Tempo fa avevo visto un video di post teisti sudamericani che si erano inventati una cerimonia simile alla messa cattolica, sostituendo i testi della tradizione liturgica con testi scientifici attinti dall’astrofisica. Risultato bruttino, non un qualcosa di nuovo e credibile ma una misera parodia della messa. Ma com’è che all'interno di schemi rituali se si utilizzano parole mitiche e poetiche, come quelle della messa tradizionale, si produce qualcosa di umanamente vero e credibile, invece adoperando parole scientifiche e reali il messaggio si banalizza? Ricordo che era successa la stessa cosa nel mettere in scena una rappresentazione teatrale. Si trattava del testo biblico di Genesi, intercalato da un mio testo che, estraneo alla rivelazione biblica, indagava l’ipotesi di una possibile esistenza (o inesistenza) di un Creatore, osservando la natura e poggiando sull’umana ragione. Nell’accostare i due testi la cosa inaspettata è che la narrazione biblica invece di uscirne indebolita, perché portata dal confronto con l’altro testo a mostrare la sua fantasiosa sovrastruttura mitico-metafisica, si imponeva, al contrario, autorevole grazie alla sua intrinseca potenza narrativa, mentre il mio testo arrancava nel tenere il passo. Insomma il testo filosofico al confronto con quello liturgico era così misero da non esserci partita. Come non c’è partita al cospetto della morte personale fra i giochetti consolatori alla Epicuro, che constatano che quando noi viviamo la morte non c’è e quando c’è lei non ci siamo noi, quindi non c'è problema, rispetto all'impattante e perlocutorio “Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte, né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” dell’Apocalisse. Non a caso non c'è ateo di valore che non si sia confrontato con la potenza evocativa e poetica di alcuni libri della Bibbia e dei passi dei vangeli.
Come può accadere che, in certe sfere, ciò che è frutto di fantasia si imponga come realtà, mentre ciò che dovrebbe essere reale, razionale, attuale, appaia se non proprio irreale comunque inconsistente? Consideriamo il rito delle esequie cattolico, non c’è dubbio che sia pura fiction. Però se si facesse uno studio antropologico su lutto e dintorni, verosimile che risulti stimolo effettivo a una proficua elaborazione del lutto proprio quella fiction, rispetto a discorsi razionali e concreti. Non c’è dubbio che siano più veri e affidabili, rispetto alla liturgia dei defunti, un Galimberti che riafferma la nostra condizione mortale, o il teologo progressista che vede salvo il defunto non perché purificato da formule liturgiche, ma in quanto ha accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Ciononostante le drammaturgie liturgiche, religiose o laiche che siano, a differenza del pensiero di Galimberti e del teologo progressista, pur in sé fantasiose e irrazionali diventano potenti e vere se vissute simbolicamente; finzioni che veicolano verità.
Sarebbe bello essere tutti d’un pezzo ma al momento siamo necessariamente doppi, costretti a parlare due linguaggi, nelle loro differenze entrambi corretti nel proprio paradigma. L’importante è non equivocare i due livelli, così da non delirare con linguaggi onirici nel mondo concreto, o vivendo una esistenza priva di qualsiasi trascendere, perché prigioniera di linguaggi adatti solo a misurare e fare di conto. Da una parte il linguaggio della realtà misurabile, dall’altro quello della realtà universale o archetipica, linguaggio simbolico, poetico, che rappresenta idee e concetti al di là di ciò che possiamo concepire con la mente ed esprimere con le parole. Bisognerebbe elaborare una epistemologia che chiedendosi ogni volta: “Di cosa stiamo parlando?” riordini pensiero e linguaggio rispetto ai differenti paradigmi che di volta, in volta, visitiamo. Forse manco serve, anche se pastrocchi dovuti all’equivocare livelli e linguaggi non mancano, il più delle volte è facile distinguere i livelli, come fanno tutti quelli che mettono il fiore alla statua della madonnina nel corridoio dell’ospedale e poi si fanno operare dal chirurgo più capace invece che dal più devoto.