Il barattolo
Amica, non ti avevo mai identificato con i pezzi anatomici che ti componevano e vedendoli oggi polvere in un barattolo so che non sei lì.
Ma allora dove sei? Non è plausibile l'esistenza di un demiurgo prestigiatore che fa apparire e scomparire le persone, forse più verosimile l’antica storia di un Creatore celeste, quel Dio che ficca le anime dentro un barattolo corporeo come cetrioli sottaceto, per poi aspirarle lassù quando il barattolo si rompe.
Basta con i barattoli! Amica cara, dimmelo tu di che sostanza siamo.
Deus ex machina
Le parole sono suoni pronunciati o rappresentati graficamente che previo accordo tra soggetti esprimono significati comprensibili in tale gruppo (lingua); formale circoscritta convenzione che si apprende al pari delle regole dello scopone scientifico[1].
Fin qui niente di trascendentale, ma appena un soggetto si attiva nell'unire parole (frase) entra in un regno altro tutto sostanza (linguaggio) nel quale è signore[2].
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1 Forse opportuno diffidare di coloro che equivocano una provvisoria limitata convenzione con un eterno dogma universale, accanendosi oltremisura contro chi sbaglia un congiuntivo.
2 Talora ricchi talora poveri signori.
Separazione
Anche noi come Dio nel racconto biblico della Genesi separiamo la luce dalle tenebre e le acque dalle acque. Lo abbiamo fatto appena dopo nati e replichiamo ogni notte quando nell’indistinto assoluto del sonno profondo iniziamo a sognare per poi svegliarci separandoci via, via, dall’Uno che tutto ingloba.
Probabilmente morire significherà ripercorrere la stessa via procedendo a ritroso, dal distinto all’indistinto.
Si esalta l’unificare eppure vita cosciente e creazione necessitano di scissione.
Epistemologia quotidiana
L’epistemologia normando metodi e condizioni per una conoscenza, per quanto possibile, precisa e certa, è intesa come filosofia della scienza, ma non sarebbe poi male che irrompesse nel quotidiano per riordinare tiritere d’impressioni da bislacche intuizioni, apoftegmi tutti urlati ma per nulla argomentati, problematiche mischiate senza esser demarcate con questioni equivocate perché non focalizzate, paradigmi detestati perché tutti travisati nello stupido supplizio del tiranno pregiudizio.
Tisana New Age
Talvolta la New Age somiglia a una tisana mal formulata[1], quei paciughi approntati con troppe piante mischiate a vanvera, ciascuna non sufficientemente conosciuta[2], ognuna in quantità deficiente per esplicare un’azione farmacologica nell’illusione che addizionando tanti frammenti di pochezza si produca ricchezza.
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1 Per tisana s’intende una miscela di erbe sminuzzate da utilizzare previa estrazione dei principi attivi con solvente acqua. Una tisana ottimale di norma contiene un massimo di 5-6 droghe differenti. Va ricordato che ogni droga può contenere differenti e complessi principi attivi e che l’azione farmacologica non è direttamente proporzionale al numero di droghe utilizzate. In linea di principio è opportuno utilizzare due o tre droghe base per la patologia trattata ad azione sinergica, una o due ad azione mirata per eventuali obiettivi secondari e una aromatizzante per “arrotondare” la miscela e/o per lenire eventuali effetti indesiderati delle droghe base. Suggerimenti si potranno ricavare da formulazioni tradizionali diffidando da quelle particolarmente complesse perché fondamentalmente scriteriate.
2 Per una buona formulazione è indispensabile una buona conoscenza farmacognostica delle droghe utilizzate per evitare antagonismi farmacologici. Nella formulazione e utilizzo delle piante l’operatore consapevole dei principi attivi utilizzati e delle loro attività farmacologiche potrà lavorare al meglio favorendo sinergismi ed evitando antagonismi. Comparerà le varie droghe sostituendo eventualmente quelle dannose perché tossiche o della quali è sprovvisto con altre tollerabili o aventi proprietà analoghe. Utilizzerà la stessa pianta per affezioni anche molto diverse. Potrà con criterio giudicare formulazioni proposte da terzi, scartando quelle improprie, scriteriate o dannose.
Domanda estiva a freddo
Mi hanno chiesto se credo in Dio e nella vita eterna. Ho risposto: «Non lo so», eludendo la domanda e deludendo gli interlocutori col mio (apparente) pilateggiare.
Il fatto è che nel confrontarmi con le concezioni più importanti e diffuse della tematica avverto consolatoria quanto ingenua quella platonica, concezione madre dei monoteismi che preferiscono un preconfezionato happy end invece d'indagare una verità plausibile, narrazioni che vedono l’anima personale iniziare un nuovo ciclo di vita col cessare del corpo.
Considero un vero e proprio atto di fede cieca la concezione atea materialistica, che sentenzia il cessare definitivo della persona con la morte del corpo, riducendo soggetto, vita e universo, alle limitate dimensioni, circoscritte categorie e parziali osservazioni empiriche, nelle quali ci muoviamo e delle quali disponiamo dalle nostri parti in questo tempo.
Forse meglio la terza via, quella orientale, così sintetizzabile: «Dove va la fiamma della candela quando si spegne? Non va da nessuna parte.» Concezione che possiamo interpretare negativamente considerando la realtà inesistente perché mera apparenza illusoria o, volgendoci a Ovest, positivamente, intendendo la realtà viva e continua nella totalità dell’essere: «L’essere non era né sarà ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo» (Parmenide). Non male e ne prendiamo subito nota, anche se il primato di tale impersonale entità eterna e onnipervadente dell’Essere - con l'articolo determinativo e in maiuscolo - annichilisce di fatto il soggetto (io, tu, egli), fagocitandolo al punto da renderlo impersonale e pure, di per sé, irreale. Non mi sembra un buon affare schiattare da subito, dissolvendomi nell'Essere, per lenire l’angosciante pensiero di doverlo fare tra un po’.
Il punto è che le tre concezioni operano all’interno di griglie concettuali umanamente commensurabili e accessibili, mentre quel “non lo so” prova invece a indicare senza pittoresche narrazioni antropocentriche, alla larga da frettolose ideologiche preclusioni ed evitando esotiche speculazioni da coprifuoco - sparate a vista sull’Io - la possibilità di paradigmi altri e oltre che al momento ignoriamo (agnostico deriva da ignoto).
Super Attak
Aveva ragione san Bruno quello dei certosini, per ben fare è opportuno dove e per quanto possibile collaborare con gruppi di poche persone, come facevano i raccoglitori e i cacciatori nomadi della preistoria. Se siamo di più oltre ad aumentare la probabilità d’incappare in qualche testa di k., di quelle che ne ne basta una per complicare la vita a cento prossimi, sarà pure d’obbligo inventarsi un qualche ideale imperativo con correlati riti, burocrazie e decreti applicativi, che faccia da collante, assemblante e sigillante tra gli appartenenti. Vale per i corposi gruppi di amici al bar, per i partecipanti alle radunate rock e per i cittadini dello Stato-nazione.
Da quanto ho potuto osservare 2 soggetti, stile relazione psicoanalitica, è il numero ottimale[1] per operare in libera e fruttuosa relazione; eccezionalmente 3, stile trinitario. Se in 4 già ci si invischia.
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1 beninteso, senza che nella relazione ci siano teste di k. presenti.
Da animali a dèi
Edito da Bompiani "Da animali a dèi - Breve storia dell'umanità" è un saggio del giovane storico israeliano Yuval Noah Harari che in 508 pagine, semplici, immediate e piacevolmente rapsodiche, espone la complessa storia dell’uomo dalle origini fino a ipotizzare un suo possibile futuro. La descrizione s’incardina, con taglio divulgativo storico, antropologico, biologico, geografico, politico, psicologico e sociologico, sugli snodi rivoluzionari che nel volgersi del tempo hanno caratterizzato Homo sapiens differenziandolo, nel bene e nel male, dagli altri animali, incluse le differenti specie di Homo che vivevano in un tempo remoto anche coeve ai sapiens - come la specie neanderthalensis -, che se non si fossero estinte avrebbero problematizzato alla radice qualsiasi idealismo antropo-sapienscentrico.
Harari interpreta cruciale la remota rivoluzione agricola, grazie alla quale i sapiens, da raccoglitori di vegetali spontanei e cacciatori di animali selvatici, iniziarono a coltivare ed allevare formando, grazie alle maggiori risorse alimentari ottenute, gruppi con un numero sempre maggiore di individui. Comunità con numero sempre più alto di appartenenti non solo a seguito di maggiori disponibilità di cibo, ma soprattutto grazie alla coesione del gruppo conseguente alla peculiare capacità di immaginare astrazioni condivise: fantasie, miti, abbozzi di religioni e correlati linguaggi. Costrutti che vanno dal primitivo animismo al coniare moneta fino alla costituzione di società per azioni nei nostri giorni, tutte entità irreali nella sostanza - meri arbitri condivisi - eppure efficacissime ed efficientissime nell'ordinare e normare le relazioni umane. Costrutti astratti che portano, via, via, l’umanità al successo planetario, ma anche a problematiche ed effetti collaterali deleteri, sia nel rapporto dell’uomo con la natura a seguito dello smisurato sfruttamento delle risorse (tuttavia secondo l'Autore non esauribili grazie a quanto può fornirci il cosmo e al progresso scientifico), sia per la sofferenza procurata agli altri animali, sapiens compresi: massacri e genocidi tra uomini sono una costante storica.
Tale antropocentrica impostazione dettata da credenze, più o meno condivise, pur permanendo fino ai nostri giorni muta con l’avvento della rivoluzione scientifica, nella quale Homo sapiens passa dall’interpretare e conformare l’universo alle proprie pregiudiziali congetture al riconoscere di non sapere, quindi ad indagare la realtà per ciò che realmente è. Processo che conduce ad una inedita accelerazione di scoperte e produzione, poi culminate nella rivoluzione industriale e in seguito in quella tecnologica e nelle plausibili ipotesi di futuri prolungamenti della durata dell’esistenza individuale, con colonizzazione di altri mondi e possibili creazioni di inedite specie di uomini un po’ organici un po’ bionici, con performance crescenti grazie all’implementazione anabolizzante di intelligenza artificiale.
Siamo numerosi e viviamo di più ma ne è valsa la pena? L’uomo è stato felice? E’ felice? Sarà più felice? L’Autore verso la fine del libro sospende l’asetticità dello storico per proporre un’etica della misura, dove in chiave buddista invita ad un meditato distacco dalle personali ambizioni antropocentriche e dai piaceri illusori. Una sorta di pacata rassegnazione nell’accettazione della parzialità e provvisorietà dell’uomo nel cosmo.
Il libro tanto ricco di spunti stimolanti e di analisi spiazzanti - seppur non inedite, in quanto già illustrate e storicamente affrontate dalla filosofia - con, tra le righe, un coinvolgente humour tragico, porta il lettore a domandarsi: «Ma com’è potuto accadere che questo gruppo di strane scimmie denominate Homo sapiens, alle quali l'Autore del saggio appartiene rappresentandole, abbia potuto raggiungere tale livello di pensiero e di parola?» Harari non spiega l'origine di tale potere, limitandosi a un pittoresco e un po’ ingenuo constatare materia grigia che casualmente inserita in particolari crani sputa fuori, attraverso specifiche sinapsi, pensiero cosciente e appercettivo. Il problema permane aperto.
Dozzinale ebbrezza
E’ arrivata l’estate, lo scirocco rovente e le conviviali cene a raffica con numerosi conoscenti e amici. L’ordinario eremitaggio, tipico di chi vive dalle mie parti, è invaso da Primitivo del tarantino e tante chiacchiere, e va bene così. La situazione si complica quando dalla cicalata si prova a dialogare in quanto, a differenza dello sparare minchiate alimentate da Primitivo DOC, il dialogo necessita di alcune regole:
1 conoscenza del significato di tutte le parole che diciamo e ascoltiamo;
2 assemblaggio (costruzione della frase) preciso, in modo che esprima il significato di ciò che pensiamo (se pensiamo) e in tale costrutto monitorare in tempo reale la conoscenza del significato dei termini utilizzati, sia da parte di chi dice, sostituendo lemmi perfetti con termini comprensibili a tutti anche se meno precisi, sia di chi ascolta interrompendo l’eloquio altrui nel caso questo utilizzi termini non chiari;
3 consapevolezza del personale paradigma dello stare nel mondo (weltanschauung) cogliendo nel contempo quello dell’interlocutore, così da evitare equivoci e creare ponti;
4 non invadere il parlare altrui con interruzioni ingiustificate e saper concludere il proprio dire per lasciare spazio all’altro;
5 permettersi delle reciproche brevi pause di silenzio così da riflettere e anche per respirare.
Ottemperati i 5 punti metodologici è pure necessario aver qualcosa di interessante da dire. Roba da refettorio benedettino, forse meglio lasciare le cose come stanno.
Iperbole
Nel ruminare parte della filosofia di Fichte e di Schelling e alcuni passaggi di quella di Hegel, mi era venuta addosso una tristezza plumbea e un po’ d’asfissia, per la sensazione di trovarmi in una casa con specchi al posto delle finestre. L’idealismo tedesco nell’intento di superare la concezione kantiana della “cosa in sé” (dogma del mondo-natura), ha gonfiato il pensiero umano fino al punto da porlo a fondamento assoluto della realtà universale: prima l’Io da qui tutte le cose, assolutizzazione tanto audace e paradossale oltre i limiti del verosimile, che per reggere necessitava di argomentazioni davvero complicate, quasi astruse. Per dominare l'angoscia di morte e anche di vita derivante dai limiti e dalla parzialità dell'Io si è disposti a tutto. Anche per Kant l’ “io penso” del soggetto era atto ordinante e legiferante la realtà oggettiva, tuttavia in tale processo il mondo e la natura auto sussistevano per forza intrinseca, indifferenti all’osservatore di turno.
A ben vedere la concezione dell’Io-Coscienza di Fichte e Schelling creante e strutturante l’intero universo - a modo suo presente anche nel loro "nemico", eppure anch’egli idealista (il mondo è una mia rappresentazione) Schopenhauer - era stata proclamata ben prima da alcuni filoni speculativi d’Oriente, mi riferisco all’Advaita Vedanta dove la Coscienza del cosiddetto Sé, sorta di Io assoluto per certi versi simile al Noûs che dalle nostre parti caratterizzava antiche cosmologie, faceva il mondo. Entità che però era vista, seppur onnipervadente, impersonale. Concezione che non implicava, dunque, il rischio di possibili totalitarismi storici prodotti da ipertrofici Io (divini o umani). Differenza non secondaria in quanto non possiamo escludere che, in Occidente, tra le concause degli sfaceli del Novecento alberghino anche prassi scaturite da bislacche interpretazioni dell’idealismo tedesco.