Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Io? Non io? Chi?
Nel saggio I quattro maestri, nelle pagine 195-202 Vito Mancuso affronta un nodo non da poco riguardo il buddhismo, dottrina che da una parte giudica sia l’io che l'anima individuale entità inesistenti (anātman) e, dunque, nient’altro che mere credenze valutate dannose, mentre dall’altra afferma, nel contempo, la capacità e il potere insiti nell'individuo di volere e di partecipare consapevolmente all’eterno, di rinascere, di ricordare vite precedenti, di pregare per i defunti, del rifiuto di alcune anime illuminate di abitare lo stato paradisiaco del Nirvana per tornare su questa terra (bodhisatva) ad aiutare le persone sofferenti, di karma ovvero legge di causa-effetto attivata da individui liberi e senzienti che produce conseguenze necessarie ed eterne.
Nel buddhismo incontriamo, dunque, concezioni dottrinali che negano la sussistenza ontologica degli individui e dell'anima personale e nel contempo che preservano, sotto certi aspetti esaltano, il nucleo individuale della persona al punto da affermare il suo permanere oltre la morte del corpo fisico individuale. Per risolvere la contraddizione, che non è faccenda di lana caprina visto che definire se siamo o non siamo, se saremo o non saremo, non è cosa da poco, Mancuso distingue l’io psichico dall’anima spirituale considerando, in pagine precedenti, l’io psichico personale[1] entità insussistente e interpretando l’eterna anima individuale come concezione che serve a esprimere e veicolare l’esistenza di un nucleo personale autoconsapevole che intende e vuole (libero arbitrio); nucleo personale che grazie all’energia morale accumulata, o dispersa, può connettersi, o distanziarsi, dall’essere eterno attraverso il lavoro spirituale svolto o non svolto. Viene così riaffermato attraverso il concetto di anima spirituale la sussistenza ontologica dell'io personale[2], concezione per quanto sappia estranea al buddhismo. L'anima spirituale entità di per sè inesistente esprimerebbe, rappresenterebbe, riepilogherebbe, delle caratteristiche dell'io psichico che così ritorna a essere. L'io del nome che portiamo, costituito dal nostro carattere, dalla nostra sensibilità, da ciò che, via, via, siamo diventati a seguito delle nostre esperienze cesserà con la morte, mentre il centro di volizione personale detto anche libero arbitrio e la capacità personale di intendere e volere permarranno portandosi nell'eterno ciò che hanno accumulato in questa vita. Come se l'io fosse costituito da una struttura impermanente e da un nucleo eterno.
Partendo dalle pagine di Mancuso due potrebbero essere le direzioni per raggiungere una maggiore chiarezza, la prima è quella di accoglierle come stimolo per praticare il buddhismo, visto che un superficiale guardarlo da fuori ci precluderebbe di incontrare lo spirito di questa tradizione millenaria, complessissima e non sempre univoca, pensiamo alle differenti scuole che la strutturano arricchendo ma anche complicando con dottrine eterogenee l'insegnamento del Buddha. Plausibile che sia questa stratificazione di dottrine differenti formatasi in centinaia di anni a complicarci le cose, un po' come se un orientale tentasse di proporre una concezione univoca del cristianesimo cercando di far coincidere, attraverso contorsioni e salti mortali tripli, la Teologia della Liberazione e quella di Lefebvre. Consideriamo anche la ricchezza di termini, a noi estranei, che tale tradizione ha saputo elaborare, ad esempio per noi occidentali il lemma “Coscienza” ha due o tre significati, mentre a Oriente sono stati formulati decine e decine di termini altamente specifici che dicono differenti significati e livelli di coscienza. La seconda, più fattibile ma non meno complessa, è quella di evitare di eticizzare l’ontologia come mi sembra fare Mancuso, distinguendo l’assiologia che formula idee e ideali utili a regolare il nostro vivere dall’ontologia, che invece indaga i caratteri universali degli enti per quello che sono.
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1 Inteso come il nome che portiamo, il nostro carattere, la nostra sensibilità, ciò che, via, via, siamo diventati a seguito delle nostre esperienze.
2 Scrive Vito Mancuso: “Io penso che occorra distinguere con attenzione l’io psichico dall’anima spirituale, il cui concetto è sorto per veicolare tre esperienze concrete: 1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione; 2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte; 3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro svolto e dell’energia morale accumulata.”
3 Difficile dire se il problema è di Mancuso o del buddhismo. Nell’Advaita Vedānta dottrina non duale dell’induismo le cose sono più semplici rispetto al buddhismo, visto che l’io personale è giudicato inesistente, punto. Dato che non sussiste alcuna entità personale che ha una qualche responsabilità o paternità d'azione, l’etica del Vedānta non contempla i concetti di bene e di male, ma il bene è vedere il falso come falso (l’io personale) e il vero come vero (la coscienza cosmica impersonale che, a dire dell’Advaita Vedānta, siamo). In questa ottica vedantina ci sarebbe da considerare se e quanto sia ragionevole e profittevole la liberazione dell’individuo azzerandolo, ma perlomeno i termini della questione sono semplici, chiari e immediati.
Peccati di gioventù
Da giovani eravamo portati a risolvere gli enigmi della vita rimuovendoli come facevano gli atei materialisti, oppure risolvendoli con storie consolatorie che non stavano né in cielo né in terra come facevano i teisti, ma col passare degli anni le due strategie hanno, via, via, mostrato la corda e le fazioni hanno smesso di bisticciare, entrambe realizzando che siamo immersi in misteri irrisolvibili[1]. Oggi tutti più o meno agnostici siamo perlopiù amici.
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1 Il fisiologo tedesco Du-Bois Reymond (1818 - 1896) materialista ateo, individuò alcuni enigmi dell'universo che riteneva irrisolvibili. Ignoramus et ignorabimus (ignoriamo e ignoreremo) l’essenza della materia e della forza, l’origine della vita, l’umano libero arbitrio, l’ordine naturale, il sorgere della sensibilità, della coscienza e del pensiero razionale, l’origine del linguaggio.
Asepsi gnoseologica?
Mircea Eliade (1907-1986) noto studioso del sacro, è stato criticato perché invece di limitarsi a considerare le religioni nel loro contesto storico-culturale, con l’idea di "ierofania" (manifestazione dell’elemento sacro o divino) ha reificato il sacro indagandolo come realtà, deragliando così dal percorso scientifico.
A dire dei suoi critici Eliade si è “fatto prendere” e non ha più ottemperato le regole e i principi metodologici gnoseologici, che esigono un sistematico mantenimento di distanza fra lo studioso e le cose che indaga, come se un coinvolgimento personale, anche minimo, contamini il processo precludendo la corretta e precisa conoscenza del fenomeno esaminato.
Ma è davvero e sempre così? Forse sono meglio quelli che pensando in proprio di tanto in tanto si coinvolgono emozionandosi. Potrebbero anche sbagliare fuorviati dalla passione, ma perlomeno non riducono tutte le scibili e disputabili questioni a un'algida rassegna di nozioni, magari precisissime quanto ripetitive e noiose. Ma gli studiosi coinvolti e appassionati potrebbero anche azzeccare e quando azzeccano saltiamo tutti in avanti.
Simultaneo coincidere
Un buon modo per non rimanere impantanati in dualismi filosofici, esistenziali, o ancor peggio religiosi, è quello di cogliere la polarità data dal rapporto di reciproca dipendenza di due elementi contrapposti, conservando così sia l’unità dinamica degli opposti, che la differenza tanto utile per la nostra mente binaria.
Però più esploro con attenzione le piante nella loro materialità biologica e più mi ritrovo a contemplarle, realizzando così che “il massimo della trascendenza coincide con il massimo dell'immanenza”[1], e se nell'osservare le piante il quaggiù è il lassù e il lassù è il quaggiù, potrebbe anche essere che sia così per tutto.
Il buddhismo tantrico sembra confermare questo universale coincidere del contrapposto, in una antica pratica compariva nella mente del praticante una prostituta di bassa casta in attesa di congiungersi che l'iniziato visualizzava come dea[2].
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1 Affermazione presa in prestito dall’amico Germano Federici.
2 Pratica tantrica di visualizzazione riportata nel Manuale di storia delle religioni, M. Raveri, Laterza, pag. 367. La figura della prostituta di bassa casta coincidente la dea è altresì citata, con denominazione Dombi Candali, nel Dizionario del Buddhismo di Mircea Eliade.
Coazione a ripetere
Come le religioni e le tradizioni sapienziali anche l’illuminismo, le ideologie, e pure le discipline sportive, prescrivono che da così bisogna diventare cosà e che da un quaggiù si raggiunga un lassù.
Non ci resta che il taoismo per smetterla di dividere e liberarci dalla fissazione per le strade in salita.
Si fa presto a dire mistica
Nel leggere “Confessioni estatiche” di Martin Buber (1878 –1965), classica carrellata di scritti mistici di differenti religioni e tradizioni sapienziali, non sono riuscito a ottemperare per tutte le pagine la giusta indicazione dall’Autore-curatore, che nella premessa invita a non inquadrare l’estasi spiegandola da un punto di vista psicologico, fisiologico o patologico, ma vedendola invece come esperienza vivente di essere umani che dicono “della propria anima e del proprio indicibile segreto”.
Terminata la lettura della raccolta si realizza che l’esperienza estatica non è esprimibile con la parola, eppure ci sono stati mistici che attraverso le parole la indicano e la evocano, stimolando la nostra intuizione verso ciò che sta dietro e oltre quel dire. Negli resoconti estatici riportati da Buber questo irrazionale razionalissimo oltre talvolta arriva, talvolta no. Questo arrivare o non arrivare non è dato dalla capacità o dalla incapacità del mistico-scrittore di utilizzare stratagemmi linguistici capaci di comunicare l’incomunicabile, ma dalla potenza dell’esperienza estatica, quando c’è, se c’è, la sua onda lunga si riversa nelle parole impregnandole.
Il problema è che in alcuni mistici questa parola impregnata espande all’istante la nostra limitata condizione, ma in altri restringe e nausea come fa il profumo di caprifoglio, le beghine ne sono spesso infradiciate, profumo così dolciastro da virare a note fecali. Qui una interpretazione psicologica, fisiologica o patologica del mistico, e della suscettibilità del lettore nei suoi confronti, ci può anche stare.
Elementare, Watson ?
Apprendo dal saggio di Vito Mancuso I quattro maestri, la storia del monaco buddhista Sangamaji. Il venerabile durante la meditazione venne avvicinato dalla donna che era stata sua moglie che con in braccio il loro figlio gli chiese aiuto, ma il venerabile impipandosene di entrambi tirò dritto continuando la sua meditazione[1]. Vito Mancuso, commentando la cosa, afferma che il suo imprinting è diverso da quello di Sangamaji e che, dunque, mai potrebbe diventare buddhista, pur manifestando affetto e stima per quella tradizione sapienziale. Ci sarebbe da specificare che non tutto il buddhismo è riducibile al permanere assorti in una così disumana atarassia, chi ha frequentato monaci o lama buddhisti sa quanto siano umanamente compassionevoli e gioviali, ma il nocciolo filosofico che differenzia le concezioni orientali dalle nostrane, evidenziato da Mancuso, è innegabile[2].
Rischiando un eccesso di sintesi e non poca grossolanità, possiamo dire che a Oriente l’accadimento di essere una specifica persona in questo mondo è interpretato come un problema, anzi è Il problema, mentre noi lo vediamo un vantaggio. Il discorso orientale, semplice quanto radicale, è che la vera realtà non è il divenire delle cose distinte, ma un ingenerato, immobile, immutabile, immortale, indivisibile, auto-fondante, sempiterno e onnipervadente tutt’Uno. Essere all’interno del quale non sussistono entità separate individuate. Non sussistendo alcuno né a maggior ragione qualcuno, nessuno nasce e nessuno muore, quindi nessuno soffre… Elementare, Watson. Se tu non esisti chi mai soffre e muore? In tale concezione il grande equivoco che produce la sensazione della personale finitudine e del conseguente sgomento deriverebbe dall’erroneo auto-identificarsi con l’apparato psicosomatico individuale in divenire; io-persona che sarebbe nient’altro che una falsa apparenza di fatto inesistente ma che equivochiamo per reale, mentre noi saremmo L'Essere impersonale, il Supremo Assoluto.
La prospettiva orientale è innegabilmente vantaggiosa nel permettere di raggiungere una istantanea liberazione dalla sofferenza psichica e dalla paura della morte, grazie ad una semplice operazione concettuale: quella di auto-ometterci da noi medesimi. A operazione conclusa saremo asettici testimoni del Supremo indifferenti allo scorrere delle apparenze dell'io e del mondo. Ma appaiono subito evidenti anche gli svantaggi dell'operazione: che senso ha morire da vivi per sentirci liberi? Ne val davvero la pena? Il problema sta nella premessa che genera la strategia difensiva dalla sofferenza, se la premessa cambia muta pure la strategia: che il male serpeggi ovunque, che soffriamo e che siamo mortali è certo, ma pur con tutto questo è davvero sempre e comunque svantaggioso essere individui di questo mondo? Svantaggio tanto estremo da saltar giù dal mondo e da noi stessi per mezzo di una ascesi radicale, ma fino a che punto è vera l’affermazione portata da Schopenhauer per giustificare tale ascesi, a suo dire generata da «L'orrore dell'uomo per l'essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore»?[3].
Se Schopenhauer avesse ragione sarebbe davvero necessaria e urgente una ascesi che ci liberi alla svelta da questo terribile teatro dell’assurdo nel quale siamo precipitati, ma visto che in questo teatro, oltre a olocausti e oncologie infantili, di tanto in tanto può anche capitare d’incontrare sotto un sole che regolarmente risorge bella gente per la via, non è vero che siamo messi così male. L’epilogo personale accadrà spontaneo senza necessità di forzate anticipazioni, nel frattempo perché non apprezzare ciò che specificatamente siamo[4] e personalmente possiamo, aiutando e dispiacendoci di qualcuno che va e rallegrandoci di qualcuno che viene? Anch’io buddhista non mi faccio.
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1 Riporto il brano estrapolato da Udana, 1,8, ed. it. A cura di Francesco Sferra, in La rivelazione del Buddha, vol I, cit., pp. 604-605, nel saggio I quattro maestri di Vito Mancuso viene citato pag. 208: « Nelle scritture buddhiste si legge la storia di un monaco di nome Sangamaji, che mentre era seduto in meditazione venne raggiunto da una donna che era stata sua moglie con il loro figlioletto. Per tre volte la donna disse: “Asceta, prenditi cura di me, ho un figlio piccolo”, ma egli neppure la guardò. Ella allora lasciò il bambino dicendo: “Questo è tuo figlio, asceta! Abbine cura!” ma, continua il testo”: “Il venerabile Sangamaji né guardò il bambino, né gli parlò”. La donna allora, che si era allontanata solo di poco, venne a riprendersi il bambino e andò via. Conclusione del sutra: “Con l’occhio divino che è puro e sovraumano il Beato vide tale comportamento scorretto dell’antica moglie del venerabile Sangamaji. Alla luce di ciò in quella occasione il Beato pronunciò i seguenti versi ispirati” “Non si rallegra di lei che viene, né si dispiace di lei che va. Sangamaji, libero da legami, è colui che io chiamo brahamana" ».
2 L’essere nati, albergare in un corpo, disporre di individualità, dalle religioni e dalle filosofie orientali è generalmente considerato un handicap, un ruzzolone dove l’unico vantaggio del momentaneo soggiornare in questa valle di lacrime, che chiamiamo mondo, è quello di voler liberamente rinunciarvi con ferma volontà, per approdare a un nirvana dove l’io scompare fondendosi con l’Assoluto. Viceversa nella tradizione giudaico-cristiana assistiamo al colpo di scena della divinità assoluta che sceglie di diventare uomo. Kenosis dicono i teologi, Iddio che riduce sé medesimo per entrare corporalmente nel mondo, così da salvare i disperati che ci vivono sopra. Riduzione di Dio che eleva all’istante, per effetto speculare, l’individualità di ogni uomo e dunque della storia e della civiltà a Dio. Per certi versi il cristianesimo è l’unica religione che afferma la convenienza, finanche il privilegio, di essere uomini, per l’evidenza che Dio ha voluto esserlo. Non a caso la visione cristiana, a differenza di quelle orientali, ha stimolato un antropocentrismo spinto, con tutte le problematiche storiche, ma anche i vantaggi - ci sarebbe scienza senza una quota di antropocentrismo?- che questa elevazione di Homo sapiens ha comportato. Le radici di questa esaltazione dell’uomo e della sua civiltà attivate dal cristianesimo le troviamo in Agostino, ma Hegel si è spinto forse oltre. L’idealismo filosofico che ha esaltato l’umano pensiero fino a negare l’esistenza autonoma della realtà se sprovvista di noi che la pensiamo, è germinato e ha attecchito nel milieu religioso della tradizione cristiana. Karl Löwith, lucidissimo al riguardo, così illustra ed elabora la tematica: «Nella filosofia della religione di Hegel, in realtà, si tratta innanzitutto di concepire la dottrina dell’incarnazione di Dio, poiché questo dogma si tocca direttamente con la metafisica hegeliana dello spirito finito e infinito. Dio è spirito e solo nello spirito può essere concepita la sua verità; per essenza l’uomo è parimenti spirito e perciò si trova in una relazione essenziale con Dio. Dio e uomo sono in relazione l’uno con l’altro, laddove la natura non ha un proprio rapporto con lo Spirito concepito come Assoluto. […] Ad una simile visione dello spirito quale “vertice” della soggettività, ad un simile far culminare l’universale, infinito Spirito divino in un unico soggetto, è giunto, però, solamente il cristianesimo. […] Il “rovesciamento” rivoluzionario operato dal cristianesimo consiste nel fatto che l’uomo non è considerato più come un essere che fa parte del cosmo e che, a differenza degli dèi immortali, è un essere mortale, piuttosto: è proprio il divino ad essere collocato al vertice della soggettività e Dio stesso ad assumere una natura umana». […] Dal momento che Dio si è rivelato in un singolo uomo storico, è diventato palese l’immane paradosso che non solo Gesù Cristo, ma l’uomo in generale ha una natura divina, che natura divina e natura umana nella loro essenza sono identiche: una identità dialettica, in cui Dio trova nell’uomo la propria autocoscienza». Potente (forse troppo) anabolizzante dell’io umano, roba pericolosa che potrebbe fare male. Male o bene che sia questa singolarità del cristianesimo rispetto alle altre religioni e spiritualità è dato inoppugnabile.
3 Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. 1, pag. 68.
4 Dalle nostre parti dove piuttosto che apparenze preferiamo vedere realtà specifiche e individualità irrepetibili, abbiamo inventato termini come quiddità che dice l'indagine e l'affermazione della specifica singolarità di qualcosa e ecceità che dice e conferma la realizzazione insostituibile e univoca della realtà ultima di un determinato ente.
Contemplazione rurale (bis)
Di fronte alla natura c’è quasi sempre da subire se è percepita come funzionamento, ma invece molto da contemplare se è sentita come flusso discorsivo che si mischia al nostro ordinandolo e potenziandolo.
Contemplazione rurale
Per realizzare un giardino e impararci qualcosa ciò che conta non è l'artefatto di piantumare trecento piante di un centinaio di specie, ma il sapere ritrarsi se il lentisco nel suo crescere soffoca la lavanda, e lasciare che questa marcisca e l’altro rinvigorisca grazie a quel marciume percependoli tutt'uno.
Inconfutabile sensazione
Nell’ascoltarlo trovava davvero giusto quel suo discorrere che partendo da perfette premesse dimostrabili concatenava razionalmente gerarchie di concetti ineccepibili e provati, giungendo a argomentata, circostanziata e puntualissima conclusione definitiva,
ma più trovava esatto quel dire e meno lo convinceva.