Moriremo e lo sappiamo, ma pur al cospetto della ineluttabile sovrastante imminenza gli abitanti del mondo invece di terrorizzarsi e pietrificarsi tirano dritto abbastanza disinvolti. La spiegazione più immediata, e ritrita[1], è interpretare questa diffusa scioltezza prodotta da rimozione che attiviamo in massa per anestetizzare l’angoscia di non esserci più.
Kafka va oltre: “L'uomo non può vivere senza una costante fiducia in qualcosa d'indistruttibile dentro di sé, anche se quell’indistruttibile come pure quella fiducia possono rimanergli costantemente nascosti. Una delle possibilità di esprimersi, per tale rimanere nascosto, è la fede in un Dio personale”[2].
La fede in un Dio personale è, dunque, una forma un po’ naif di cogliere, svelando e insieme nascondendo[3], questo nucleo personale che percepiamo immortale. Kafka, volutamente ambiguo, lascia in sospeso se tale nucleo sussiste di per sé precedendoci o è invece un nostro artefatto tanto ancestrale e così profondo da costituirci. Di fronte alla morte personale ci vuole tanta fede e una sterminata fantasia per almanaccare che quel quid senziente e pensante, prima dentro a uno specifico corpo e poi non più, sia migrato in qualche paradiso dove, ancora cosciente di se stesso, abbracci i cari che lo avevano preceduto, ma è forse necessaria ancora più fede e più fantasia per sentenziare, opponendosi alla spontanea percezione comune, che quell’io sia definitivamente e irrimediabilmente sparito come se non fosse mai esistito.
Di fatto come sentiamo il caldo e il freddo così abbiamo l’istantanea percezione che siamo costituiti da un nucleo indistruttibile che sentiamo affidabile, è per questo che tiriamo avanti. A ben vedere perché si inneschi l’angoscia di morte dobbiamo prendere iniziativa distanziandoci da questa percezione immediata, innata e spontanea[4] di immortalità, per inoltrarci in paradigmi discorsivi. A volte per infognarsi occorre impegno.
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1 In effetti orfani di monaci domenicani medievali che latrando dal pulpito ci rammentano che dobbiamo morire, così che possiamo prenderne nota, la rimozione imperversa. Devoto irriducibile del memento mori ci è però rimasto Umberto Galimberti che, seppur nuoti in tutt’altro paradigma rispetto a quello dei monaci cristiani, sa esprimere la stessa vis drammatica.
2 Kafka, Die Zürauer Aphorismen.
3 Le narrazioni svelano se narrazioni rimangono, prese alla lettera collassano e nascondono.
4 Noesi la chiamano i filosofi, i bambini nel caso di specie la esercitano in massimo grado percependosi assolutamente immortali. "In verità io vi dico: se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli".