Paradossi
Sforniti di intelletto puro e universale ognuno interpreta il mondo a modo suo, per contenere la Babele dei soggettivismi ci confrontiamo con prospettive diverse e utilizziamo la logica, ossia diffidiamo del nostro percepire per affidarci e conformarci a standard prefissati di inferenze, coerenze e sillogismi validanti che ci sono dati. Non so se la logica sia soltanto un congegno che abbiamo architettato per addomesticare il caos, oppure sia legge intrinseca alle cose; logos che ci precede e struttura il mondo, ordine che abbiamo scoperto e formalizzato. Se la logica fosse soltanto una nostra invenzione, una mera tecnica regolativa generale, la circostanza di ricorrere a essa per vedere e comprendere meglio il mondo produrrebbe un bel paradosso, perché darebbe prova che più siamo noi stessi meno vediamo la realtà, meno siamo noi stessi, conformandoci a meccanicismi standard imposti, più la vediamo; in altri termini più si è qualcuno più la visione del mondo si offusca, più si è nessuno più migliora[1]. Può anche darsi che in prospettiva assoluta, eterna, sia proprio così, però nel frattempo, in questo istante tra nascita e morte, non è poi male essere qualcuno[2].
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1 In perfetto stile IA.
2 Forse non è stata una buona idea l’accanirsi di devoti orientali e post-teisti nostrani contro il Dio personale fino a farlo fuori, potevano risparmiarlo, non tanto per lui ma perché cifra della nostra persona.
Linguaggi
Tempo fa avevo visto un video di post teisti sudamericani che si erano inventati una cerimonia simile alla messa cattolica, sostituendo i testi della tradizione liturgica con testi scientifici attinti dall’astrofisica. Risultato bruttino, non un qualcosa di nuovo e credibile ma una misera parodia della messa. Ma com’è che all'interno di schemi rituali se si utilizzano parole mitiche e poetiche, come quelle della messa tradizionale, si produce qualcosa di umanamente vero e credibile, invece adoperando parole scientifiche e reali il messaggio si banalizza? Ricordo che era successa la stessa cosa nel mettere in scena una rappresentazione teatrale. Si trattava del testo biblico di Genesi, intercalato da un mio testo che, estraneo alla rivelazione biblica, indagava l’ipotesi di una possibile esistenza (o inesistenza) di un Creatore, osservando la natura e poggiando sull’umana ragione. Nell’accostare i due testi la cosa inaspettata è che la narrazione biblica invece di uscirne indebolita, perché portata dal confronto con l’altro testo a mostrare la sua fantasiosa sovrastruttura mitico-metafisica, si imponeva, al contrario, autorevole grazie alla sua intrinseca potenza narrativa, mentre il mio testo arrancava nel tenere il passo. Insomma il testo filosofico al confronto con quello liturgico era così misero da non esserci partita. Come non c’è partita al cospetto della morte personale fra i giochetti consolatori alla Epicuro, che constatano che quando noi viviamo la morte non c’è e quando c’è lei non ci siamo noi, quindi non c'è problema, rispetto all'impattante e perlocutorio “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” dell’Apocalisse. Non a caso non c'è ateo di valore che non si sia confrontato con la potenza evocativa e poetica di alcuni libri della Bibbia e dei passi dei vangeli.
Come può accadere che, in certe sfere, ciò che è frutto di fantasia si imponga come realtà, mentre ciò che dovrebbe essere reale, razionale, attuale, appaia se non proprio irreale comunque inconsistente? Consideriamo il rito delle esequie cattolico, non c’è dubbio che sia pura fiction. Però se si facesse uno studio antropologico su lutto e dintorni, verosimile che risulti stimolo effettivo a una proficua elaborazione del lutto proprio quella fiction, rispetto a discorsi razionali e concreti. Non c’è dubbio che siano più veri e affidabili, rispetto alla liturgia dei defunti, un Galimberti che riafferma la nostra condizione mortale, o il teologo progressista che vede salvo il defunto non perché purificato da formule liturgiche, ma in quanto ha accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Ciononostante le drammaturgie liturgiche, religiose o laiche che siano, a differenza del pensiero di Galimberti e del teologo progressista, pur in sé fantasiose e irrazionali diventano potenti e vere se vissute simbolicamente; finzioni che veicolano verità.
Sarebbe bello essere tutti d’un pezzo ma al momento siamo necessariamente doppi, costretti a parlare due linguaggi, nelle loro differenze entrambi corretti nel proprio paradigma. L’importante è non equivocare i due livelli, così da non delirare con linguaggi onirici nel mondo concreto, o vivendo una esistenza priva di qualsiasi trascendere, perché prigioniera di linguaggi adatti solo a misurare e fare di conto. Da una parte il linguaggio della realtà misurabile, dall’altro quello della realtà universale o archetipica, linguaggio simbolico, poetico, che rappresenta idee e concetti al di là di ciò che possiamo concepire con la mente ed esprimere con le parole. Bisognerebbe elaborare una epistemologia che chiedendosi ogni volta: “Di cosa stiamo parlando?” riordini pensiero e linguaggio rispetto ai differenti paradigmi che di volta, in volta, visitiamo. Forse manco serve, anche se pastrocchi dovuti all’equivocare livelli e linguaggi non mancano, il più delle volte è facile distinguere i livelli, come fanno tutti quelli che mettono il fiore alla statua della madonnina nel corridoio dell’ospedale e poi si fanno operare dal chirurgo più capace invece che dal più devoto.
Cifre della trascendenza
Il libro Cifre della trascendenza, Campo dei fiori, Fazi Editore, pag.110 curate da Federico Ferraguto, raccoglie le ultime otto lezioni del filosofo e psichiatra Karl Jaspers (1883-1969) all’Università di Heidelberg nel 1961. Il testo appare rapsodico e fluttuante, complesso, a tratti criptico, sia perché Jaspers nelle sue descrizioni è solito cambiare senza preavviso differenti punti di vista, sia perché il testo trascrive una libera esposizione orale, e specialmente perché le cifre del trascendente “rivelano perché sono linguaggio di una realtà, e nello stesso tempo occultano, perché il loro è un linguaggio dai molti significati (pag. 66)”. Jaspers esordisce così: “Vorrei parlare delle cifre aiutandomi con esempi e frammenti casuali di cifre in forma capace di toccarci”.
Non è, dunque, semplice spiegare cosa siano le cifre della trascendenza, anche perché più che una costruzione concettuale da illustrare sono una esperienza da fare. Per spiegare il poco che ho compreso provo prenderla alla larga, constatando che ci sono tipi umani che sperimentano l’esistenza, propria e del mondo, ovvia e scontata, questi tipi psicologici avvertirebbero le cifre del trascendente elucubrazioni assurde e inutili. Esistono invece altri tipi che partendo dalla consapevolezza che non si sono fatti da soli, sentono che sono più di ciò che conoscono di loro stessi, da qui percepiscono l’esserci evento meraviglioso ed enigmatico che esige un’indagine serrata. Impulso all’esplorazione esistenziale destinato, però, a naufragare per l’inadeguatezza degli strumenti dei quali disponiamo. Il problema è che la conoscenza umana scaturisce dal limitato orizzonte percettivo e mentale che abbiamo a disposizione: sensi corporei, linguaggio, categorie -Jaspers annota che se sparissero le categorie il pensiero umano collasserebbe-, mentre la realtà vivente è qualcosa di incommensurabilmente più profondo, complesso e vasto. Ancora una volta ritorna la notoria opposizione kantiana fra fenomeno, ovvero come la realtà ci appare, e “cosa in sé” ossia la realtà per ciò che è davvero, a noi preclusa per la pochezza del personale sentire e sapere. Il linguaggio cifrato della trascendenza è un modo per superare questo eterno scacco, una strategia per cogliere indizi dell’assoluto che ci è precluso.
Le cifre della trascendenza sono ovunque, ogni cosa può essere cifra, coglierle è mossa fantasiosa in quanto è data ed insieme (da noi) creata, con mosse inconsce e istantanee come quella di artisti, santi, streghe, amanti, poeti e filosofi capaci di sorprendere l’enigmatico oltre che abita l’immanente. “Potremmo dire che il filosofare ha due ali. Una batte per lo sforzo del pensare comunicabile, cioè per una dottrina universale. L’altra batte per l’esistenza del singolo. Lo slancio è dato solo dalle due ali insieme” (p. 109). Trascendenza che andrebbe, dunque, intuita dal singolo e possibilmente comunicata, ma senza interpretazioni che la riducano a un concetto univoco, fisso, oggettivato quindi non più trascendente: “Non devi farti nessuna immagine né simbolo” (Es 20,4). Questo scorgere nel finito un rimando all’infinito senza possederlo e sistematizzarlo ci fa esistere meglio perché genera libertà. La cifra della trascendenza è raccordo con l’oltre e racconto dell’oltre, è metafora giocosa e paradossale, Jaspers ce ne offre un esempio citando uno spiazzante adagio medioevale: “Vengo non so da dove, sono non so chi, morirò non so quando, vado non so dove, mi meraviglio di essere contento” (p. 110).
Le cifre della trascendenza ci emancipano sia dal materialismo meccanicistico e correlate superstizioni scientistiche che percepiscono l’esistenza ovvia e scontata, sia dai fondamentalismi religiosi che pongono un aut aut fra Dio e Nulla, facendo coincidere il rifiuto di Dio con l’avvento del nulla, glissando sull’evidenza dell’esserci mio, dell’altro, della natura e della storia, eventi traboccanti di cifre da cogliere. Ciononostante Jaspers afferma che proprio le confessioni religiose storiche più che il concetto generale di Dio, sono un mezzo per accedere all’assoluto, a condizione che non siano prese alla lettera ma colte, anch’esse, come cifre del trascendente. Va da sé che se lette così le confessioni religiose non possono proclamarsi depositarie di alcuna verità e superiorità; cifre della trascendenza sono presenti nei monoteismi, nei politeismi, nei panteismi, negli ateismi.
Dato che le cifre sono indizio della trascendenza ma non sono la trascendenza, altra strada teoricamente praticabile è quella di rinunciare alle cifre stesse per tendere alla trascendenza in presa diretta, è la via del buddhismo nella rinuncia di sé, dell’altro, del mondo, e dunque rinuncia di ogni immagine che ci raccordi col trascendente. Percorso che Jaspers giudica difficilmente praticabile per chi è nato nel paradigma occidentale: “Ora le tradizioni storiche di cui stiamo parlando esistono in una molteplicità di forme. Possiamo comprendere in questo senso gli dèi personali dell’India o della Cina e condividerli comprendendoli. Ma non ci toccheranno mai da vicino” (pag. 63). Di fronte alla concezione orientale che vede il mondo irreale Jaspers giustamente domanda: ma allora “da dove viene quell’incanto e quella apparenza che ci dice che esiste una realtà?” Sulla problematica Jaspers osserva che le concezioni orientali arranchino nel dare risposte convincenti.
Nelle lezioni quarta e quinta vengono esemplificate tre cifre del divino: la cifra dell’uno, quella del Dio personale e la cifra dell’incarnazione cristiana. Ne risulta un concatenamento di cifre che generano altre cifre, riflessione complessa, difficile. L’indagine della cifra trascendentale dell’uno riprende la differenza kantiana fra l’uno numerico, quello di "un popolo, un Reich, una guida", che produce egoismo e fanatismo e l’uno qualitativo, quello divino neoplatonico principio supremo che emana la realtà che, all’opposto, genera pluralismo cooperante. Nella cifra del Dio personale Jaspers vede “L’uomo che sa di essere donato a se stesso nella sua libertà da parte della trascendenza” (pag. 59). Il concetto del Dio fisico viene colto già nell’antico testamento prima dell’incarnazione di Gesù. La circostanza che l’inafferrabile Dio, il “Colui che è”, abbia una consistenza fisica e che non stia dappertutto ma da qualche parte precisa, sul Sinai in un roveto ardente o alle querce di Mamre oppure in cielo, secondo Jaspers è circostanza che “ha dato una efficacia eccezionale attestata dalla storia occidentale”(pag. 64). Le cifre Jaspersiane permettono una spiritualità laica libera da pregiudizi illuministici e riduzionistici che rifiutano, a priori, qualsiasi religione rivelata giudicandola mera superstizione, recuperandola come cifra della trascendenza, simbolo del tentativo umano di raggiungerla.