Posto che mentre arriva il metrò uno sconosciuto ci spinge sotto:
nel monitorare il folle abbiamo conferma della sovranità del soggetto e nello sfracellarci che tale sovranità è uno sbilenco idealismo ottocentesco.
Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico
Posto che mentre arriva il metrò uno sconosciuto ci spinge sotto:
nel monitorare il folle abbiamo conferma della sovranità del soggetto e nello sfracellarci che tale sovranità è uno sbilenco idealismo ottocentesco.
Mia madre era morta tragicamente, ricordo che frammista a sofferenza mi albergava dentro un’inopportuna euforia. Per spiegarmi la stranezza avevo ipotizzato un sentimento di liberazione dalla figura materna che, sebbene censurato, emergeva.
Ieri leggendo Karl Jaspers ho visto meglio: l’incomprensibilità, l’incontenibilità, il sentirsi sotto scacco e senza rete procurati da situazioni estreme (situazione limite) coincide col simbolico irrompere di una dimensione Altra e Oltre drammaticamente epifanica, tragica quanto salvifica. Jaspers la definiva "cifra del trascendente”.
Non so se c’è un regista che la dirige, ma so che è meglio stipulare alleanza con tale cifra che porre resistenza.
Nella penultima frazione della sua esistenza era occupato ad aggiustare qualche faccenda, anche se al termine dell’ultima frazione sarebbe comunque morto e quelle faccende, rotte o riparate, non lo avrebbero più riguardato.
E’ che gli garbava raggiustarle. In quel piacere in presa diretta c'è qualcosa di eterno.
Siamo in attesa dello scienziato che analizzando un sasso di Auschwitz e uno di Disneyland oltre alle differenze mineralogiche ne scoprirà di altre.
L'empatia caritatevole verso chi ha subito un accidente, prima che faccenda etica è atto logico visto che potrebbe capitare lo stesso anche a noi.
Festeggiava l'undicesimo compleanno con gli amici davanti a un videogioco. Nel guardare il monitor ci capivo poco anche se le scritte che comparivano erano chiare: “Uccidi quei bastardi”, “Bravo! Lo hai annientato”. I ragazzi governavano auto velocissime con una disinvoltura che se replicata sulla Provinciale 106, del nostro mondo, produrrebbe frittate a raffica, ma siccome tutto accadeva dentro il monitor e il nostro mondo permaneva indenne, nell'osservare i due differenti reami e le rispettive giurisdizioni ho avuto la plastica esperienza di cosa sia un paradigma in filosofia e anche in sociologia:
circoscritto sistema concettuale che se abbracciato e vissuto è percepito, all’interno della sua architettura, regno universale. Per certi versi paradigma è sinonimo di narrazione per il potere di quest’ultima di creare mondi.
Ne consegue che ogni paradigma andrebbe individuato distinguendolo dagli altri, in modo che quelli che ci albergano dentro ne prendano coscienza così da comprendere il proprio e, in tale consapevolezza, quelli di altri, giusto per capirsi e evitare frittate (reali).
“Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose”.
Integrerei:
ma conquistato un soddisfacente cambiamento non possiamo pretendere di goderlo, se smettiamo di fare la stessa cosa.
L’imprenditore italiano ha un socio che paga per intralciargli il lavoro con aggiunte superflue e trovate kafkiane, si prende la metà degli utili e se si alza storto sanziona a capocchia chi gli capita a tiro. E’ proprio pazzo ma obbligatorio. Dove potrebbe fare qualcosa di utile il più delle volte è fuori stanza. Il fatto è che metà Italia si alza la mattina per lavorare e l’altra metà per rompergli i coglioni pagata dalla prima.
Una buona soluzione potrebbe essere quella di uscire dalla ‘sta malata giurisdizione per darsi al Tao. Lo faremmo in molti se non fosse che immersi nell’indifferente universo nella semplicità assoluta dell’essere ci annoieremmo di brutto.
Si fa presto ad affermare il dogma dell’esperienza veritiera data dalla conoscenza diretta della realtà di fatto, ma a ben vedere la nostra percezione sarà in parte condizionata da preconcetto, illusione, rappresentazione, proiezione, interpretazione, introiezione, fagocitazione dell'oggetto col quale ci rapportiamo o del soggetto altro con il quale ci relazioniamo. Una quota di falsificazione è inevitabile.
Anche l’esperienza personale in presa diretta poggia in parte su un prestabilito “per sentito dire” che diciamo a noi stessi. Peccato originale per il privilegio di essere soggetti che gli oggetti non ereditano. Siccome meglio essere soggetti che oggetti non male se esistesse un qualche battesimo che con efficacia ci purifichi dal filtro del pregiudizio, nel frattempo sprovvisti di acqua benedetta meglio che il personale pregiudizio sia riconosciuto e monitorato. Per prendere reale contatto col fattuale aiuta il diffidare di sé. Almeno un po'.
La pratica di meditazione del fermare il pensiero è roba New Age che riesce bene solo ai cadaveri. Le filosofie orientali invitano sovente a tutt’altro, a una sorta di pensiero universale tanto focalizzato e istantaneo da risultare onnisciente, ci avevo provato anch'io ma non ne ero stato capace. In ogni caso onniscienti o insipienti, a Oriente come a Occidente, consapevolmente o inconsapevolmente, pensiamo incessantemente. Leibniz definiva i pensieri inconsapevoli "percezioni insensibili" o "piccole percezioni".
Invece di uno stentato contrastare la spontanea e continua attività del pensare, o di ignorarla, forse meglio avere coscienza dei contenuti che esprime nel suo moto naturale e costante per percepirli e comprenderli anche nelle più piccole espressioni. Quando belle e utili meglio catturarle appuntandole sul taccuino perché tendono a scappare sciogliendosi come neve al sole. Gli onniscienti sono esonerati dal prendere appunti.
Copyright ©2012 brunovergani.it • Tutti i diritti riservati