Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Trasmutazione demiurgica
Il pensiero che produce concetti inediti utilizzando necessariamente quelli conosciuti, assomiglia al processo della chimica di sintesi che dalle sostanze esistenti ne fa di nuove.
In entrambi i casi si parte da ciò che c’é ottenendo ciò che non c'era, nuovo esistente col quale possiamo realizzare un ulteriore inedito.
Esagerato definirla creazione, nondimeno ingeneroso giudicarla trasformazione: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, qualcosa si trasmuta.
Prodezze
Ci sono cose, sia materiali, sia spirituali, che erigiamo con impegno, altre che cerchiamo o incontriamo nel loro accadere. Talvolta ci piacciono così come sono, talora le modifichiamo, a volte le rifiutiamo o combattiamo. Nel movimento esistenziale che combina la personale volontà con l’accadere del mondo molto possiamo costruire, plasmare e ordinare, ma quote di inevitabile, di irrisolvibile e di impossibile permarranno gloriose. Queste percentuali immodificabili che incontriamo qua e là tenderanno ad espandersi fino diventare un tutto, visto l’inesorabile epilogo che determina i mortali.
Eppure non è detta l’ultima parola, permane ancora una possibilità nell’impossibilità: possiamo accettare. Dopotutto la pacata, consapevole, accettazione dell’irrisolvibile è forse tra gli atti umani più attivi e coraggiosi, mentre l’arrabattarsi a oltranza per resistervi è forse tra i più statici, sicuramente tra i più umoristici.
Percezione
Un credente può vivere la sua esistenza percependo di essere costantemente visto da Dio e l’ateo no, vivranno sullo stesso pianeta ma in mondi differenti. Gli innamorati si guardano negli occhi, l’oculista lo fa con maggior precisione ma vede tutt’altro. Il processo del percepire è cruciale perché meeting point di me e mondo.
Anche se si può benissimo vivere senza investigare il personale atto percettivo, una sua accurata indagine potrebbe evitarci appuntamenti al buio con tutti i rischi del caso. Possiamo indagare da soli ma non è male attingere stimoli e dritte dalle discipline filosofiche, Kant al riguardo è stato tra i pensatori più puntuali stimolando la ricerca di tanti altri. Portanti anche le discipline psicologiche a iniziare dalla Gestaltpsychologie, psicologia della forma e della rappresentazione. Percepiamo oggetti materiali, corpi umani a iniziare dal nostro, oggetti mentali e spirituali e anche un mix di tutto questo che produce campi con dentro più della somma dei singoli fattori.
Il problema è che l’atto elementare che afferma: ecco la cosa, è adesso qui data esattamente così, potrebbe rivelarsi un approccio ingenuo perché percependo scegliamo le forme del percepito (delineamento), afferrandone alcune ed escludendone altre; giudichiamo il dato arbitrariamente percepito attribuendogli personali gradi di importanza, realtà e valore; con forbici e martello lo collochiamo in un sistema che abbiamo già costituito e lo interpretiamo attraverso la memoria di quanto già percepito, credenze incluse. Basta un momento di distrazione per equivocare la percezione -per Kant “rappresentazione con coscienza”, processo a priori insito in noi- con la sensazione e anche con l’emozione che a differenza del processo percettivo che cerca di vedere la cosa, modificano noi stessi stimolati da ciò che percepiamo per come lo percepiamo, distorsioni comprese. Insomma rappresentiamo il mondo (Schopenhauer) e rappresentarlo -oltreché nel significato di interpretarlo anche in quello di messinscena- è un po' rifarlo
Vecchio sestante
La percezione dello stesso oggetto in questo preciso momento -oggetto Mondo incluso- non è uguale per tutti.
Il concetto del “Qui e Ora” che l’io escogita nell’ingenua credenza di porre coordinate che fissino un punto spazio temporale stabile e univoco nel quale accadono le medesime precise cose, apre invece all'esatto opposto.
Tutti fratelli?
Ci sono persone che immediatamente vediamo e sentiamo nell’istantanea percezione che afferma: sì è proprio lui. Un Tu inconfondibile e indubitabile che s’impone.
Ci sono altre persone che sono meno percepibili, si scorge la silhouette ma anche se palpiamo i loro corpi in tutte le parti permangono entità generiche. Se gli guardiamo dentro gli occhi riteniamo plausibile che ci sia dentro qualcuno, ma quel quid permane nebuloso, un noumeno irraggiungibile.
A me talvolta accade questo azzeramento ontologico dell’altro e non so perché. So però che dipende da me, non da lui.
La via stretta
Abbiamo in noi mondi d’incontenibile magma incandescente con paradisi che sono inferni e inferni che sono paradisi, territori dove male e bene sono un tutt’uno. Universi di fuoco, acqua e vapori esplosivi dove passato e presente sono la stessa sempiterna cosa.
Niente di pericoloso, basta un istante per uscire da quel fluttuare caotico e tornare in questo mondo in compagnia degli altri, qui dove c’è casa, dove c’è ieri, oggi e domani, qui dove una logica regolatrice condivisa da il nome alle cose. Ma a ben vedere in questo più rassicurante mondo della storia, sotto, sotto, siamo mossi dalla brace di quell’altro mondo di fuoco e se ne perdiamo il contatto il sangue ci si ferma nelle vene.
Occorre l’abilità e il coraggio di camminare sullo stretto crinale che da una parte percepisce l’universo di fuoco e dall’altra il mondo degli uomini, così da non impazzire aspirati da quel fuoco, così da non farci appiattire da questo mondo.
Prove generali di rifidanzamento
Dopo mesi che insistevo sulla problematica stavo realizzando d’essermi compulsivamente fissato sulla cosa, specialmente dopo qualche occhiata tra il perplesso e l’indifferente di chi vive con me, ma leggendo Löwith che affronta Nietzsche[1] vengo informato che il problema è «infinitamente importante», sorta di laico nulla osta a non mollare l’osso.
La problematica -a chi piacciono queste cose- è nota: la natura è causa di sé e insieme inconsapevole di sé, indicibilmente prima e oltre ogni umano aggettivo -"consapevole"/"inconsapevole" inclusi- che proiettiamo arbitrariamente addosso a una natura che si muove autonoma in tutt’altri paradigmi e regni. Sprovvista di coscienza, intendimento e volontà, la natura funziona obbedendo a necessarie leggi autodeterminanti e cicliche, mentre noi provvisti di autocoscienza, intendimento e volontà, sembra possiamo muoverci più liberamente sporgendoci dal ciclico meccanicismo naturale.
Nella storia della filosofia qualcuno, di quelli bravi, afferma che anche noi siamo natura e non possiamo sporgerci per niente da essa e, dunque, il libero arbitrio è un’ingenua credenza. Altri, non meno bravi anche se forse un poco esaltati, sostengono all’opposto che possiamo sporgerci del tutto al punto da determinare finanche ontologicamente la realtà naturale. Numerosi altri filosofi, per nulla brocchi, dicono che possiamo sporgerci giusto un po’. La problematica mi sembra importante perché se siamo liberi -anche solo un po’- senza che esista un libero Creatore che ci ha fatto a Lui somiglianti, occorre indagare da dove proviene questa nostra libertà che la natura non contempla.
Del sovrannaturale diffido e che ci sia un Creatore non lo so, so però che l’umana libertà, se c’è, è un indizio in tal senso, a meno che questa libertà sia in qualche modo già presente nella natura stessa e da essa la ereditiamo. Se così fosse dovrebbe essere possibile superare la separazione necessità/libertà, ma se provo a unificare i due regni l’esperimento mi funziona solo per cinque minuti mentre curo piante officinale dimenticandomi di me, o quando digerisco spontaneo le orecchiette con le rape senza che conosca l'ABC della gastroenterologia. Per tutto il resto del vivere reale in questo mondo: relazioni, morale, storia, società, diritto, politica, lavoro, ecc., poggio tutto su quell’umano artefatto che chiamiamo cultura (linguaggio espresso dalle parole in primis) e i regni dell’umana libertà e della naturale necessità permangono perlopiù separati. C’è qualcuno che ha provato a unificarli completamente e stabilmente senza tirare in ballo Dio? Tale unificazione sarebbe prova convincente della sua inesistenza. Löwith ci illustra che Nietzsche ci ha provato: «Il suo “Ego” [libertà] diventa per lui il “fato”[necessità] nel senso cosmico (equazione di "Io" e “Natura”, Schelling). Per la sua natura e la sua origine, l’uomo non è una creatura extramondana, bensì un fanciullo cosmico eracliteo, che in quanto tale partecipa, sia distruggendo che costruendo, al gioco creativo del mondo».
E’ la mistica dell’ “Io Sono” nella quale Nietzsche proclama la danzante, caotica, potenza dionisiaca, mentre Löwith coglie la potenza ordinata: anche la danza più sfrenata, se è danza, ha le sue regole e misure. Prospettiva affascinante quella di Nietzsche, ma mi sembra che un punto, non da poco, rimanga in sospeso ed è questo: il fanciullo cosmico eracliteo, tutto sommato entità determinata da primitività, potrebbe vivere in questo nostro mondo presente? Potrebbe relazionarsi con gli altri? Potrebbe interagire con le numerose e differenti identità e ruoli che di volta in volta costruiamo e abbracciamo per vivere in questo mondo complesso (identità sociale, professionale, ecc.)? Potrebbe essere sì una sorta di sostrato primario identitario che un qualche eremita immerso nella natura vive in presa diretta in un «rifidanzamento col mondo» grazie alla morte di Dio, vale a dire ritornando a, e ripartendo da, prima della sua invenzione implementata da Homo sapiens, ma inadeguato a diventare protagonista in questo mondo attuale che sarà poca cosa, ma è quello che abbiamo. Plausibile che lo rinchiuderebbero, e con buone ragioni non perché è nudo ma perché non sa quello che fa, il fanciullo cosmico eracliteo se si aggirasse per le nostre piazze. E se non si aggira nelle nostre strade perché è un dio, sarebbe davvero fragile l’operazione di Nietzsche che accoppa Iddio per metterne un altro riciclando un Gesù bambino un po' più scavezzacollo. Così la separazione fra Io e Natura permane, la possibilità di un Dio creatore (che sanerebbe la separazione) anche.
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1 Karl Löwith, “Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche”, VIII. Il tentativo d Nietzsche di riguadagnare il mondo, Curatore Orlando Franceschelli, Donzelli.
Pompe
Quattro ossa nel mausoleo tali rimangono e più la scatola è maestosa e imponente più dice, suo malgrado e non senza humour, la pochezza del suo contenuto effettivo.
Van messe nella terra perché si trasformino in nuove strutture e costituzioni. Da vivi, intendo.
Il Verbo si fece carne
Può apparire strano ma non poche religioni e tradizioni spirituali giudicano la circostanza di essere persona di questo mondo un incidente di percorso, una caduta procurata da precedenti malefatte personali (karma), o da misteriose ancestrali colpe geneticamente trasmesse (peccato originale). Per numerose concezioni, sia nostrane, sia orientali, l’essere nati, albergare in un corpo, disporre di individualità (handicap perlopiù rilevato dalle religioni e dalle filosofie orientali), è un ruzzolone dove l’unico vantaggio del momentaneo soggiornare in questa valle di lacrime che chiamiamo mondo, è quello di voler liberamente rinunciarvi con ferma volontà, così da ascendere più rapidamente possibile nel posto dal quale eravamo venuti («Attendo una tal alta vita, che muoio perché non muoio», Santa Teresa D’Avila). Nel cristianesimo in un paradiso o in nuove terre e cieli, con l’io integro e pimpante; nelle religioni orientali in un nirvana dove l’io scompare fondendosi con l’Assoluto.
Il punto è che entrambe le concezioni sentenziano che non conviene essere uomo in questo mondo, ma il cristianesimo chiede un discorso a parte per il colpo di scena di una divinità che sceglie, invece, di esserlo. Da una parte, anche nel cristianesimo, l’avvenimento dell’incarnazione di Dio conferma il suesposto svantaggio d'essere uomo, visto che Dio nella sua infinita misericordia raggiunge le creature svuotandosi della propria divinità -kenosis dicono i teologi- per entrare corporalmente nel mondo, così da salvare i disperati che ci vivono sopra. Dall’altra, però, -e qui sta la differenza tra il cristianesimo e le altre religioni- l’incarnazione di Dio eleva all’istante l’individualità di ogni uomo e dunque della storia e della civiltà. Per certi versi il cristianesimo è l’unica religione che afferma la convenienza, finanche il privilegio, di essere uomini, per l’evidenza che Dio ha voluto esserlo venendo al mondo. Non a caso la visione cristiana a differenza delle altre ha stimolato un antropocentrismo spinto, con tutte le problematiche storiche, ma anche i vantaggi, che questa elevazione di homo sapiens ha comportato. Le radici di questa esaltazione dell’uomo e della sua civiltà attivate dal cristianesimo le troviamo in Agostino, ma Hegel si è spinto forse oltre. L’idealismo filosofico che ha esaltato l’umano pensiero fino a negare l’esistenza autonoma della realtà, è germinato e ha attecchito nel milieu religioso della tradizione cristiana. Karl Löwith, lucidissimo al riguardo, così illustra ed elabora la tematica:
«Nella filosofia della religione di Hegel, in realtà, si tratta innanzitutto di concepire la dottrina dell’incarnazione di Dio, poiché questo dogma si tocca direttamente con la metafisica hegeliana dello spirito finito e infinito. Dio è spirito e solo nello spirito può essere concepita la sua verità; per essenza l’uomo è parimenti spirito e perciò si trova in una relazione essenziale con Dio. Dio e uomo sono in relazione l’uno con l’altro, laddove la natura non ha un proprio rapporto con lo Spirito concepito come Assoluto. […] Ad una simile visione dello spirito quale “vertice” della soggettività, ad un simile far culminare l’universale, infinito Spirito divino in un unico soggetto, è giunto, però, solamente il cristianesimo. […] Il “rovesciamento” rivoluzionario operato dal cristianesimo consiste nel fatto che l’uomo non è considerato più come un essere che fa parte del cosmo e che, a differenza degli dèi immortali, è un essere mortale, piuttosto: è proprio il divino ad essere collocato al vertice della soggettività e Dio stesso ad assumere una natura umana». […] Dal momento che Dio si è rivelato in un singolo uomo storico, è diventato palese l’immane paradosso che non solo Gesù Cristo, ma l’uomo in generale ha una natura divina, che natura divina e natura umana nella loro essenza sono identiche: una identità dialettica, in cui Dio trova nell’uomo la propria autocoscienza»[1].
Potente (forse troppo) anabolizzante dell’io umano, roba pericolosa che potrebbe fare male. Ma, sul punto, la singolarità del cristianesimo rispetto alle altre religioni e spiritualità mi sembra, nel bene[2] e nel male[3], inoppugnabile.
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1 Karl Löwith, “Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche”, Curatore Orlando Franceschelli, Donzelli, pagg. 93-94.
2 Ci sarebbe scienza senza una quota di antropocentrismo?
3 Lasciamo il giudizio a Löwith: "Palese immane paradosso".
Proposta di abrogazione
Non sempre le parole fanno bene il loro mestiere, consideriamo gli aggettivi Credente, Devoto, Religioso, Miscredente, Ateo, Irreligioso.
Ogni volta che si utilizzano poco determinano e molto scombinano di ciò che vogliamo dire, se non accompagnati, di volta, in volta, da una minuziosa spiegazione e precisa contestualizzazione. Visto che il compito loro lo dobbiamo svolgere noi, a questo punto abroghiamoli.