Un credente può vivere la sua esistenza percependo di essere costantemente visto da Dio e l’ateo no, vivranno sullo stesso pianeta ma in mondi differenti. Gli innamorati si guardano negli occhi, l’oculista lo fa con maggior precisione ma vede tutt’altro. Il processo del percepire è cruciale perché meeting point di me e mondo.
Anche se si può benissimo vivere senza investigare il personale atto percettivo, una sua accurata indagine potrebbe evitarci appuntamenti al buio con tutti i rischi del caso. Possiamo indagare da soli ma non è male attingere stimoli e dritte dalle discipline filosofiche, Kant al riguardo è stato tra i pensatori più puntuali stimolando la ricerca di tanti altri. Portanti anche le discipline psicologiche a iniziare dalla Gestaltpsychologie, psicologia della forma e della rappresentazione. Percepiamo oggetti materiali, corpi umani a iniziare dal nostro, oggetti mentali e spirituali e anche un mix di tutto questo che produce campi con dentro più della somma dei singoli fattori.
Il problema è che l’atto elementare che afferma: ecco la cosa, è adesso qui data esattamente così, potrebbe rivelarsi un approccio ingenuo perché percependo scegliamo le forme del percepito (delineamento), afferrandone alcune ed escludendone altre; giudichiamo il dato arbitrariamente percepito attribuendogli personali gradi di importanza, realtà e valore; con forbici e martello lo collochiamo in un sistema che abbiamo già costituito e lo interpretiamo attraverso la memoria di quanto già percepito, credenze incluse. Basta un momento di distrazione per equivocare la percezione -per Kant “rappresentazione con coscienza”, processo a priori insito in noi- con la sensazione e anche con l’emozione che a differenza del processo percettivo che cerca di vedere la cosa, modificano noi stessi stimolati da ciò che percepiamo per come lo percepiamo, distorsioni comprese. Insomma rappresentiamo il mondo (Schopenhauer) e rappresentarlo -oltreché nel significato di interpretarlo anche in quello di messinscena- è un po' rifarlo