In un mio testo teatrale avevo scritto:
«Orfano scendo nella voragine, giù fino al lago di dolore, per contemplare i relitti che galleggiano nel silenzio. Nessun uomo, nessun animale, nessun dio. Là è il mio posto.»
«Nel profondo qualcosa manca» avevo poi scritto nella autobiografia e da lì mi ero attardato a raccontare. Il poeta aveva fatto di più:
«... Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!» (Clemente Rebora)
Schopenhauer annotava:
«Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento.»
(Il mondo come volontà e rappresentazione, § 38.)
“Nel profondo qualcosa manca”, ovvero sofferenza, permette Religione e una certa Estetica, ma nell’autobiografia non lo scriverei più, non perché ho trovato la “Cosa”, ma perché non credo più che ci sia. Roba de “La Settimana Enigmistica” con la vignetta mancante di qualcosa rispetto a un ipotetico Ideale in “Aguzzate la vista” e “Che cosa manca?”; con Mistero che si svela nel percorso ascetico di “Che cosa apparirà?” e “La pista cifrata”. Pseudo Oggetto, inutile Rebus, mero fantasma implementato da teorica mancanza che poggia, sprofondando, su rappresentazioni invece che su motivi.