Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Il dio sensibile
“Il dio sensibile, saggio sul panteismo", è un libro del filosofo Emanuele Dattilo che articola il panteismo partendo dalle premesse concettuali di Spinoza, Giordano Bruno, Schelling, David di Dinant, Amalrico di Bène, Tommaso Campanella, Epicuro, Scoto Eriugena, Franz Kafka, Niccolò Cusano, Avicebron, Plotino e altri, non pochi passaggi sono attinti dalla Kabbalah. Anche se l’Autore eviti di annotarlo è interessante osservare quanto il panteismo serpeggi nel paradigma teista, quasi ne fosse un’eresia. Pensatori che Dattilo vede accumunati dall’essersi emancipati dalla tradizione del Dio architetto che crea dal nulla, concezione creazionista e architettonica sovente migrata, in forme palesi o criptiche, nell’intera filosofia post socratica. Per l’Autore il panteismo rifiutando la concezione del Dio creatore ridimensiona la concezione di salute individuale e sociale derivante da processi educativi, etici e culturali fautori di progresso, processi che per certi versi sono una continuazione di quell’inizio narrato in Genesi.
Il libro conduce a guardare in faccia la realtà in presa diretta per come è sempre stata prima dell’invenzione di un creatore antropomorfo, in un continuo infinito presente dell’aver luogo della vita. Ben si capirà che così facendo ci si avvicinerà a territori contemplativi, mistici e anche magici, ma il saggio non cade mai in derive misteriche. Riguardo l’etica evidentemente collassano tutti quegli arbitrii condivisi, che chiamiamo valori, derivanti dalla concezione teistica, ma in ogni caso rimane il problema della sofferenza, quello sì reale e al quale porre rimedio non attraverso regole morali, ma grazie a una più profonda consapevolezza della interconnessione naturale degli esseri senzienti e degli enti tutti.
Senza negare l’evidenza e l’utilità del progresso storico e sociale Dattilo porta a vedere il mondo -lo fa senza intenzione- come lo avrebbe potuto vedere un uomo primitivo, un mondo naturale libero da canoni culturali prefissati, a volte fuorvianti e asfittici. Evitando esaltazioni e esagerazioni viene proposto un naturalismo per così dire allo stato brado, prima di ogni contaminazione concettuale dualistica che separa la mente dalla materia, il sensibile dall’intelligibile, la materia dalla forma, l’essere dal pensiero, il soggetto dall’oggetto, la causa dall’effetto, il bene dal male e il sacro dal profano, aggiungerei anche la vita dalla morte. La proposta di fluttuare nella natura, nella materia, senza prefissarla con intepretazioni preconcette ma rispettandone la potente e viva dinamicità monistica, si dipana permanendo in terreno filosofico senza cadere in banalizzanti derive New Age, anzi implicitamente denunciando, nel rigore dell'esposizione, quanto certi modi frettolosi e superficiali di vedere siano nient’altro che una parodia del Deus sive Natura.
Forse il testo in qualche snodo andava integrato con dei chiarimenti. Affermazioni come "Dio è Tutto", "Tutto è Dio", sembra dicano qualcosa, ma a ben vedere affermano tutto e niente e dicono poco. Perché dicano andrebbe spiegata ogni volta la relazione tra il pensiero di chi le afferma, il linguaggio che questi adopera per esprimere quel pensiero, la realtà di riferimento, così da evitare il rischio di finire in trappole grammaticali -nel panteismo intendersi sul vocabolario da utilizzare è cruciale-, ma il testo si sarebbe appesantito non poco e il compito è giustamente lasciato al lettore. Il problema è che nel procedere con la lettura ho realizzato che più ci si inoltra nel panteismo e meno si può prescindere dalla filosofia del linguaggio, ma nel farlo ci si rende subito conto che nell’affrontare queste cose l’anello debole della catena non è colui che pensa e neppure la realtà pensata, ma le parole utilizzate per metterli in connessione. Quando c’è di mezzo Dio, personale o impersonale che sia, va sempre a finire che il linguaggio arranchi.
Emanuele Dattilo “Il dio sensibile, saggio sul panteismo”, Neri Pozza.
La cifra
Per spiegare in poche parole Homo sapiens a un qualche essere di un pianeta lontano, potremmo dirgli che siamo gli unici animali che ridono, oppure che siamo i soli che ragionano o che sanno che moriranno, ma per spiegarci davvero forse meglio fare qualche esempio dei nostri esemplari.
Potremmo riferire di registi che nel fare un film sulla giustizia sociale sottopagano gli attori, di preti che inneggiano alla castità e fottono i pargoli, di sindacalisti che parlano di giustizia e picchiano la moglie, di religiosi corrotti che rubano fondi destinati ai malati o di intellettuali che esaltano la legge ma sono insofferenti al codice stradale.
E’ questo scarto interno all’individuo la cifra che ci fa unici. Considerando anche gli esemplari che, opposti ai casi summenzionati, predicano male ma razzolano bene la separazione interna riguarda un po' tutti.
Homo sapiens quelli scissi.
Materialismo religioso
«Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa». (Dal Vangelo secondo Marco).
Giorno e notte una ottantina di organi del corpo suddivisi in una decina di apparati che si sono costruiti per conto loro funzionano, perlopiù con precisione, rispettando migliaia e migliaia di parametri.
Accadimento superiore, visto che noi non ne siamo capaci, al quale conviene affidarci dall’inizio alla fine.
Dispnea psichica
Il dogma discorsivo ordina che partendo da premesse dimostrabili si concatenino razionalmente enunciati, positivi o negativi, giungendo così a conclusioni logiche.
Davvero giusto. Ma fa bene alla salute?
Introiezioni
Dalla sorgente mica sgorga acqua nativa ma del sottosuolo, così è per il colpo di genio.
Non possiamo escludere che tutto quell’interpretare l’umano pensare come strabiliante momento creativo primo e originale ci derivi dall’aver introiettato il racconto di Dio che crea dal nulla.
Shabbat
Più si investiga e più si conclude di non sapere, strana esperienza mix di interminabile e insieme di meta raggiunta nella quale riposarsi soddisfatti.
Essere e azione = evento
Taglio il prato e si alzano i moscerini e arrivano le rondini, pinguini in miniatura che volano come pipistrelli, una mi vira velocissima a venti centimetri dalla faccia attimo che tutto spiega e risolve.
Noetica di strada
Moriremo e lo sappiamo, ma pur al cospetto della ineluttabile sovrastante imminenza gli abitanti del mondo invece di terrorizzarsi e pietrificarsi tirano dritto abbastanza disinvolti. La spiegazione più immediata, e ritrita[1], è interpretare questa diffusa scioltezza prodotta da rimozione che attiviamo in massa per anestetizzare l’angoscia di non esserci più.
Kafka va oltre: “L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa d'indistruttibile dentro di sé, anche se quell’indistruttibile come pure quella fiducia possono rimanergli costantemente nascosti. Una delle possibilità di esprimersi, per tale rimanere nascosto, è la fede in un Dio personale”[2].
La fede in un Dio personale è, dunque, una forma un po’ naif di cogliere, svelando e insieme nascondendo[3], questo nucleo personale che percepiamo immortale. Kafka, volutamente ambiguo, lascia in sospeso se tale nucleo sussiste di per sé precedendoci o è invece un nostro artefatto tanto ancestrale e così profondo da costituirci. Di fronte alla morte personale ci vuole tanta fede e una sterminata fantasia per almanaccare che quel quid senziente e pensante, prima dentro a uno specifico corpo e poi non più, sia migrato in qualche paradiso dove, ancora cosciente di se stesso, abbracci i cari che lo avevano preceduto, ma è forse necessaria ancora più fede e più fantasia per sentenziare, opponendosi alla spontanea percezione comune, che quell’io sia definitivamente e irrimediabilmente sparito come se non fosse mai esistito.
Di fatto come sentiamo il caldo e il freddo così abbiamo l’istantanea percezione che siamo costituiti da un nucleo indistruttibile che sentiamo affidabile, è per questo che tiriamo avanti. A ben vedere perché si inneschi l’angoscia di morte dobbiamo prendere iniziativa distanziandoci da questa percezione immediata, innata e spontanea[4] di immortalità, per inoltrarci in paradigmi discorsivi. A volte per infognarsi occorre impegno.
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1 In effetti orfani di monaci domenicani medievali che latrando dal pulpito ci rammentano che dobbiamo morire, così che possiamo prenderne nota, la rimozione imperversa. Devoto irriducibile del memento mori ci è però rimasto Umberto Galimberti che, seppur nuoti in tutt’altro paradigma rispetto a quello dei monaci cristiani, sa esprimere la stessa vis drammatica.
2 Kafka, Die Zürauer Aphorismen.
3 Le narrazioni svelano se narrazioni rimangono, prese alla lettera collassano e nascondono.
4 Noesi la chiamano i filosofi, i bambini nel caso di specie la esercitano in massimo grado percependosi assolutamente immortali. "In verità io vi dico: se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli".
L’orto di casa
In ospedale avevo incontrato un vecchio morente che invece di lamentarsi del suo stato pensava tutto il giorno all’orto di casa (ne avevo scritto qui). Il panteismo dovrebbe essere una esperienza diretta, evidente, immediata e semplicissima come quella di quel vecchio, invece è roba da filosofi monismi che con speculazioni attorcigliate armeggiano forma, luogo, spazio, modi e attributi, nel tentativo di superare ogni dualismo e proporre un monismo cosmico che alla fine, dopo una serie di tripli salti mortali, non di rado risulta piuttosto misterico e quasi sacerdotale.
Strano Dio quello del panteismo, è tutto però lo possono vedere solo certi filosofi.
Forse meglio l’orto di casa, si regge da solo senza bisogno di spiegazioni, consola un po', non produce crampi mentali e lo vedono tutti quanti.
24.000
Ogni tre o quattro mesi taglio l’erba nella banchina della strada provinciale che confina col mio fondo e, ogni volta, affiora la spazzatura gettata dalle auto che passano. Questo pomeriggio in trenta metri lineari ho raccolto, oltre all’immancabile plastica, 16 bottiglie vuote di birra da 33 CL. Ogni quattro mesi in quel tratto ne raccolgo dalle 10 alle 20 bottiglie. Calcolando a spanne, se in trenta metri oggi ho raccolto 16 bottiglie, su trecento metri dovrebbero essercene 160 e su un chilometro possiamo prevedere ce ne siamo circa 500, calcolando le due carreggiate 1.000.
Visto che la strada provinciale in oggetto è lunga 24 km è verosimile che sulle carreggiate siano state gettate in quattro mesi 24.000 bottiglie di birra, migliaio più, migliaio meno, tutte perfettamente stracannate e abilmente gettate anche in tempo di Covid. Buon segno, la vita continua.