Nel leggere “Confessioni estatiche” di Martin Buber (1878 –1965), classica carrellata di scritti mistici di differenti religioni e tradizioni sapienziali, non sono riuscito a ottemperare per tutte le pagine la giusta indicazione dall’Autore-curatore, che nella premessa invita a non inquadrare l’estasi spiegandola da un punto di vista psicologico, fisiologico o patologico, ma vedendola invece come esperienza vivente di essere umani che dicono “della propria anima e del proprio indicibile segreto”.
Terminata la lettura della raccolta si realizza che l’esperienza estatica non è esprimibile con la parola, eppure ci sono stati mistici che attraverso le parole la indicano e la evocano, stimolando la nostra intuizione verso ciò che sta dietro e oltre quel dire. Negli resoconti estatici riportati da Buber questo irrazionale razionalissimo oltre talvolta arriva, talvolta no. Questo arrivare o non arrivare non è dato dalla capacità o dalla incapacità del mistico-scrittore di utilizzare stratagemmi linguistici capaci di comunicare l’incomunicabile, ma dalla potenza dell’esperienza estatica, quando c’è, se c’è, la sua onda lunga si riversa nelle parole impregnandole.
Il problema è che in alcuni mistici questa parola impregnata espande all’istante la nostra limitata condizione, ma in altri restringe e nausea come fa il profumo di caprifoglio, le beghine ne sono spesso infradiciate, profumo così dolciastro da virare a note fecali. Qui una interpretazione psicologica, fisiologica o patologica del mistico, e della suscettibilità del lettore nei suoi confronti, ci può anche stare.