BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Bruno Vergani

Bruno Vergani

Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.

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Mercoledì, 25 Giugno 2014 08:24

Smisurate misure

C’è chi afferma l’illimitato smisurato Eterno Infinito e chi si oppone proclamando il circoscritto a tal punto da interpretare cosmo e uomo funzionamenti misurabili al pari della termodinamica.

Diffido dell’illimitato ma cerco una terza via perché mica mi convince definire una persona guasta quando ammalata e rotta quando morta.

Lunedì, 23 Giugno 2014 09:12

L’attimo opportuno

C’è un modo graduale per capire, sciogliere nodi, spiegare, conquistare l’inedito e ottenere soddisfazione.

C’è anche un modo istantaneo: occorre pensiero attento e un accidente di quelli giusti.
Siccome l’accidente stimolante arriva a capocchia e la fortuita combinazione pensiero/accidente dura un istante è necessario vigile tempismo. Non è finita perché l'intuizione ottenuta si scioglie rapida come neve al sole. Matita e taccuino aiutano a non perderla.

Giovedì, 19 Giugno 2014 08:25

Genere Homo, specie sapiens

La fraternità se universale non espelle i propri simili quando assassini, ma indagando la potenzialità criminale della specie scorge l'intima prossimità di ciascuno con loro.

Domenica, 15 Giugno 2014 11:52

Epistematico

I filosofi chiamano epistematico l’emanciparsi dal paciugo di “tutte le cose” per dire puntuali e l’uomo normale onora l’episteme affermando: «Di che cosa stiamo parlando?» ma è forse il poeta quello che ha compreso tale metodo meglio di tutti.

Che strano dovrebbe essere mera faccenda di scienziati.

Sabato, 14 Giugno 2014 08:37

Naturalismo, il dialogo-ricerca continua

Dal blog di Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

Il dialogo con Orlando Franceschelli continua...

 L’universo ha un creatore provvidente o è una fucina autogena di vita ?  E – di conseguenza – l’essere umano è il punto di arrivo di un progetto intelligente o piuttosto uno degli innumerevoli prodotti casualmente emersi a un certo punto dell’evoluzione? E – infine -  la morte per il soggetto individuale  costituisce un passaggio verso la vita piena o, al contrario, la dissoluzione senza ritorno? Orlando Franceschelli, filosofo romano già noto per i suoi testi dedicati a Karl Loewith e a Charles Darwin, nella sua ultima opera (Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia, Donzelli, Roma 2014) espone, in forma quasi sistematica, le proprie risposte a tali ineludibili questioni.
   L’opzione metodologica è il “criterio epistemologico della plausibilità”(p. 4): una teoria filosofica  può “legittimamente pretendere” di essere riconosciuta come plausibile se “soddisfa il duplice requisito della compatibilità  con la scienza e della validità argomentativa” (p. 14).  Tale prospettiva “sollecita non solo a praticare scrupolosamente il principio di carità interpretativo”, ma anche “la disponibilità a rivedere le proprie tesi” (ivi).
   Tra le teorie filosofiche che rispettano il criterio della plausibilità l’autore rivendica un posto per il “naturalismo (e ateismo) metodologico” (p. 18): spiegare gli eventi naturali iuxta propria principia, senza far ricorso a “entità e fattori soprannaturali” (pp. 20 – 21). Seguendo questa direttiva metodologica si arriva ad una  visione del cosmo caratterizzato da “autarchia ontologica, contingenza evolutiva e sovrumanità della realtà fisica” (p. 22). Coerente con questa cosmologia risulta l’antropologia: l’uomo non più capax Dei bensì capax naturae (cfr. pp. 27 – 31). “L’antropologia dell’ecoappartenenza”  implica, tra altre caratteristiche, “la consapevolezza che l’uomo e la sua storia non costituiscono il fine dell’esistenza e dei processi evolutivi della natura, il cui accadimento si protrarrà – con le stesse sterminate vicissitudini temporali di quando ancora non c’eravamo – anche dopo che noi non ci saremo più. Con ogni probabilità neppure come specie e certamente come individui destinati a morire” (pp. 71 – 72).
       Una concezione del cosmo e dell’uomo di tal genere esclude qualsiasi ipotesi di felicità? Franceschelli lo nega con fermezza e, a riprova, delinea una vera e propria “etica dell’ecoappartenenza” (p. 73) incentrata sull’impegno a   “ricercare, definire e vivere una felicità  che effettivamente sappia alimentarsi, per quanto ci è possibile, di piacere, saggezza e virtù. E perciò sappia essere anche concretamente solidale” (p. 139). Un impegno che si lascia riassumere nella Regola Aurea che l’autore propone di riformulare così: “fai per la fioritura della felicità degli altri tutto ciò che ritieni possibile e vorresti fosse fatto per la fioritura della tua felicità” (p. 154). Nonché di estendere “i diritti al benessere e alla felicità anche agli altri animali non umani ma senzienti, in sintonia con prospettive morali non più antropocentriche e speciste ma sensiocentriche” (ivi).
       La “saggezza della felicità possibile e solidale” non esclude “la conspevolezza e la memoria della sofferenza o memoria passionis, per dirlo con questa  pregnante nozione usata dai teologi quando opportunamente invitano a far rientrare anche  <<l’autorità dei sofferenti>> tra le voci dell’odierno pluralismo. Si tratta appunto non di una contrapposizione ma di un legame, nel senso che continuare ad aspirare alla felicità anche quando si prova sofferenza e ad essere consapevoli e memori di ogni sofferenza anche mentre si è felici, consente di vivere tutta la propria felicità in un modo ancora più sereno, gradevole e autentico” (p. 156).
                                                         ***
   Come tutti i libri meditati a lungo, e altrettanto a lungo sperimentati esistenzialmente, questo di Orlando Franceschelli suscita miriadi di riflessioni e di domande.
    La prima non può non riguardare l’impianto epistemologico: se una teoria (nel nostro caso il naturalismo) risulta “plausibile”, significa che si affianca ad altre possibili teorie altrettanto plausibili o che le esclude?  Nel testo mi pare di cogliere in proposito una certa oscillazione: talora sembrerebbe che l’autore chieda “soltanto” diritto di cittadinanza alla propria prospettiva al pari del creazionismo monoteistico, talaltra che neghi tale par condicio al creazionismo monoteistico. Forse l’apparente contraddizione si scioglie ammettendo che, in linea di principio, ci potrebbero essere per l’autore anche altre teorie plausibili sul mondo e sull’uomo; ma che in linea di fatto il creazionismo monoteistico non rientri fra queste altre possibili teorie plausibili.
    Questa ipotesi interpretativa suggerisce ai pensatori creazionisti una seria revisione della propria proposta teoretica. Questi ultimi, infatti, tendono quasi sempre a suffragare la propria tesi della dipendenza ontologica, radicale costante, del mondo da Dio sulla base della Bibbia (tradotta, magari, in linguaggio tecnicamente filosofico). Ma è un procedimento due volte fragile. Prima di tutto perché, in sede esegetica, si è appurato che la Bibbia non propone una creatio ex nihilo bensì una sorta di plasmazione della materia caotica originaria con cui Dio stesso per così dire si affatica. Secondariamente perché, ammesso e non concesso che la Bibbia professasse la creatio ex nihilo,  una professione di fede non possiede nessuna plausibilità (nel doppio senso illustrato da Franceschelli: compatibilità con le acquisizioni scientifiche e rigore logico-argomentativo). Conclusione sul tema: il monoteismo creazionistico non va presentato come un dato di fede, ma come una delle teorie filosofiche elaborate nell’alveo della tradizione cristiana (indubbiamente suggestionata da intuizioni poetiche contenute nei Testi canonici), la cui attendibilità è affidata esclusivamente alla sua “plausibilità”. Al punto che si potrebbe essere cristiani (o ebrei o musulmani) pur non condividendo il monoteismo creazionistico e si potrebbe condividere il monoteismo creazionistico senza essere cristiani (o ebrei o musulmani). Chiarisco questo aspetto metodologico non per risolvere la questione che pone Franceschelli (la natura o è autarchica ontologicamente o non è natura: la nozione di “natura creata” è una contradictio in adiectis), ma per indicare il piano corretto (a mio avviso) su cui discuterla.
     Se sul piano teoretico Franceschelli non appare per nulla morbido con i credenti cristiani, molto più conciliante si mostra sul piano etico. Egli infatti dedica un intero paragrafo (pp. 48 – 53) a una sorta di alleanza pratica con i discepoli del vangelo (che, per via dell’equivoco appena segnalato e di cui il pensiero cristiano è il primo responsabile, Franceschelli identifica tout court con i sostenitori del “teorema-creazione”): “Provare a dirsi il meglio tra simili del samaritano: per una laica e solidale civiltà del dialogo” (p. 48). Da una parte, dunque, l’autore sollecita i “naturalisti” come lui “a un compito propositivo che per essere realmente assolto ha bisogno non tanto di militanza anti-teista, ma del conforto  di evidenze empiriche, di argomenti validi, di condotte pratiche che sobriamente comunichino la plausibilità e la saggezza del naturalismo anche a chi naturalista non è”; dall’altra, poi, chiede ai credenti “un analogo atteggiamento di costruttiva laicità che l’odierno pluralismo richiede anche a ogni testimonianza di fede realmente adulta, ossia impegnata anch’essa a ceracre ragioni plausibili al proprio credere” (p. 50).
    A margine di questa proposta di alleanza sinergica mi limito a due sole osservazioni. Franceschelli avrebbe potuto essere sia più esigente che più riconoscente con gli interlocutori cristiani. Più esigente su un tallone d’Achille dell’etica cristiana: l’insensibilità verso gli altri viventi (dal momento che l’antropocentrismo biblico coniugato con l’umanesimo greco ha finito col privilegiare “le capacità razionali e discorsive” dimenticando “quelle di provare dolore e piacere, innegabilmente possedute anche dagli animali non umani ma appunto senzienti” (p. 154).  Più riconoscente riguardo alla testimonianza storica  del mondo cristiano sul versante della solidarietà sociale. Infatti, a mio avviso, se è vero che  - sulla carta – naturalisti e credenti nel vangelo concordano “nell’ammonimento della Regola Aurea a fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi stessi” (p. 49), in concreto la saggezza naturale induce i filosofi a porre dei limiti abbastanza netti alla propria autodonazione oblativa. Non perché non vogliono fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a loro; solo che non si aspettano che qualcuno  - dopo averli filantropicamente sostenuti in varie necessità – sia perfino disposto a dare la vita per loro. Tra i tanti che hanno notato questo surplus motivazionale dei credenti sugli altri un intellettuale, come Paolo Flores D’Arcais,  che non eccede in indulgenza con le chiese cristiane: “praticare la solidarietà effettiva e il primato del tu implica un dovere di sacrificarsi (perché l’eguale dignità non resti retorica) che riesce in genere solo se si ha fede in un  Altro (inteso proprio come Dio padre). […]. La pietra d’inciampo per l’ateo è l’incapacità della carità” (P. Flores D’Arcais, Dio esiste?, “Micromega”, 2/2000, p. 40).

Articolo pubblicato su sul sito www.tuttavia.it di giovedì 12 giugno 2014.
Queste pagine sono particolarmente dedicate ai partecipanti alla Festa della filosofia d'a-Mare che si è svolta a Favignana dal 2 al 4 maggio 2014.


Sulla medesima tematica vedi: «Elogio della felicità possibile»

Venerdì, 13 Giugno 2014 21:22

Intelligente sarai tu

Avevo saputo qualcosa di Paul Valéry per sentito dire e apprezzato qualche suo aforisma incontrato qua e là senza avvertire la necessità di leggerlo per davvero, ma oggi una risolutiva annotazione di Benedetto Croce:

« Fa a volte bei versi, ma li fabbrica con la macchina dell'intelletto... Ma anche l'intelletto suo è disorganico, frammentario. È un dilettante dell'intelligenza.»

Rapido ho ordinato un suo libro.

Giovedì, 12 Giugno 2014 09:41

Corrispettivi

Il senso religioso risponde sovente alla Teoria della mancanza, le dottrine integraliste reagiscono alla Teoria del Male assoluto e gli afflati esistenzialisti sono correlati alla Teoria del Nulla.
Relati non possono sussistere per forza propria, così nell’indagare le Teorie che, in presa diretta, li producono barcollano, nel confutarle collassano, nell’affermarle risorgono.

Risposta congrua al «chissà perchè?» non ci si abitui al «niente è vero» - della canzone «Dannate nuvole» di Vasco Rossi - scegliendo di vivere e lavorare ancora, deriva dal constatare che la prospettiva del Nulla assoluto, sulla quale poggia il testo del brano, non è “verità” ma pressupposta teoria tutta da dimostrare.

Dannate nuvole, Vasco Rossi.

«Quando cammino su queste
Dannate nuvole
Vedo le cose che sfuggono
Dalla mia mente
Niente dura, niente dura
E questo lo sai
Però
Non ti ci abitui mai

Quando cammino in questa
Valle di lacrime
Vedo che tutto si deve
Abbandonare
Niente dura, niente dura
E questo lo sai
Però
Non ti ci abitui mai

Chissà perchè?
Chissà perchè?
Chissà perchè?

Quando mi sento di dire la “verità”
Sono confuso
Non son sicuro
Quando mi viene in mente
Che non esiste niente
Solo del fumo
Niente di vero
Niente è vero, niente è vero
E forse lo sai
Però
Tu continuerai

Chissà perchè?
Chissà perchè?
Chissà perchè?»

Martedì, 10 Giugno 2014 10:44

Aut aut

Mica risolviamo tutte le complessità col linguaggio binario e neppure ci spezziamo nell’affrontare dilemmi perché capaci di intuizione e (quasi) sano compromesso. E perché mai nel votare siamo costretti, nel metodo, all’aut aut della scelta obbligata di partiti in alternativa tra loro?
Alle recenti amministrative avrei voluto dare il 65% del mio libero voto a un partito, il  25% a una lista civica e il restante 10% a un altro partito che, anche se non mi piaceva, aveva uno bravo in lista che meritava preferenza. Mi sembra ragionevole.

Sabato, 07 Giugno 2014 16:59

Le scarpe del morto

Avevo sofferto per la morte di mio padre, lo pensavo e mi mancava, ma trascorso qualche mese avevo trovato le sue scarpe nel ripostiglio. Erano quelle vissute, stivaletti marroni logori che usava per lavorare in campagna.

Siccome dovevo sistemare il prato li avevo calzati. Nel tagliare l’erba pensavo a lui e nel guardarmi le scarpe avevo sentito la sua presenza dentro di me, più o meno nello stomaco. Percezione inequivocabile: era vivo in me. In quell’esperienza un po’ antropofaga il dolore si era sciolto. Inaspettatamente potenti le scarpe del morto.

Venerdì, 06 Giugno 2014 10:03

Elogio del «?»

I libri filosofici meno utili sono forse quelli caricati di parole implementate per colmare difetti e vaghezza di ragionamento, parole che tentano di rappezzare in corso d’opera passaggi viziati del discorso che così si corrompe in perpetuo.
Più dicono più complicano. Più complicano più dicono.
In tal caso sarebbe proficuo, per tutti, che gli autori di tanto in tanto raggiungano meta nell’affermare un espresso e consapevole «non lo so».

Mica il lettore cerca un assoluto e definitivo sapere, ma stimolo al personale pensare. Meglio, dunque, qualche punto interrogativo che stimoli risposte invece che noiosissimi passaggi rompicapo a oltranza che nulla risolvono. Se all’autore non piacciono i punti interrogativi remi, poi scriva preciso e semplice. Il problema è tutto suo.

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