Nel suo ultimo saggio “Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza” (Donzelli, 2021), il filosofo Orlando Franceschelli affronta la problematica del male e della sofferenza universale, che oggi e da sempre è cifra del nostro esistere. L’operazione di correlare pedagogia e mali, che il titolo esprime, già dice il pensiero dell’Autore: non solo un invito a fronteggiare, come persone e come cittadini, i mali e le sofferenze comuni che inevitabilmente incontriamo attuando strategie di resistenza e resilienza, ma -ex malo bonum- anche a interpretare e trasformare il mondo apprendendo dalla sofferenza e elaborando i suoi mali come opportunità per migliorarlo, perché la filosofia, se è buona filosofia, ci offre mappe, strumenti e consapevolezze per trarre dal male occasioni di bene.
Telmo Pievani, nella prefazione, ben sintetizza questa consapevolezza che ci “richiama alle nostre responsabilità di costruttori di mondi, smonta gli alibi di chi non vede mai alternative, invoca la conoscenza di sé stessi e la volontà di migliorarsi”.
Il testo assai concentrato in poco più di 150 pagine illustra e elabora gli attuali mali comuni planetari -emergenza climatica, pandemia-sindemia da Covid, migrazioni- proponendo una pedagogia della sofferenza che, necessariamente, tiene conto e si confronta criticamente con le strategie di pensiero-azione che ci hanno preceduto; dagli stoici fino a Hegel e Nietzsche, dall’anti-naturalismo dell’idealismo e del e neoidealismo al trans-umanesimo, passando per Goethe, Feuerbach, Marx, Darwin.
Nel lucido confrontarsi con la visione cosmogonica degli stoici, che interpretavano ogni circostanza, disgrazie incluse, espressione dell’ordine provvidenziale dell'universo da accettare pazientemente, Franceschelli coglie una atarassia anti-umana che urge d’essere superata. Vero che ci sono eventi che la vita dispensa che non possiamo per nulla cambiare, nondimeno vero che ce ne sono altri che invece possiamo cambiare; vero che ci sono cose spiacevoli tuttavia ce ne sono anche di piacevoli. Un conto è dunque la stoica dis-umana imperturbabile accettazione di tutte le cose così come sono, in quanto architettate da una presupposta regia superiore -non cade foglia che il dio non voglia-, altra è vivere condividendo umanamente le gioie e supportandoci nella sofferenze mentre proviamo a cambiare le cose che possiamo cambiare e, a maggior ragione, mentre viviamo le cose che non possiamo cambiare: “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza.” (Serenity Prayer)
Nel confrontarsi con le elitarie benedizioni danzanti di Nietzsche, che non disdegnano, anzi auspicano tra un passo di danza e l’altro, di colpire spietatamente l’ultimo giudicandolo malriuscito, Franceschelli si oppone con fermezza. Nel rendicontare, nel tragico quadro dell’antropocene, le pretese di redenzione futuristiche del trans-umanesimo tecnologico, annota ingenui velleitarismi e tracotanza antropocentrica (hybris), inoltre le conquiste biotecnologiche e l’ipotetica colonizzazione di altri pianeti, se nel nostro le cose volgeranno all’irrimediabile, sarà per tutti o solo per qualche privilegiato?
Nel proporre la sua prassi Franceschelli opta sovente per il termine agentività invece che azione, così da sottolineare la necessità di iniziativa personale. L’Autore propone da tempo le problematiche delle comuni sofferenze e l’invito all’eco-appartenenza solidale con tutti gli essere senzienti, ma questa volta è stato, forse, ancora più preciso, rigoroso, equilibrato e convincente, nell’illustrare e proporre la sua visione sociale di naturalismo solidale, sempre esauriente e preciso nell’esposizione e nei riferimenti a “vivere come si deve” (Montaigne).