una voce nel cielo: «Ma per chi cazzo m’avete preso!». Il Dio d’Occidente arriva dal Medio Oriente, a Lui non piace il Totip metafisico preferisce far sgozzare capretti per cuocerli su sterpi infuocati, poi ordina al popolo di ingurgitarli con cipolla cruda. Abramo, Isacco, Giacobbe… Nel Limbo ho incrociato un paio di Patriarchi qui di passaggio, odoravano di capra e cipolla e avevano falli enormi.
Qui è meglio del Paradiso però mi manca la voce della Mantide, meglio non pensarci la posso sempre riascoltare nel film, adesso basta con i ricordi, meglio dare un’occhiata ai mortali… il Limbo dopo un po’ diventa noioso, ma di tanto in tanto mi è concesso di tuffarmi nel mondo, però non posso scegliere il luogo. E’ un po’ come giocare alla roulette, non so mai dove andrò e chi incontrerò, può capitarmi di tutto. Adesso faccio una specie di respiro e mi immergo… Taranto centro. Non male. Per non pestare la merda dei cani cammino invisibile a testa bassa, ma all’incrocio con viale magna Grecia la rialzo per non essere pestato dall’autobus come usano i mortali. Sotto al civico 109 c’è appiccicato un manifesto:
«FESTEGGIAMENTI POPOLARI DI SANTA RITA:
COM’E’ BELLO IL MONDO. COM’ E’ GRANDE DIO!»
Seduto sul marciapiede uno che assomiglia a Primo Levi tace.
Dal mondo dei mortali certe volte ritorno rapido nel Limbo, altre volte vengo sballottato di qua e di là da una qualche forza ignota, forse magnetica. Taranto già scompare e vedo le Valli di Comacchio. Entro in un ospizio, secondo piano sala televisione, sopra una poltrona sgangherata nell’angolo destro c’è un vecchio dal ventre immenso. A tre quarti del varietà su RAI 2 muore senza accorgersi mentre guarda ballerine agitarsi. Tutto era cominciato a sua insaputa ottantatre anni prima da una goccia di sperma e un ovulo vagante. Il mio tempo di permanenza nel mondo è scaduto, rieccomi nel Limbo. Chissà perché sulla terra ho visto morire proprio quel vecchio di Comacchio invece che una ragazzina di Boston? Forse perché dovrei indagare come da uno spermatozoo e un ovulo così piccoli possa venir fuori un ventre così immenso? Perché possa rendermi conto che è davvero possibile vivere tutta un’esistenza senza senso e neppure motivo? Esisterà pure da qualche parte del mondo, dell’universo, del cosmo, qualcuno nato, vissuto e morto per un motivo? Ma il vento soffia dove vuole… Ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va… E mi ha portato a Comacchio. Qui nel Limbo non puoi programmare niente, il trono di Dio è vuoto e intorno danzano anarchiche forze magnetiche, si manifestano con lampi fatui giallastri, nell’intravederli mi ritorna in mente il primo ricordo avuto da vivo quando infante non sapevo ancora di chiamarmi Ivo Malagnino: nell’osservare il fuoco di una stufa percepivo di esistere. Fuoco d’essere sorto spontaneo non so da dove, non conosco il perché, non so come. Essere… è l’unico capitale che avevo sulla terra e che ho ancora nel Limbo; essere… E’ l'unico problema che avevo da mortale e che ho da immortale. Certo il Limbo è ben strano… mi son fuso in tutto, sono diventato un po’ liquido, etereo, onnipervadente. Ricordo che quand’ero il ragionier Malagnino una notte avevo creduto di aver fatto esperienza del Limbo, una anticipazione, un assaggio estemporaneo. Era accaduto nel reparto di ortopedia, quand’ero lì ricoverato… il periodo più entusiasmante del mio transito terrestre. Quel giorno che il monsignore era morto ed io ero rimasto vivo, l’infermiera mi aveva attaccato un cartello rosso sulla spalliera del letto:
«DIGIUNO PER INTERVENTO»
Era di turno quella grassa, la donna più brutta del mondo. Una con quella faccia lì portava sfiga, sentivo che sarei morto sotto i ferri, una certezza che saliva dallo stomaco e si irradiava nella stanza, invece mi sbagliavo avrei vissuto ancora trentadue anni. Troppi. Avevo deciso di intrattenermi dandomi da fare: un buon metodo per esorcizzare l’angoscia di morte dei vivi è tagliarsi le unghie dei piedi. Avevo iniziato dall’alluce sinistro. Dalla finestra entrava sempre meno luce, eppure il buio non arrivava. Il sole non tramontava e l’unghia dell’alluce sinistro puzzava e la mattina dopo pensavo che sarei morto, ma non ero nel Limbo. La luce perpetua non era di sole che mai tramonta, ma di lampada alogena di un campetto di calcio contiguo al nosocomio. Osservavo l’unghia dell’alluce sinistro con le forbicine immobili nella mano destra; non volevo agire… Tagliate tutte le dieci unghie dei piedi con cosa avrei, poi, anestetizzato l’angoscia di morte e d’eterno? Con Dio ci avevo già inutilmente provato anni prima e le unghie delle mani le avevo già tagliate tutte.
Troppa fatica morire.
Troppa fatica vivere.
Era tardi.
Orfano ero sceso nella voragine, giù fino al lago di dolore, per contemplare i relitti che galleggiavano nel silenzio. Nessun uomo, nessun animale, nessun dio. Là era il mio posto, ma avevo fatto finta di niente e aperto a caso “La Repubblica”. Pagina 7:
«PERUGIA, PRESI I KILLER DEL BANCARIO »
«Bestie. Chiunque è stato capace di uccidere Luca in quel modo va considerato una bestia e con le bestie deve stare» ha detto Bruno Rosi, il padre del giovane ucciso, appena appresa la notizia della cattura dei due assassini. Con altrettanta rabbia una piccola folla radunatasi in serata davanti alla caserma dei carabinieri di Perugia si è scagliata urlando contro il cellulare che portava nel carcera di Capanne i due arrestati: «Assassini».
Quella notte nell’ospedale avevo detto tra me e me: «In che mondo di merda viviamo» e richiuso il giornale, ma qui nel Limbo vedo, nel contempo, tutto:
1974 ospedale di Perugia terzo piano maternità. Luca è lì nudo appena nato.
2012 ospedale di Perugia seminterrato obitorio. Luca è lì nudo appena morto.
Nato con taglio cesario di Mambretti assistito da Sinni, ginecologi;
morto con 5 colpi di pistola di Ghiorghita assistito da Rosu, criminali.
2012 due notti prima dell’omicidio. Luca e Iulian Ghiorghita sono nel sonno profondo. Hanno la stessa espressione.
1980 Perugia, primo giorno di scuola elementare, seduto al terzo banco Luca guarda fuori dalla finestra con occhio immortale. La maestra scrive l’alfabeto alla lavagna: «Luca cosa fai lì imbambolato? » E lui ha guardato la lavagna ed è morto. Morto dentro. Morto sul colpo. Morto stecchito a sei anni per conformazione.
1996 Perugia. Luca 23 anni. Nascondeva l’occhio mortale con occhiali da sole alla moda. Tifoso di calcio, giocatore di calcetto. Pranzi da mamma e papà con fidanzata. Bancario. Uso di deodoranti.
Prima della nascita di Luca suo padre lavorava in banca a Perugia. Luca, in qualche modo strano, era già presente nell’essenza di suo padre.
Prima della nascita di Iulian suo padre riparava trattori in Romania, aveva i piedi sudati anche in inverno, puzzavano di verza bollita e grappa.
Iulian in qualche modo strano era già presente nell’essenza di suo padre, albergava informe nelle secrezioni paterne, gli circolava nel corpo. Quintessenza di verza bollita e acquavite.
2012 Luca cena col padre, discutono di calcio. Un’ ora dopo ha le mani legate e Iulian gli spara nel ventre. Gli piace ammazzarlo.
Il fallo di carne di Iulian se eretto tira un po’ a destra, quello d’acciaio, una Beretta calibro 9, è dritto. Prima di sparare per otto giorni aveva caricato l’arma, scaricata, ricaricata, riscaricata, pulita, accarezzata, lucidata e rilucidata, messa nella cinta, estratta, messa veloce nella tasca posteriore dei jeans, estratta ancora. Nel masturbare il fallo d’acciaio si guardava allo specchio.
Mentre Iulian ammazzava Luca, il padre della vittima, Bruno, era al bar. Tirava una Donna di Fiori. Nessun presentimento.
Iulian con la pistola in mano nel mazzo vedeva solo Jolly.
2012 Funerale di Luca. Salma di banchiere onorato da rose rosse e maglie di calciatori. La gente in chiesa applaude: «Potevano sparare a qualcuno di noi, invece hanno sparato a te. Grazie Dio. Grazie Luca ».
Luca e Iulian da bambini si divertivano ad ammazzare lucertole, poi Luca aveva preferito i videogiochi e Iulian uccidere cani randagi. Gli piaceva vederli morire, godeva nell’ osservargli l’occhio che da espressivo diventava neutro. Poi aveva infilzato con un asta di ferro l’occhio di un uomo: condannato a sette anni di carcere in Romania.
2012 Carcere di Perugia, cella di isolamento. Iulian ha la mascella larga, molari marci, occhi verdi, fronte bassa, cuore grosso, cazzo storto. Onnivoro. Regime dell’appuntamento: defeca preciso alle 7.30.
Invidio i mortali, robe del genere non capitano né all’Inferno, né in Paradiso e neppure nel Limbo. Dal Limbo osservo Iulian che a mezzogiorno mangia nella sua cella mentre il corpo di Luca da un mese cadavere si sta saponificando nella bara, però la lingua è già completamente marcita e vorrei essere lì con loro. Iulian beve acqua e mangia pasta al pomodoro ma odora di verza bollita e grappa. Il secondino lo guarda dallo spioncino, lui morsica una banana troppo matura.
Un ragno cammina sul soffitto, vivrà ancora per una settimana.
Tra qualche decennio Iulian, tutti i parenti di Luca, giudici e secondini, tutti gli abitanti di Perugia, tutti gli italiani, tutti gli abitanti del mondo saranno morti. Tutti condannati a morte imputati di essere nati.
Iulian non ha Teorie e Ideali. Vive in presa diretta stile rurale, stile animale.
Il cappellano del carcere va da Iulian, lui tace, indifferente alla visita.
Nell’altro braccio dell’Istituto c’è Ottavio, terrorista pentito e convertito. Amico del cappellano. Le Idee del cappellano e quelle di Ottavio si sono trovate a coincidere. Ottavio firma con calligrafia differente da come scrive. Aveva messo una bomba alla stazione, tanti morti più a capocchia di quello di Iulian. Prima del pentimento-conversione Ottavio teorizzava pulizia e giustizia, adesso pulizia e giustizia si sono per lui connotati di immenso, ha una ciste anale, dorme in carcere ma di giorno esce a lavorare. E’ vegetariano e stitico. Dal continuo-infinito-presente lo vedo nella sua cella quando ogni mattina bagna il geranio sul davanzale della finestra mentre le salme delle sue vittime sono polvere ad eccezione di Maria, una studentessa di Ancona che si è mummificata come fanno i cadaveri di certe sante e streghe. Ottavio mette le scarpe allineate sotto il letto, sono lì parallele perfette al millimetro. Le scarpe le trova ogni mattina lì precise al loro posto. Ha trovato la fede, trova le scarpe. La sera prima di dormire guarda la TV, cambia canali in continuazione, gli piace far sparire nel nulla la presentatrice per poi, come un dio benevolo, farla essere ancora.
Valoroso esistere per il fatto di essere nati a prescindere dallo svolgimento esistenziale? Sacralità della vita? Dignità personale garantita per diritto di nascita che vale per vittime, che vale per carnefici, che vale per tutti gli esistenti in vita?
Luca, bancario che giocava a calcetto ha perso la vita. A che gli serviva? Lì nudo prima e dopo, in mezzo nulla di rilevante. Morto lui e non un altro, così, a capocchia. A Iulian piaceva penetrare e non chiedeva permesso, con quello di carne le femmine con quello di acciaio i maschi. Nel penetrare vedeva sagome non persone, questa è una storia di prepotenti e impotenti, nessun potente. Iulian onnipotente da osteria, tutta colpa della fronte bassa e della mascella larga, della verza bollita mista a grappa che gli circolava nelle vene. Profonde, intime, occulte interiorità dell’uomo che generano alti ideali o bestie, ma forse gli alti ideali e le bestie sono la stessa cosa. Interiorità strani posti, con entità che a volte mostrano la faccia sublime e a volte il culo puzzolente, così, senza motivo. Qui nel Limbo non esistono altezze e neppure profondità, un posto sano. Però ai pretuncoli piacciono i paradisi e le fogne, è proprio per questo che vogliono togliere il Limbo… I bastardi non accettano che i bambini morti senza Battesimo godano di una felicità naturale, preferiscono che siano dannati nell’Inferno o serafici nella visione beatifica del Paradiso, un tormento peggiore del primo. Mary la fidanzata vuole che Iulian sia condannato a morte perché Luca era un bravo figlio, bravo bancario, bravo fidanzato. Eppure le stragi dell’umanità non le hanno fatte i Iulian ma le ideologie di bravi figli, bravi patrioti, bravi padri, bravi nazisti. Gente idealista. Gente pulita. Gente pura.
Il poeta una notte fu accoltellato per strada da un clochard, dopo la convalescenza andò a trovarlo in prigione per chiedergli: «Perché l'hai fatto?» «Non lo so» rispose l’aggressore, proprio come quando il salto di corsia di un autoarticolato uccide a caso la giovane madre che passa in quel preciso istante proprio lì, come quella che avevo vista l’altro giorno in una immersione nel mondo. Se alla giovane madre gli fosse caduto il tappo del dentifricio nel lavabo avrebbe perso quei trenta secondi che gli avrebbero salvato la vita, invece il tappo era rimasto al suo posto. Il giorno dopo il vento magnetico mi aveva portato dal barbiere del paese, forse Bagnacavallo nel Ravennate. C’era uno che aspettava il suo turno per fare lo shampoo, dava un’occhiata al quotidiano locale: «Giovane madre schiacciata da TIR». Osservava la foto dell’auto appiattita col lenzuolo sulla salma, nel guardarla si sentiva moderatamente addolorato e molto curioso, poi assolutamente eterno: la giovane madre era morta lui invece era vivo, l’oscena immagine della scarpa destra della giovane madre lì sull’asfalto indizio preciso del suo stato immortale, ma Il barbiere lo chiama. E’ arrivato il suo turno. Il momento arriva. Sempre. Come potrebbero vivere i mortali se ne fossero davvero coscienti? Tutto sommato fan proprio bene a far finta di niente. Qui nel Limbo gira voce che non esista gran differenza tra un trafiletto osceno e una biografia valorosa: sono solo dei film. Boh? Se lo dicono loro... Però quando ci sei dentro da protagonista è scocciante quando un cancro ti porta via il giovane amico; poteva portare via un altro, invece porta via proprio lui. I mortali cercano di difendersi con diagnosi mediche preventive e precoci, prudenza ed osservanza del codice della strada e allarmi sulle porte blindate per anestetizzare la presenza di Iulian Ghiorghita, ma lui indifferente alle diagnosi precoci di malattia, all’osservanza del codice della strada e agli avvisi di pericolo scritti sui pacchetti di sigarette è comunque lì, potenzialmente lì, sempre lì. Fragile e strana l’umana condizione, Tex Willer e il Mandrake celeste non disarmano Iulian e non riparano il danno, agli abitanti della terra non gli rimane che imputarlo così da entità cattiva lo sgonfiano a soggetto da sanzionare. L’assassino ingrigliato nelle sbarre della cella e delle sistematizzazioni viene un po’ riportato sotto controllo, intanto Luca è morto. Ho pensato troppo? Ho ricordato troppo? Non lo so, qui nel Limbo tutto accade in un istante e nel contempo. Ma adesso basta pensare! Ho voglia di mortali in presa diretta, mi piacciono i mortali… Mi butto nel mondo: Belgrado. Kičo il serbo-bosniaco aveva sempre ruotato il capo solo a destra e a sinistra, ma oggi si sente un eroe e guarda all’insù
ammaliato,
incantato,
rapito,
affascinato dall’illimitato.
Icaro balcanico pervaso dal
celestiale,
ineffabile,
aereo,
paradisiaco,
grandioso,
etereo,
idilliaco,
supremo,
stupendo,
sovrumano,
eccelso,
altissimo,
immenso,
indicibile,
grandissimo,
sconfinato,
angelico,
sacrosanto,
intangibile,
impareggiabile,
meraviglioso,
splendido,
strabiliante ed estatico Assoluto.
Tempo fa, in tre settimane, aveva ammazzato centinaia di persone perché di religione diversa dalla sua. Aveva obbedito all’Ente, all’Ideale, al porco dio della sua Patria. Nel guardare un pioppo mosso dal vento d’improvviso realizza, per un istante, che la Patria è un’idea. La Patria non esiste. L’albero si. Perplesso guarda all’ingiù e si sfracella sulle sue scarpe nere un po’ impolverate. Infarto. Chi più va su, più cade giù. Forse Iulian il romeno a differenza di Kičo ne ha ammazzati il giusto necessario come facevano gli uomini delle caverne con i cerbiatti, ma quando l’essenza ancestrale di cipolla cruda e grappa incontra l’Ente, quando si fonde con l’idea presupposta di domeneddio, accadono genocidi. Qui nel Limbo non ci sono scale mobili, non si ascende e non si discende. I gatti non giudicano sfavorevole l’appartenenza alla propria specie, invece le religioni degli uomini fabbricano scale per andar su, sempre più su, ancora più su, per allontanarsi più che possono dall’essere uomini. Che strani che sono. Su dove? Però quello là… L’antico predicatore ebreo… Quello di Nazareth, se ne infischiava d’essere Dio e gli piaceva essere uomo… Diceva che è meglio uomo che angelo, meglio essere uomo che Dio. Uno così alla madonnina con le dodici lampadine accese intorno alla testa, intorno al cranio immacolato, intorno all’osso sacro della sua testolina immacolata, gli avrebbe pisciato sopra per fargliele andare in cortocircuito… Che sia stato proprio lui il diavolo?
Kičo il serbo-bosniaco in sessantotto anni d’esistenza aveva mangiato quattro quintali di strane salsicce e due quintali e mezzo di paprika. Nel morire non si russa si sfiata, non assomiglia all’addormentarsi come almanaccavo quand’ero ragioniere. Questo momento qui, tra un’ora non vale più. Nel Limbo “tra un’ora” non esiste.
Voglio intrattenermi ancora con i mortali e un vento magnetico mi porta a Roma, forse periferia nord, ipermercato. Potrebbe almeno una volta condurmi al mio paese, quello dove facevo il ragioniere? Giusto per dare un’occhiata alle cosce di Ilaria… Invece no. Meglio così, forse Ilaria è morta da duecento anni e le sue cosce sono terra con un Lauroceraso piantato sopra. Vago invisibile nell’ipermercato romano, osservo un single di mezza età alto e magro. Da giovane quando s’innamorava equivocava donne per dee, adesso ha carattere pessimo ma pensiero lucido. Il suo pappagallo è felice lui no: sa di essere. Alla terza scaffalatura incontra un cartello con scritto sopra “ANIMALERIA”. Sugli scaffali ossa di silicone e cappottini antisole per cani, lì - chissà perché? - Decide che da quel momento frequenterà solo conventi e puttane. Non fa in tempo. Tamponato sulla statale da autotreno polacco carico di bovini. Sangue di uomini e bestie si mischia sull’asfalto. Il suo pappagallo rimasto solo, legato da dieci centimetri di catenella dorata al trespolo, morirà di stenti. Era sempre stato un tipo strano quello lì alto e magro, sua madre l’aveva abbandonato appena nato e lui aveva sofferto della sparizione. Per tutta l’esistenza si era ripetuto: “La Madre è colei che ama! devo esigere questo amore perché mio diritto naturale!”. Quell’enunciato era un veleno che aveva equivocato per medicina. Qui nel Limbo anche i più idioti sanno bene che “La Madre” è una fantasia, e la “Madre che ama” un ente irreale frutto di un dogma sbagliato. Non esiste “La Madre” entità sacra e cosmica con la “M” maiuscola né in cielo né in terra, ma solo donne che nate da altre donne partoriscono a loro volta altre madri, che poi accudiscono la prole come possono e riescono, ognuna è un caso diverso, nessuna indispensabile, ognuna criticabile, ognuna apprezzabile, tutte mortali. Molto semplice, nulla di trascendentale, ma a lui piaceva inginocchiarsi ai piedi della Madre cosmica, all’altare dell’astrattezza per succhiare l’oppio dell’amore oceanico che inebria e confonde. Invece quelli nati dall’amore? Il vento oggi è mio alleato… Mi porta dritto da Don Livio Masciago un gesuita miope, cappellano militare, che sta schiattando al Niguarda di Milano. Figlio di coppia unita e amorevole ha la testa a pera. Fronte enorme pornografica. Rantola incosciente. Da giovane si ricreava nel fare parole crociate, gliel’aveva insegnato un superiore in seminario, diceva che tengono lontane le tentazioni della carne e migliorano intelligenza e memoria. Don Livio diffidava dei soggetti con la fronte bassa, dopo un periodo in missione nel Mato Grosso si era convinto che i nativi, se avevano la fronte bassa, erano impostori. Soggetti che fingevano di ascoltare con attenzione le sue omelie traboccanti di grazia, di assumere le medicine del medico missionario e anche di accostarsi con devozione ai sacramenti, ma invece di nascosto si tracannavano i rimedi dello sciamano e pregavano con lui. Ma adesso che sta schiattando si è dimenticato dei nativi del Brasile, delle parole crociate e anche delle fronti basse. Non pensa ma respira. Ecco è morto ma la barba gli continua a crescere. Il cuore, i polmoni e il cervello si sono fermati ed è iniziata la putrefazione ma i bulbi piliferi sono ancora un po’ vivi. “Un pirla in meno” avrei commentato da vivo, in quel regno ogni volta che qualcuno riferiva di cuori colmi di gioia e grazie traboccanti scorgevo idraulici e pozzi neri. Oggi il vento magnetico è forte, avrà sentito il mio desiderio d’overdose d’umani, volo ancora e ritorno a Roma, quartiere Monte Sacro Alto. Dottor Veri, vedovo, dirigente del catasto di Viterbo prepensionato per malattia e lì semiparalizzato sopra un letto barocco accudito da Umberto, l’unico figlio. Sta leggendo a fatica un libro sul Regno dell’Alto Egitto. Borbotta: «Umbeeerto… Umbeeerto… Umbeeerto… Cosa vuol dire “psicostasia”?» Umberto giusto il tempo di prendere il dizionario in soggiorno e lo trova morto. Davanti al cadavere di papà rimane immobile, impassibile. Pensa: Il soggetto è nulla l’Ente supremo è tutto e sente che domineddio, o qualcosa che gli assomiglia, è lì nella stanza. L’intestino gli borbotta come faceva la voce di papà vivo, lui stringe il culo per non scoreggiare davanti all’Onnipotente. Nel trattenere gli viene la faccia un po’ marmorea, da Savonarola. Osservo dalla sua finestra il cupolone del Vaticano mentre biloco a Parigi, quartiere latino. Commercialista. Fino a sei mesi fa incontrava i suoi clienti, ristoratori e gestori d’albergo, per programmare impresa. Pensavano e valutavamo ipotesi per il futuro. Un sabato d’estate non era più andato da nessuno perché all’ospedale. Un tumore al pancreas lo sta uccidendo. Nei suoi incontri di lavoro mai aveva considerato di avere un pancreas e neppure la possibilità dell’evento. Errore. Ma così fanno i commercialisti del quartiere latino, invece io da vivo ci pensavo all’epilogo, così ho fatto una vita da morto e alla fine sono morto per davvero. Ragionier Ivo Malagnino eroe dell’inesistenza. Il senso ultimo non l’avevo trovato però il cercarlo mi aveva intrattenuto e un po’ divertito. Avevo indagato a fondo ma la soluzione non l’avevo trovata, però mi ero sentito un “Cercatore di Verità”, figura ritenuta da alcuni mortali più prestigiosa di “Cavaliere del Lavoro”. Sono stanco voglio ritornare nel Limbo, perché il vento mi porta a Bergamo? Basta! Vedo Mariani Lorella commercialista… Di una così non me ne po fregà de meno! Mi ero illuso che il vento mi obbedisse ma erano solo coincidenze. La biondona guida un oggetto grande, un po’ gippone un po’ berlina di lusso; agglomerato di ferro e plastica che i mortali chiamano SUV. Ha cilindrata e dimensioni superiori agli autoveicoli normali ed è capace di attraversare agilmente la Mauritania, ma la signora accompagna i bambini a scuola, poi va dalla parrucchiera. Nel fine settimana suo marito, un assessore all’urbanistica grassottello, riesce ad utilizzare quasi un quindici per cento della potenza complessiva del “coso” nel portare la famigliola sulle Prealpi bresciane. L’ottantacinque per cento mai utilizzato serve ai proprietari per gridare alle galassie il loro status. I Mariani sono gente educata, considerano umiliante e anche osceno andare in giro col portafoglio aperto per far vedere che sono ricchi, preferiscono che sia l’agglomerato d’acciaio e plastica a surrogare il gesto. I Mariani la pensano proprio così e Lorella non muore. Strano, doveva essere proprio il suo momento, ma dentro quel coso si sentiva così immortale, superiore e potente, che è rimasta viva per davvero. M’ha beffato… Anche gli immortali sbagliano, non sono onnisciente solo un po’ onnipervadente. I respiri dei vivi, i loro corpi, dentro sono tutti uguali. Qualcuno continua, qualcuno cessa, qualcuno inizia. Stanco mi ritrovo a casa, nel Limbo. Quando qui non ne posso più di rivedere il film di Malagnino e sono esausto di monitorare a distanza ravvicinata i mortali schiattare, mi posiziono nel territorio intermedio tra Limbo e mondo per riposare. E’ una specie di super Limbo, un posto che assomiglia un po’ alla sala d’imbarco degli aeroporti dei mortali, quella dove partono per l’estero, quel territorio di nessuno oltre la guardiola della dogana. Ogni volta che vado in quel posto intravedo in distanza una salma in un appartamento in Bari, zona stazione. Sta lì da tanto tempo sul tappeto del salotto, ma nessuno dei vicini si è accorto di guardare la partita, mangiare pasta al forno, fare all’amore e far crescere i figli vicino a una mummia. Manco quand’era vivo si erano accorti di lui. Era uno che non voleva essere cercato, guardato o catalogato all'anagrafe, si era rarefatto per vocazione senza inscenare drammi. Sedazione dall’angoscia grazie a Dio? Grazie ad un amore di donna? Grazie ad un ruolo sociale? Triste condizione dipendere così lui se n'é andato rimanendo, dissolvendosi nella sua Bari senza nemmeno cambiare domicilio.
Buone notizie per il Limbo! Forse il barese mummificato mi ha portato bene, monsignor Maria Luigi Paolucci ha scritto un articolo in “Palestra del Clero” a difesa feroce del Limbo. Afferma che: « Il Limbo è solida deduzione teologica, corroborata dalla Tradizione e dal Magistero ecclesiastico» e ricorda, contro la Commissione Teologica Internazionale, che: «Al di là delle definizioni, spesso occasionali, riguardo all’inesistenza del Limbo, dobbiamo far riferimento alla solida dottrina teologica determinata dalla generalità dei Padri e dei teologi e dal Magistero ordinario della Chiesa, che, quando sia universale, è infallibile. Tale dottrina afferma che il Limbo esiste.» Continua: «Il Limbo starà sempre a ricordare la sublime trascendenza e gratuità della vita soprannaturale» e conclude che: «L’esistenza del Limbo dev’essere tenuta per certa! (Eius existentia certo tenenda est, Sacrae Theologiae Summa, cit. vol. IV p. 150) perché non è una semplice opinione teologica modificabile, ma dogma eterno. Bestemmia, dunque, affermare che “il Limbo c’è, ma è vuoto” come si permettono esternare i teologi modernisti e purtroppo il Papa stesso». Non male. Davvero non male. Bravo. Davvero bravo. Come minimo la posizione di monsignor Paolucci farà procrastinare la chiusura… Visto come stanno le cose il Papa e il suo entourage troveranno un compromesso col monsignore, si sa: i preti preferiscono i compromessi agli scismi ed io potrò rimanermene ancora qui, almeno per un po’. Certo Inferno e Paradiso sono davvero orribili… E il Purgatorio non è che sia il massimo… tanfo ovunque e ti mettono lì come una lumachina a spurgare sulla segatura, per poi essere mangiato da un qualche orco benevolo. Però anche il Limbo è strano… non c’è neppure un responsabile da contestare. Qui in teoria ti autorizzi da te… Ma per poter far cosa? Rivedere sempre lo stesso film? O fare una puntatina nel mondo a capocchia in un ipermercato romano o in un ospizio di Comacchio? O in Turchia sul mar Nero, per incontrare un cane randagio che vaga sulla spiaggia in mezzo a montagne di carbone? Proprio come mi era accaduto, in uno dei miei primi giri dal Limbo sulla terra. Il cane era magro e lercio ma con pupille immacolate. Piovigginava fitto e freddo, forse era inverno. Non ero ancora esperto… Avevo provato ad accarezzarlo come facevo quand’ero ragioniere, ma il contatto non era accaduto. Mi sarebbe piaciuto sentire con la mano il suo pelo umido. Qui un corpo ce l’ho ancora e in teoria potrei anche accarezzare un cane turco… ma è un soma bastardo, ibrido, invisibile, trasparente, gommapiumoso, liquido-etereo, intangibile. Vede e sente suoni, odori e anche i sapori, ma non riesce a toccare. Nel limbo non ci sono specchi, sono inutili, qualsiasi cosa ci si mettesse davanti rifletterebbero spazio vuoto in scala d’azzurri. Devo ammetterlo… mi trovo in libertà vigilata e non so neanche da chi… Mica posso prendermela con un trono vuoto circondato da lampi magnetici che danzano anarchici nell’assurdo. Sono fottuto. Libero arbitrio? Una mucca legata ad una quercia con una catena di tre metri libera di correre a cerchio verso destra o sinistra. Libero arbitrio: tre metri di catena nell’assurdo. Vorrei tornare uomo. Mi piacerebbe davvero… Quasi, quasi ne faccio formale istanza all’assurdo. Me ne strafotto se nessuno mi ascolta. Affronto il trono vuoto, nudo mi ci siedo sopra. Non ho paura e dico:
«Voglio un corpo di uomo di quelli che ingravidano e muoiono.
Voglio mangiare un pezzo di pecora e un po’ di cipolla selvatica davanti ad un fuoco in compagnia di qualcuno, non mi interessa che sia la Mantide, Ilaria dalle belle cosce, o Elvira con gli occhiali coi brillantini sopra, ma che sia di carne e mortale.
Lo voglio e mi piace essere uomo, lì posso fottermene dell’assurdo.
Lì non vacillo.
Lì mi piace sentire la pioggia che cade per dissetare le bestie dei campi e gli asini selvatici.
Lì con occhi di carne vedo gli uccelli del cielo e per terra erbe rare e la vite che trasformo in vino per allietarmi il cuore.
Lì sui cipressi la cicogna ha la sua casa; le alte montagne per le capre selvatiche, le rocce rifugio dei rapaci mentre la luna segna il tempo e il sole sa l'ora del tramonto.
Lì la notte latrano le bestie nella foresta, ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda e quando sorge il sole si ritirano per accovacciarsi nelle loro tane.
Lì Uomo esco per il mio lavoro, per la piacevole fatica di rinnovare la terra.
Lì il mare spazioso e vasto e rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi. Voglio adesso un corpo mortale per toccare il mondo e rinnovargli la faccia per poi darlo in eredità ai miei figli. Meglio tornare uomo. Voglio tornare uomo e poi morire!»
Vedo tre figuri uscire da sotto il trono come topi che escono dalla tana, mi sembra di conoscerli… Eh si! Sono proprio quei tre maschi con le mani da donna che quand’ero il ragionier Malagnino mi si erano seduti, proprio davanti, nel bar della piazza. Quelli che mi avevano pietrificato… Si quei tre bastardi che mangiavano pane e sorseggiavano del rosso, quelli che la barista aveva sentito parlare inglese ed io italiano. Si proprio quei tre di passaggio, venuti chissà da dove, che si erano alzati a sincrono e spariti ad est mangiati dal buio… Li guardo in faccia… mi sembrano in difficoltà. Non mi sanno che cazzo rispondere. Non riescono a contestarmi la voglia che ho di mangiare cipolla cruda. Possibile che Dio sia una cosa così misera?
Sento la forza di gravità e mi ritrovo seduto per terra dentro una tenda. Vicino a me una donna vestita con pelli di bestie selvatiche. Un po’ più in là un vecchio fuma una lunga pipa, mi piace il profumo del tabacco. Osservo un fuoco in mezzo alla tenda. Ho un corpo di neonato, non so se di maschio o di femmina, un piccolo animale dal pelo rosso e caldo riposa sulle mie gambe, non so che nome abbia. Fuori piove.
Fine
Il Teatro
Agosto 2001, giravo in folle un po’ smarrito. Ritornavo da un concerto con degli amici del Nord, proprietari di un trullo vicino al mio. Vincenzo Todesco guidava, non lo conoscevo bene, era uno strano. Tempo prima l’avevo visto a teatro interpretare “Aspettando Godot”, ma poi un amico giornalista mi aveva riferito che era uno dei migliori avvocati d’Italia per i reati politici, uno di Sinistra difensore dei terroristi rossi. Attore o avvocato? Di sinistra? Passi attore e anche avvocato, ma “di Sinistra” mi lasciava perplesso. Alle politiche avevo votato il Partito Radicale, non era che ce l’avessi con la Sinistra, ce l’avevo con l’ideologia perché puzzava di chiesa. Sul suo furgone Volkswagen, Vincenzo con un occhio guardava la strada e l’altro il mio emiviso caravaggesco per le luci della strada e sofferente per la recente separazione coniugale. Si era girato e a freddo mi aveva chiesto: «Interpreteresti ‘L’ultimo nastro di Krapp’ di Beckett?» Io, stanco del concerto, stanco del viaggio, forse esausto della vita, avevo sentito una voce salire dallo stomaco che aveva detto: «Si», il misterioso suggeritore interno si era per un momento impossessato di me e invece di limitarsi a suggerire aveva parlato. Vincenzo non era ideologico, non aveva tesi precostituite e neppure pregiudizi. Sarcastico e poco accomodante entrava deciso, col suo pensiero originale, nel merito delle cose. Non invitava ad abbracciare presupposti da verificare, parlava in presa diretta. Talvolta nell’ascolto del suo dire percepivo un riscontro intimo immediato che mi faceva dire: “E’ vero”, “E’ proprio così”.
Non c’era pietismo nella sua proposta, non intendeva aiutarmi, non mi giudicava un “poverino”; aveva trovato qualcosa di vero da mettere artisticamente sotto i denti, grazie ad un potenziale fornitore di materiale psichico di qualità, così scavezzacollo da prestare senza riserve la sua sofferenza al personaggio da mettere in scena. In pubblico, da lui diretto, avevo interpretato un vecchio irlandese disperato, a dire degli spettatori e anche del regista credibile, qualcuno aveva gridato al miracolo per la nascita di un nuovo interprete beckettiano di spessore. Gli apprezzamenti me li ero presi e negli anni a seguire critiche talvolta aspre, pettegolezzi di sottofondo rispetto alla rivelazione che aveva significato per me l’esperienza del teatro: quel nucleo doloroso, segreto, nascosto, causa di vergogna, d’insicurezza, di fragilità, che avevo dentro se messo in scena, a regola d’arte davanti ad un pubblico, si trasformava in narrazione di ognuno e di tutti, diventava dolore del mondo. Questo mi testimoniava il coinvolgimento del pubblico e nel mio intimo aveva significato spostamento di continenti, capovolgimento di galassie. Il nucleo di sofferenza da problema si era trasformato in opportunità, così avevo iniziato a comprendere ed apprezzare il romanzo della mia esistenza. Per disegnare un labirinto si parte dall’uscita.
Un approccio diverso dalla recitazione accademica e dalle sue tecniche, basato sulla verità del pensiero interiore e dell’emozione reale senza però banalizzarsi in psicodramma: sul palco non c’ero io ma un personaggio Altro. Da lì era iniziato il mio percorso artistico anche se non avvertivo l’urgenza di intraprendere la carriera d’attore, preferivo essere libero da qualsiasi condizionamento e poi non sarei stato capace di reggere quella verità ad oltranza nella ripetizione, così la prima messa in scena era di solito anche l’ultima. Dopo aver rappresentato ‘L’ultimo nastro di Krapp” e l’agosto successivo una riscrittura di “Giorni felici”, sempre di Beckett ma con un solo protagonista maschile, avevo iniziato a scrivere dei miei monologhi espressi in libertà, senza censure, grezzi, magmatici, che Vincenzo raccoglieva implementando una drammaturgia per poi dirigermi in scena.
Abbiamo rappresentato, in un trullo pugliese, un monologo ogni agosto per cinque estati consecutive, dei quali ripropongo la lettura sceneggiata:
KRANZ 2004
IL RENE 2005
L' OMINO 2006
L’ULTIMA CHAT 2007
MEMORIE DI UN EX MONACO 2008
Bruno Vergani e Vincenzo Todesco, agosto 2003
Vincenzo Todesco e Bruno Vergani, agosto 2013
Santa istituzione: la persona.
Nella dottrina ecclesiologica cattolica il vescovo è per il sacerdote ‘segno’ tangibile della presenza divina. Che dunque il pastore fischi e la pecora obbedisca è prassi diffusa. Anche se talvolta i pastori argomentano invece di zufolare e le pecore prendono personale iniziativa invece di soggiacere acriticamente alle indicazioni dell’autorità, in ogni caso, per la concezione dottrinale cattolica, sono proprio e solo gli atti di obbedienza o disobbedienza nei confronti dei ‘superiori’ a definire pregio o miseria del ‘subalterno’ a prescindere dal suo reale operato. Mera faccenda di metodo: prima riconosci Iddio presente nello spazio e nel tempo attraverso la figura dell’autorità ecclesiastica obbedendogli, poi - ben chiarite le parti - si valuteranno persone e discuteranno accadimenti.
Conforme a tale concezione ecclesiologica è il contenuto della lettera inviata dall’arcivescovo di Milano Angelo Scola a don Giorgio De Capitani. Difforme a tale concezione è il pensiero del destinatario. L’arcivescovo ordina al sacerdote, per presupposta incompatibilità ambientale e in conseguenza di sopraggiunti limiti di età, il trasferimento da un borgo dei colli brianzoli, dove aveva implementato una viva comunità, a un altro. Don Giorgio contestando le motivazioni addotte nella lettera enuclea all’arcivescovo i motivi reali del ridimensionamento sociale del suo sacerdozio conseguente al trasferimento: una gerarchia ecclesiastica che difende il proprio primato su quello della persona, di tutte le persone, e punisce i disobbedienti alla linea imposta. La vicenda migra così dalla cronaca provinciale alla storia universale: due concezioni confliggono, quella dell’arcivescovo che, riferendosi alla tradizione, afferma di rappresentare Iddio in terra e quella di don Giorgio che, riferendosi ai Vangeli, vede invece il Soggetto (ogni soggetto) sovrano, ogni persona istituzione in sé, istituzione primaria che le altre istituzioni, ecclesiale in primis, dovrebbero valorizzare e servire invece di comandare. Posizioni contrastanti che evocano archetipi universali e esprimono paradigmi storici.
Avevo compreso anni fa la potenza dell’ “Istituzione del Soggetto” nel fuoriuscire dai Memores domini a freddo, rapido, senza preavviso, dopo una notte un po’ insonne dove, tirando onestamente le somme, avevo concluso che Comunione e Liberazione, i Memores, la Chiesa cattolica, e forse anche Dio, erano una invenzione umana, una cattiva idea.
Vi sono molteplici modalità per scioglere un nodo di quel tipo e io avevo - forse con poca fantasia - optato per l’uscita rapida, completa, definitiva, con sbattimento di porta. Il mio più alto responsabile nella piramide gerarchica don Giussani - ai tempi riferimento autorevole anche per l’allora don Angelo Scola – informato dell’ “evasione” in atto mi aveva telefonato mentre facevo le valigie per “ordinarmi” di raggiungerlo immediatamente. A suo dire non avrei potuto andarmene senza prima aver parlato con lui. Mi aveva fatto presente, preoccupato per me ed in perfetta coerenza con la sua concezione di Chiesa, che senza il suo beneplacito nel congedarmi dal gruppo monastico, non sarei più stato tranquillo nel rapporto con Dio. Potevo anche andarmene ma, per il mio equilibrio, solo nell’obbedienza (la recentemente lettera inviata da Scola a De Capitani testimonia la precisa e fedele impostazione ecclesiologica giussaniana dell’arcivescovo di Milano). Avevo risposto a don Giussani che non sarei andato da lui ma, se tanto ci teneva, avrebbe potuto venire lui da me. Così Giussani, che era uno con l’intelligenza rapida, aveva subito compreso che in quel mio disconoscere l’autorità che rappresentava non credevo più né a lui e - in coerenza con me stesso e la nostra storia - neppure al suo dio, così ognuno è andato avanti per la sua strada.
E’ stato facile andarmene. Solo un certo sconcerto per la spiazzante meraviglia nel constatare quanto fosse potente la facoltà di essere libero, di dire personalmente no a duemila anni di tradizione, di teologia e di potere dentro i quali mi ero liberamente infognato e che, per la medesima personale libertà-autorità, stavo abbandonando. Nessuno poteva far nulla per impedirmelo: l’istituzione-costituzione personale è primaria, inopinabile, più potente di tutte le altre. La scelta si è rivelata, negli anni a seguire, sana e proficua, eppure a Giussani una cosa la riconosco: ci metteva la persona, ci metteva la faccia, aveva gli attributi per condurre tali accadimenti in presa diretta, mai si sarebbe attardato a inviare una lettera-decreto ispirata al diritto canonico.
Un paio di scarpe. Reazioni.
Picasso nell’osservare “Un paio di scarpe” (Vincent van Gogh, 1886) annotava l’abilità artistica del pittore;
Heidegger scorgeva lo svelamento-incarnazione di un qualche Ente Universale,
Schapiro e Derrida – bisticciando con Heidegger – vedevano, il primo un autoritratto dell’Autore; il secondo un semplice paio di scarpe.
Derrida vede, dunque, questo:
dozzinalmente così:
e anche così:
mascalzone.