Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Il Dio della Cosmogenesi
Fratello ateo nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino.
(David Maria Turoldo)
Da Gabrielli Editori nell’opera collettanea “Il cosmo come rivelazione”, è pubblicato il breve scritto “Il Dio che sorge nel processo della Cosmogenesi” del brasiliano Leonardo Boff, teologo conosciuto per essere stato tra i padri fondatori della teologia della liberazione e in seguito dell’ecoteologia, dimostrando la stretta e diretta relazione tra degrado della terra e ingiustizia sociale. Ex francescano, ex presbitero. Per comprendere l’incompatibilità delle sue concezioni teologiche con quelle della Chiesa cattolica romana utile leggere la Notificatio de scripto a firma dell’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Joseph Card. Ratzinger, qui il documento.
Boff nel suo intervento, di una ventina di pagine, coniuga alcune concezioni teologiche alle nuove scoperte cosmologiche, in particolare alla energia cosmica di fondo, quella radiazione elettromagnetica che permea tutto l’universo scoperta lo scorso secolo; radiazione che prova la teoria dell’espansione delle galassie e il modello del Big Bang, del quale la radiazione cosmica di fondo è l’attuale residuo visibile. Energia “potente e amorevole” soggiacente a tutto l’esistente in perenne aperto movimento (cosmogenesi, antropogenesi, in corso d’opera). Energia che le tradizioni religiose hanno denominato Dio e Boff interpreta come “Vuoto gravido”, ossimoro che rimanda all’indicibilità di Dio, “utopia suprema”. Forza ineffabile ma dagli effetti ordinatissimi che rimandano a loro volta all'ordine supremo dal quale provengono, a un “Tutto al di là delle parti” che attraverso il Big Bang (13, 7 miliardi di anni fa) ha prodotto entità interconnesse in moti ordinati e costanti. Boff argomenta che se prima del Big Bang c’era il nulla, trova senso il racconto della creazione, la prova che l’universo abbia avuto un inizio e si stia espandendo è data dallo spostamento verso il rosso dello spettro delle galassie; il viraggio purpureo delle galassie non l’abbiamo forse mai visto, ma se la comunità scientifica lo ha riscontrato e pure il teologo conferma ci fidiamo. Leonardo Boff partendo dalla circostanza che l'universo e le sue leggi sono compatibili con l'esistenza umana, scorge una direzione nel funzionamento cosmico che dall'inorganico passando all'organico ha prodotto (e produce) vita sempre più complessa, fino alla formazione dell’essere umano. In effetti sarebbe bastato un nonnulla perché non fossimo mai esistiti (principio antropico). Siamo frutto della terra che rende la terra cosciente del suo esserci. Poggiando su questa interconnessione, su questa “Relatio Matrix” divenuta cosciente di sé, Boff propone l’etica di una fraternità cordiale, “ragione sensibile e cordiale” con tutto, in quanto una ecologia profonda vede dimorare nel nostro cuore e in quello del cosmo lo stesso Dio, cuore universale testimoniato da Cristo. “Abbracciare il mondo significa abbracciare Dio, il quale si nasconde ed emerge in ogni essere”.
Il tentativo di Boff di armonizzare le nuove scoperte scientifiche con la teologia genera una visione rassicurante, nel solco di papa Francesco addirittura festosa, che rende il cosmo amico e libera tratti della rivelazione cristiana da interpretazioni dottrinali asfittiche. Operazione questa che, seppur tortuosa e intermittente, affiora nella storia della Chiesa, consideriamo tra i numerosi esempi la “causa prima del movimento” indagata da Tommaso d'Aquino, ex parte motus che oggi potremmo chiamare energia cosmica di fondo. Lecito questo processo di accordamento tra scienza e teologia, oppure sono strumenti del tutto inadatti per suonare insieme? Per quanto ho letto l’accordamento è possibile a patto che non si snaturino gli strumenti per farli suonare insieme, forzatura che mi sembra Boff rischi talvolta di fare. Si fa presto a dire scienza, ma non va dimenticato che prestigiosi scienziati rabbrividirebbero di fronte alle elaborazioni di Boff. Deleterio quando scienza e teologia si azzerano vicendevolmente, proficuo invece il dialogo, ma dialogo non significa compenetrazione omogeneizzante. Una certa autonomia dei saperi è forse conveniente conservarla, evitando appropriazioni indebite con espropriazioni spinte dal campo altrui per fertilizzare, con anabolizzanti impropri, il nostro terreno. Peraltro un conto sono gli specifici modelli cosmologici, altra cosa è il parere unanime della comunità scientifica, la scienza per di più procede con scoperte tanto rapide e numerose, quanto provvisorie, da rendere affannoso ogni rincorrerla. Negli ultimi settanta anni la cosmologia ha teorizzato decine di modelli differenti di universo, se fossi Dio ad ogni nuova conformazione della mia persona all’ultimo modello latrerei dall’alto: “Ma per chi cavolo m’avete preso !”
Liturgie americane
Miriam Therese McGillis, suora domenicana statunitense, ha ideato un rituale che narra e proclama la timeline dell’universo, dal big bang a noi. Ritualità interessante anche se marginale quella della suora, perché procede contemplando e concelebrando l’evoluzione cosmica senza far riferimento a rivelazioni divine o a tradizioni sapienziali, ma proclamando -con non poca prolissità- dati scientifici. In seguito sono nate diverse e più aggiornate versioni del rituale, un esempio lo possiamo vedere qui. I partecipanti concelebranti si immergono nella sacralità dell'universo naturale, un po’ come in una cerimonia sciamanica, sostituendo però i racconti produttori di cosmogonie, tipiche dello sciamanesimo, con dati scientifici.
Celebrazione che si regge, quindi, su una singolare miscela di aspetti scientifici e sciamanici, così da rendicontare l’evoluzione naturale dell’universo con dati certi (anche se provvisori, come la scienza ci insegna), provando nel contempo a scorgere la forza spirituale che sostiene e dirige l'universo. Partendo da dati scientifici dimostrabili si tende a cogliere nel visibile, organico e inorganico, un segno dell’invisibile. Per questo la suora ha imbastito una liturgia che, seppur minimalista, favorisca la personale e intima esperienza con quel mistero che regge e muove le cose. Minimalismo da apprezzare, in fondo più le coreografie sono pirotecniche, gli abiti di scena vistosi, le allegorie gagliarde e più la messinscena dice l’inconsistenza ontologica di ciò che intende evocare. L’inesistente per apparire reale necessita d’essere tenuto artificiosamente e forsennatamente su attraverso stratagemmi spinti, invece un corpo, un vulcano, un albero, una galassia e forse anche una brava persona, stanno in piedi da soli senza necessità di simboli e concelebrazioni.
Finalmente liberato l’universo da dimensioni mitiche alla suora doveva bastare la pura evidenza della natura che si impone per forza propria; un amminoacido si giustifica da solo per ciò che è, senza necessità di liturgie e concelebrazioni, ma il semplice fatto che la suora avverta invece il bisogno di celebrarlo “liturgizzandolo” (seppur in versione minimal), significa che la natura in sé non le basta. Nonostante l’originalità degli ingredienti utilizzati nel rituale la suora ha, dunque, semplicemente architettato strategie per connettere realtà e mistero, proprio facendo ricorso agli stessi anabolizzanti che da sempre si utilizzano in tutte le tribù e in ogni tempio e cattedrale. Non poteva essere che così, gli antropologi sostengono che il successo planetario di Homo sapiens risieda proprio in questa sua irriducibile capacità di andare oltre il rendicontare per rappresentare.
Natale 2020, il gioco delle forme
Il bambino che impila cubi di legno perseguendo simmetrie e direzioni produttrici di senso, ricorda un po’ Abelardo (1079 – 1142), che vedeva gli universali prodotti dal pensiero che estrae e astrae dal caos forme che si assomigliano (categorie), assemblandole in ordini umanamente interpretabili. Il bambino, a modo suo, si adatta all’imperscrutabile ri-assemblando l’inesplicabile, così da leggerlo almeno un po’.
Il criterio ottemperato dal bambino, al pari di quello seguito dall'artista, può risultare arbitrario ma a lui non importa, quel gioco, quel credere, è così vero e bello che non merita di essere interrotto castrando quella verità alla nozione di dimostrabilità.
Il salto
Dentro e fuori la storia delle Chiese cristiane incontriamo innumerevoli ed estese tradizioni di pensiero che hanno combinato Dio con la ragione. All’interno delle confessioni religiose si è proclamata la Sua esistenza, tentando comunque criteri di razionalità nel darne ragione; negli ultimi tempi anche tenendo conto della scienza e delle sue nuove scoperte: “E gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle” (Pro 25, 2).
Elaborazioni che hanno avuto esiti più o meno felici, svolte per gradi attraverso mediazioni e inferenze che, partendo da premesse maggiori e minori, sono approdate a conclusioni ritenute ragionevoli. Se le cose stanno così, ovvero che riconoscere e affermare Dio è processo ragionevole, ne consegue che l’atto di fede risulta superfluo, anzi per certi versi disturbante il processo stesso. In effetti le teologie che coniugano ragione e fede rendono meno urgente e necessario l’atto di fede. All’interno di questa prospettiva di metodo credenti e non credenti, pur giungendo a conclusioni differenti, indagano poggiando sulla ragione, muovendosi pertanto all’interno dello stesso paradigma.
Invece la fede appartiene ad altri regni, più esistenziali e meno concettuali. Prima o poi un brusco atto di fede cieca lo faremo tutti, credenti e miscredenti, forse per trovare senso alla sofferenza che dilaga senza valida e giusta ragione, o forse per l’inadeguatezza del nostro sapere e ragionare al cospetto del sublime universo, sicuramente una atto di fede, perlomeno per l’ignoto, lo faremo “per natura” morendo. Nel personale faccia a faccia col mistero c’è poco da mediare ma solo da saltare (Kierkegaard) senza rete in tutt’altre ignote categorie.
Noumeno
Ecco una cosa, ecco la cosa, ma “cos’è?” Domanda banale e insieme tremenda. Se ne discute da secoli, negli ultimi con maggiore vigoria. Il problema è che se da una parte percepiamo e conosciamo direttamente le cose, insomma ne facciamo esperienza, dall'altra ci resta preclusa la loro conoscenza completa, visto che l’umano percepire e conoscere permarrà, per forza di cose, circoscritto all’interno del nostro parziale orizzonte mentale e percettivo. E’ la classica opposizione kantiana fra fenomeno, ovvero come appare a noi la realtà, e la cosa in sé, ovvero ciò che la realtà è davvero. Opposizione in seguito severamente criticata, ma che evergreen riaffiora.
Ad ogni modo, sia che la cosa in sé resti a noi preclusa nella sua completezza, sia che possiamo conoscerla sapendo completamente cos’è per la semplice evidenza che c’è, disponiamo di un altro spazio di azione pressoché illimitato: quello della pura pensabilità della cosa in sé; è il concetto limite di noumeno che Kant aveva ripreso dalla metafisica di Platone.
Questo cuore della realtà a noi inaccessibile possiamo comunque pensarlo senza preclusioni di sorta. In fondo le concezioni religiose operano in questo spazio noumenico di pura pensabilità. Permarrà uno scarto perenne tra questa pura pensabilità della cosa in sé e ciò che la cosa in sé realmente è? Probabilmente sì[1], per questo muovendoci in questi territori è preferibile evitare proclami.
_____________________________
1 L'opposizione di noumeno a fenomeno porta a equivocare e alcuni autori fanno coincidere noumeno e cosa in sè, mentre la dimensione noumenica, per quanto ho capito, non è la cosa in sé ma la sua pura pensabilità.
Una teologia credibile, appunti su José Arregi
Nel libro “Il cosmo come rivelazione” (Gabrielli Editori), è pubblicato un intervento di sole trenta pagine, ma denso di contenuti, del teologo spagnolo José Arregi, ex sacerdote, ex francescano minore. Il vescovo José Ignacio Munilla lo accusò di eresia sanzionandolo e lui se ne andò dalla Chiesa istituzionale. Un qualche vescovo masochista che fa scappare i più valorosi non manca mai. L’articolo si intitola “Il credo dinanzi alle scienze; Appunti per una teologia credibile”, segue una mia sintesi commentata. Molto commentata riguardo le criticità del post-teismo e del post-religionale estranee ad Arregi, che invece avverte la necessità di una teologia transteista, nonostante lo mettano nel calderone post-teista. Sotto tento di spiegare la differenza tra le due concezioni. [N.B. Gli estrapolati da José Arregi sono virgolettati, il resto è mio; giusto che non passi come detto da lui quelllo che non dice].
L’animismo dei popoli primitivi, ancora presente nello sciamanesimo, scorgeva un’anima in ogni cosa, poi col progredire della civiltà si separò sempre più la materia dallo spirito e viceversa. Arregi omette di citare che concezioni non dualistiche serpeggiano in tutta la storia della filosofia, basti ricordare tra tanti esempi possibili la visione schopenhaueriana che vede una “volontà” di vita, seppur cieca, presente in tutto l’universo, dall'uomo alla pietra. In ogni caso è innegabile che il dualismo spirito materia ha caratterizzato la tradizione occidentale greco-cristiana. Con le recenti scoperte scientifiche che vedono la materia costituita da energia questo dualismo millenario evidentemente non regge più. “La materia è energia, dice la fisica, ma allora domandiamo: cos’è l’energia, che abbiamo sempre immaginato come qualcosa di ben diverso da ciò che intendiamo per materia? Cos’è questa energia invisibile, inaccessibile, intangibile? E perché c’è energia? Perché tutto si muove e gira ordinatamente? E perché questa gravità che mantiene uniti, quasi amorosamente, l’atomo e le galassie, e come è possibile, allo stesso tempo, che l’Universo si espanda vertiginosamente? Perché tutto è come è? Cos’è? Perché è come è?”. Con quel “Cos’è?” Arregi fa metafisica, ma fa una metafisica collegandosi alla scienza in permanente rapporto dialettico coi suoi contributi: “Siamo interamente materia, ma materia complessa che si manifesta e si esprime in forme che definiamo spirituali e che emergono da ciò che chiamiamo materia”, non esiste quindi binomio materia e spirito, ma la materia è spirito e lo spirito è materia. Se le cose stanno così l’antropocentrismo vacilla, dato che lo stesso pensiero che l’uomo è il centro dell’universo, è smentito dalla circostanza che quel pensiero è frutto dell’elaborazione dell’energia che muove le particelle che costituiscono l’aria che respiriamo e il cibo che mangiamo, (la circostanza merita dei chiarimenti visto che se mangiamo pere non diventiamo pere ma restiamo persone, ci avevo provato qui).
Arregi vede l’inizio dell’antropocentrismo quando “10mila anni fa, la nostra specie umana Homo sapiens smise di vivere esclusivamente della caccia e dei frutti offerti dalla Madre Terra e iniziò a coltivare la terra, imparando a seminare e a piantare alberi. Fu un’ammirevole invenzione, un enorme passo avanti della civiltà, ma non esente da pericoli. Gli esseri umani si fecero signori e padroni della terra, ma anche servi e sudditi gli uni degli altri. Con l’agricoltura, l’essere umano acquisì potere sugli altri esseri della terra considerandosi a tutti superiore e applicando la logica del dominio e della subordinazione alle relazioni sociali e a tutte le istituzioni, compresa la religione”. Ricordo che lo storico Yuval Noah Harari ricordava, anch’egli, che l’antropocentrismo risale alla remota rivoluzione agricola, dove i sapiens da raccoglitori e cacciatori nomadi avevano iniziato a coltivare e allevare formando comunità stanziali con un numero sempre più alto e coeso d’individui. Incremento e coesione non solo dovuti a maggiori disponibilità di cibo, ma soprattutto grazie all’immaginare astrazioni condivise, divinità in primis, e a narrazioni di cosmogonie che vedevano l’uomo e il suo mondo sempre più al centro dell’universo. Storie che le attuali scoperte scientifiche minano alla radice.
La consapevolezza che interpretiamo il mondo anche poggiando su siffatti costrutti narrativi, su artefatti mitologici ereditati, dovrebbe portarci a sconfessarli tutti? E’ giunto il momento di finirla, una volte per tutte, di considerarli? Numerosi esponenti dei cosiddetti post-teismo e post-religionale affermano di sì, e hanno ragioni da vendere se tali verità sono considerate assolute e diventano occasione per stilare un corpo precettistico senza capo né coda. Cionondimeno, a ben vedere, queste narrazioni esprimono quote e cifre di valore che vanno colte e rinnovate nel loro spirito adeguandolo ai tempi. Arregi ci ricorda che religione e cultura sono inseparabili. Una cesura totale con le tradizioni religiose e sapienziali azzera con esse anche il kèrigma che veicolano, mentre una intelligente cernita ne permette il recupero. Il cestinarle in blocco senza vagliarle reinterpretandole penso sia operazione ingenua e grossolana, che ci conduce a passare, a piè pari, dal dualismo al monismo, dal teismo all’ateismo. Insomma a una brutta copia dell’illuminismo che ne emula la datata pars destruens, permanendo incapace di nuove proficue visioni del mondo, se non una proposta New Age che tenta forzatamente di fondere, il più delle volte confondere, misticismo e cosmologia. Criticità non da poco quelle del post-teismo, perché se ogni spiritualità tradizionale è giudicata nient’altro che una fantasiosa narrazione -dunque non è vero niente-, ne consegue un’accoppiata di nichilismo e relativismo spinti che annichilisce ogni estetica ed etica. E che fanno i post-teisti quando si accorgono che stanno tagliando il ramo che li regge? Fanno riferimento alla scienza proiettandogli addosso la dimensione mitologica, dalla quale si presupponevano emancipati. Il punto è che il sacro, majestas e tremendum, necessariamente ritorna perché è irriducibile dimensione pan-umana, e il sacro necessita di narrazioni per traghettare nel comprensibile l'incomprensibile.
Arregi lo sa, il suo discorrere è solido e si distingue dal post-teismo non precludendosi una onto-teologia, ovvero la possibilità di un Ente Supremo necessario, dico possibilità non proclamazione. Forse utile ricordare che una cosa sono i dogmi e i corpi dottrinari dei monoteismi tanto assurdi quanto opprimenti, quindi cestinabili senza remore, ma ben altra cosa è l’ipotesi vissuta di un qualche ente che seppur misterioso regge la realtà. Tra il proclamare la verità assoluta di questo ente necessario, verità addirittura rivelata, o il negarla pregiudizialmente, c’è anche una terza via che non si preclude di coglierla come Mistero che si manifesta nella realtà, in tutta la realtà incluse le tradizioni sapienziali e i loro miti -perché crederci tanto superiori ai tanti che prima di noi hanno indagato le cause prime coi limitati mezzi scientifici dei quali disponevano, ma non per questo meno arguti di noi tutti?-, scartando sì le scorie di quelle antiche tradizioni ma trattenendo il valore rinnovandolo, trovando così nel tesoro cose nuove e cose antiche.
Arregi è puntualissimo nel risolvere l'equivoco post-teista: “È chiaro che la soluzione al dualismo teista non può essere la sua antitesi correlativa, il monismo “panteista” secondo cui “Dio” e il mondo sono una cosa sola, come se tutto fosse “Dio” o “Dio” fosse la somma di tutte le cose. Dio o la Realtà ultima e il mondo non sono due ma nemmeno uno. Dio o la Profondità del Reale non è né dentro né fuori dal mondo. Dio non è dicibile né localizzabile”.
L’esegesi del mondo
«Ho 12 anni. Vado alla sinagoga. Chiedo al rabbino qual è il significato della vita. Lui mi dice qual è il significato della vita, ma me lo dice in ebraico. Io non lo capisco, l'ebraico. Lui chiede 600 dollari per darmi lezioni di ebraico.» (Leonard Zelig/Woody Allen)
Roba per specialisti l’esegesi della bibbia o di un testo giuridico, ma l’esegesi del libro del mondo è compito che ci riguarda tutti. Impresa complessa perché il mondo è volume pieno zeppo di significati riposti da portare alla luce. Per svelare quei significati nascosti, per risalire da un segno al suo significato, per interpretare apparenze e simboli per nulla univoci, disponiamo di numerose griglie interpretative[1]; grazie a millenni di civiltà ci siamo attrezzati:
“Deus sive Natura” è una di queste; “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili" è un’altra; “Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!”, oppure "I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo" o "Amerai il prossimo tuo come te stesso", sono altre ancora.
Anche se numerose griglie interpretative si assomigliano, è plausibile ce ne siano più di sette miliardi ad articolare la nostra comprensione della realtà, perché ogni abitante del pianeta ha, in fondo, la sua, magari non lo sa ma ce l’ha. Ce ne sono di logiche, emotive, artistiche, religiose, edonistiche, matematiche, politiche, estetiche e poi c’è anche Freud che interpreta i sogni[2].
Se la grigia interpretativa che utilizzeremo è errata, più saremo esatti e ordinati nell’utilizzarla meno ci si svelerà il mondo. Per non rischiare cantonate forse utile non fissarci su poche griglie interpretative, ma istituire un collegamento con i contributi delle altre griglie, in un permanente rapporto dialettico. Senza però esagerare: conformazioni a priori delle proprie griglie che si dissolvono in tutte le altre condurrebbe ad un appiattimento della nostra “ontologia ermeneutica” (Gadamer), azzeramento -alla Leonard Zelig/Woody Allen- che può prendere ma non com-prendere. Per comprendere bisognerà pur interpretare grazie a una qualche Stele di Rosetta, va bene, anzi meglio, se provvisoria, ma ci deve pur essere.
_______________________________
1 Il cifrario a griglia era un metodo utilizzato nel passato per cifrare i messaggi. Si perforava un foglio di carta e lo si sovrapponeva a un foglio integro, scrivendo nei buchi il messaggio segreto. Tolta la griglia si completava il messaggio con un testo di fantasia, raccordando le lettere o le parole precedentemente scritte attraverso la maschera. Il destinatario che disponeva della maschera poteva decrittare il messaggio.
2 Per griglia interpretativa intendo “ontologia ermeneutica” (Gadamer), atto che precede e determina la Weltanschauung, giusto per spiegarmi. Anche se in queste cose non è mai chiaro se sia nato prima l'uovo o la gallina dato che visione e interpretazione sono di fatto un tutt'uno.
Biochimica spirituale
“… E il vino che allieta il cuore dell'uomo” (Salmo 104, 15)
Il teologo basco José Arregi affrontando la problematica del libero arbitrio annota, non senza ragione, un aspetto tanto semplice quanto spiazzante:
“Basta - come di fatto basta - toccare dei neuroni o alterare dei geni o iniettare degli ormoni perché cambino le nostre gioie e le nostre angosce, i nostri gusti e le nostre opzioni, la fedeltà di coppia o la stessa fede religiosa”[1].
In effetti abbiamo sostanze che somministrate esplicano un’azione sull’organismo umano, principi attivi dotati, dunque, di forza fisiologica, ogni cibo permettendoci di vivere la esplica. Potenze efficienti che da uno spermatozoo e un ovulo, essenza di una bistecca mangiata da nostro padre e di una mela mangiata da nostra madre, ci hanno fatto feti e poi, nutrendoci, persone. Ma in questo migrare di elementi da dove proviene l’umano pensiero? Se sprovvisti di un Creatore pensante, che ci ha fatto a sua immagine, il pensiero albergherà, necessariamente e in potenza, all'interno degli elementi stessi, manifestandosi in particolari condizioni e concatenazioni.
Gli sciamani che tracannano sostanze psicoattive lo avevano capito da tempo: superflui gli sforzi ascetici e ogni impegno per diventare persone migliori. Tutte beffate le ortoprassi volontaristiche presenti da millenni pressoché in ogni cultura, visto che si possono raggiungere gli stessi risultati, all’istante e senza sforzo, grazie a sostanze che modificano la biochimica del cervello. Un po’ di Psilocybe il lunedì e siamo san Francesco, Salvo D'Acquisto martedì con la Ketamina e Rambo mercoledì grazie a un pizzico di Efedrina? E che diavolo avrà mai mangiato Hitler? Un po’ riduzionistica la faccenda se la poniamo in questi termini, per quello che vediamo in giro le cose stanno in modo diverso perché col mutare della biochimica cerebrale permane, comunque, un nucleo di personalità irriducibile seppure biochimicamente plasmabile, e di solito va a finire che un pirla sarà un pirla visionario col Psilocybe, un pirla scavezzacollo con la Ketamina e un pirla temerario con l’Efedrina, niente di più, niente di meno. Dentro quel nucleo c'è qualcosa che ancora ci sfugge.
_________________________________
1 “Il cosmo come rivelazione; una nuova storia sacra per l’umanità”, Gabrielli editori.
Un qualcosa “di più” ?
Ripensando il concetto di selezione naturale introdotto da Charles Darwin, ho considerato che “selezione” è termine equivoco, visto che il selezionare implica scelta e valutazione attiva, mentre Darwin affermava tutt’altro. Per evitare equivoci avrebbe potuto utilizzare il termine “smistamento” come gli scambi che convogliano meccanicisticamente i treni su binari differenti. “Smistamento naturale” non suona poi male, ma siccome di queste cose so poco e niente ho chiesto a due esperti, il filosofo Orlando Franceschelli che molto si è dedicato a Darwin[1] e al biologo Germano Federici, ferrato naturalista, una rara Alchemilla individuata grazie alle sue ricerche porta il suo nome: Alchemilla federiciana, Ventaglina di Federici, Alchemilla di Federici; (Alchemilla federiciana S.E. Fröhner).
Segue la mia domanda e le loro risposte.
_________________
Premessa. In condizioni ambientali date perdurano quei geni che mutati casualmente, o forse meglio dire mutati per cause non-lineari, si ritrovano ad avere caratteristiche più adatte per vivere in quel dato ambiente, mentre i meno adatti tendono a esaurirsi. Dunque un processo selettivo che pur utilizzando “materia prima” (geni) plasmata dal caso, (è finalizzato?) a far perdurare -in opposizione, dunque, alla cieca casualità- gli organismi viventi in uno specifico ambiente; tant’è che gli organismi biologici tendono perlopiù all’esserci invece che al non esserci, oppure ad alternare casualmente le due condizioni, basta guardarci in giro per averne conferma.
Domanda. Se la suesposta descrizione è corretta con il termine selezione si intende non una sorta di supervisione che dal cesto delle mele sceglie le sane e scarta le bacate, ma un ordine meccanicismo deterministico, come lo è la forza di gravità che dalle nostre parti tira sempre verso il basso (nella fattispecie in oggetto "tira" alla vita) invece che a caso qualche volta a destra, altre a manca oppure all’insù. Se è così, il termine “selezione” potrebbe risultare eccessivo, in quanto il processo non eccita i geni a modificarsi in modo che diventino più performanti in uno specifico ambiente dato, ma sono più adatti semplicemente per casuali caratteristiche, pertanto la seleziona naturale altro non è che un mero meccanicismo deterministico (il grave che cade giù non “seleziona” quell’andare tra possibili altre direzioni, ma ci va meccanicisticamente). E’ così o Darwin ha osservato che nella interazione ambiente-gene accade qualcosa “di più” rispetto al grave?
_________________
Risposta di Orlando Franceschelli, filosofo.
Tocchi un argomento centrale e complesso. Ma il tuo quesito centra il problema: la biologia è una scienza molto più storica e meno meccanicistica, poniamo, della fisica. E questo significa che nella tua analisi devi far rientrare esattamente quel 'di più' di cui parli. E di cui ti indicherei due aspetti: il carattere artigianale dei processi selettivi in relazione all'ambiente; e il fatto che lo stesso patrimonio genetico è influenzato da variabili storico-culturali.
Col primo si intende che l'evoluzione non è un ingegnere meccanico, ma un artigiano che appunto fa bricolage evolutivo: trasforma e adatta all'ambiente ciò che trova e lo fa però in modo cumulativo, ossia non ripartendo sempre da zero, ma a partire, ossia ritrasformando quello che già aveva trasformato e così via. La trasformazione più adatta ha ovviamente maggiori possibilità di trasmettersi. Ma è del tutto fuorviante pensare che pressione ambientale e processi selettivi da soli non sarebbero in grado di formare organismi complessi, come l'occhio. Il complesso non appare di botto e già intero. Si forma lungo processi evolutivi -questa è la selezione naturale- che richiedono tempo e incorporano la contingenza non un fine che precederebbe il processo. In questo senso Darwin è la fine di ogni disegno intelligente quale presupposto 'necessario' della complessità che vediamo nella realtà naturale. Come ben sanno anche i rappresentanti del teismo evoluzionistico di cui anche a me -detto con tutta la modestia del caso- è capitato di occuparmi.
Quanto ai geni: anche la loro manifestazione in qualche modo interagisce con l'ambiente e con la cultura. E' chiaro che noi abbiamo un genotipo Homo sapiens fissato dai processi selettivi di cui sopra. Ma appunto grazie a questo patrimonio genetico siamo -almeno fino a che l'ingegneria non interverrà in modo pesante sulla nostra dote biologica- costruttori di nicchie ecologiche che poi retroagiscono sulla diffusione e la manifestazione delle nostre potenzialità genetiche. Perciò la natura umana non è mai stata solo nei geni: è da sempre bio-culturale. Perciò non c'è determinismo genetico e può avere senso invece prevedere una medicina che curi le malattie proprio nella loro fonte genetica ma ovviamente a fin di bene, di cura appunto: curi non alteri la dote biologica. Se dovesse alterarla, a che fine lo farebbe se non di potere? Chi sarebbe questo 'oltreuomo' geneticamente modificato? Chi decide la modifica da apportare?
_________________
Risposta di Germano Federici, biologo.
Riparto da questa tua domanda per ulteriori riflessioni. Concordo con il filosofo quando dice che il "di più" nel processo selettivo è la complessità dei processi in atto, che prevedono azioni e reazioni non prevedibili a priori nel risultato che daranno, se non in termini generali. Ma quel "di più" è sempre riconducibile alla cooperazione tra caso e necessità, di cui parla Monod. Il processo evolutivo si diversifica da quelli fisici classici per il fatto che la storia del sistema che stai studiando in un certo istante condiziona, in modo in larga misura imprevedibile, quello che avverrà poi. Nella fisica classica, se conosci un paio di grandezze fisiche v=s/t, puoi calcolare la terza con una precisione data, indipendentemente dalla storia precedente del sistema. Non così nei processi biologici in generale, e soprattutto in quelli evolutivi ed ecologici, in cui sono in azione non due, ma n fattori, con n tendente a infinito. Questi fattori interagiscono condizionando l'uno la risposta dell'altro in una catena che fa sfumare la "certezza" del risultato in un processo che invece appare sempre più creativo (sorprendente), quanto maggiori sono i fattori in gioco. Non c'è da meravigliarsi se Lovelock è arrivato a personificare la Terra, battezzandola come Gea e, ben prima di lui, Spinoza a far coincidere in qualche modo Dio e natura.
Come ha scritto Franceschelli c'è poi un "di più" rappresentato dalla comparsa dell'uomo, oggi in grado di pilotare l'evoluzione di se stesso e, domani, forse di qualsiasi sistema. Già Darwin nel libro sull'evoluzione dell'uomo ha affrontato questo tema suggestivo, arrivando alla conclusione che, grazie alla coscienza e al senso etico che la caratterizza, la scimmia nuda (D.Morris !) dirige il processo selettivo. Si tratta di un nuovo modello interpretativo che giustamente a mio parere il filosofo Patrick Tort ha definito "la seconda rivoluzione darwiniana", largamente ignorata dai critici. Quel "di più", rappresentato dalla coscienza umana con ciò che ne consegue, non è peraltro un "di più" qualitativo, ma quantitativo o meglio, qualitativo perché più quantitativo rispetto ad altri organismi... Quanti neuroni sono serviti per dare la coscienza umana? Scriviamo qualsiasi numero, ad es. 3527 e chiediamoci se è possibile che lo stesso organismo con 3526 ne fosse privo. Nei libri di Darwin c'è l'idea che non esistono soluzioni di continuità tra uomo e animali, come non c'è nel processo di ominazione tra Australopithecus e Homo o tra Homo erectus e H.sapiens.
Quando si pensa al cammino che la materia ha seguito, partendo dalle interazioni di varia forza tra particelle elementari e fino ad arrivare al presente, non si può che rimanere storditi dalla sorpresa (Taumante !), che genera dei. L'idea del divino è scritta nel campo di forze delle particelle.
____________________________
1 Saggi di Orlando Franceschelli sulla tematica: Darwin e l'anima. L'evoluzione dell'uomo i suoi nemici; La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza; Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione.
Disordine ordinatissimo
“Quale padre, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se chiede un pesce, una serpe? O un uovo, gli darà uno scorpione?” (Luca 11,11-12)
A livello subatomico non c’è un prima e un dopo e neppure un qui e un là , ma un fluttuare aspaziale e atemporale di sterminate imprevedibilità, eppure proprio da tutto ciò anche questa primavera in fondo al cortile da una ghianda di roverella è nata ancora una roverella.