Funzionamenti
Non mi piace la filosofia quando esige corretto funzionamento, quando giudica scorretto ogni dire fluttuante, danzante, a priori. Quando valuta l’intuizione delirio oracolare e rigetta aforismi estemporanei esigendo, senza mai transigere, “scientifici” argomenti a posteriori. Il filosofo più funzionante, quello accademico, passa la vita a leggere altri filosofi poi diligente li ricapitola in ordine, come un contabile sul libro dei corrispettivi, tira le somme e omettendosi le divulga. Comprensibile, quando così, la diffusa disaffezione alla disciplina.
Non mi piace neanche una ecoappartenenza a un presupposto funzionamento cosmico perché l’universo si espande strano e non è escluso che il percepirsi coautori, invece che infinitesimali elementi dell’ingranaggio, sia più vicino alla realtà che al delirio.
Funzionare è fungere: adempiere obbedienti a un ufficio senza averne nomina e grado, assolvere la funzione di qualche altra cosa. Mica è umano.
Elogio della normalità
Idealizzare sé stessi è aprire porte a forze che ci rendono insoddisfatti: sentimenti di grandezza, di inquietudine del cuore e di struggimento per desideri di bellezza e di pienezza smisurati, assoluti.
Tutto sommato è proprio nell’idealizzazione di sé, nella recondita concezione della personale unicità superiore all’Altro, a tutti gli altri, che si annida ogni timidezza nel potenziale disprezzo di sé medesimi, inevitabile altra faccia della medaglia di ogni idealizzazione.
Meglio, ben consapevoli del personale limite, la pacata soddisfazione invece di impotenti onnipotenze.
Spiritato eroico furore
Entusiasmo dal greco enthusiasmòs: "indiamento".
Singolare che "indiamento" sia lemma raro e circoscritto invece "indiavolamento" imperversa, ma va bene così: tutto sommato sono quasi sinonimi.
I dizionari dicono che in latino enthusiasmòs si trasforma in “fanaticus” «ispirato da una divinità, invasato da estro divino, derivato di fanum "tempio"».
Invasati sani sono solo i gerani eppure quanta prossimità nel satanismo provinciale e in quello di scrittori romantici e dacadenti con la mistica religiosa, strano che siano rivali.
Elogio della felicità possibile
Una prospettiva filosofica capace di offrire motivate plausibilità invece che verità fossilizzate in presupposte perfezioni, risulta affidabile, piacevole, coinvolgente e proficua. Così è il saggio di Orlando Franceschelli «Elogio della felicità possibile» con sottotitolo «Il principio natura e la saggezza della filosofia». Saggio filosofico che, pur nella sua esauriente e valorosa esposizione del naturalismo, si stenta a sistematizzare in categorie di pensiero precostituite perché bilancio di un uomo di pensiero che giunto a maturità del suo percorso dice, diretto e onesto, risposte ai temi cruciali dell’esistere. Complessità che l’Autore semplifica senza anestetizzare - indizio preciso di forza e di competenza – fruibile, dunque, anche ai non filosofi di professione, se volenterosi. Risulterebbe una perdita omettere questo rapporto diretto Autore-lettore, da uomo a uomo, smarrendosi nel confutare intellettualmente o ideologicamente alcune tesi del saggio, o viceversa nell’accettarlo dottrinalmente riducendolo a manuale del naturalista ortodosso. L’opera esige e stimola, in ogni passaggio, interazione personale fluttuante e laboriosa in presa diretta.
Nel libro è esposto il naturalismo filosofico nella sua complessa totalità: viene definita la sua contiguità alla scienza senza esserne inglobato (“la plausibilità, non la verità o lo scientismo”). Del naturalismo viene dettagliata la tradizione antica e consolidata; gli sviluppi post-moderni; esposto il metodo; l’umanesimo peculiare; analizzato il suo rapporto col tempo e con le nuove frontiere aperte dalla fisica teorica. Vengono indagati i possibili equivoci nel suo sviluppo e approfondito il rapporto dialettico con le differenti filosofie e visioni della realtà. Una “saggezza della verità possibile” che, inevitabilmente, si confronta e collide con le Teorie di redenzione escatologica della contingenza correlate alla tradizione platonico-cristiana e ai connessi surrogati storici, non necessariamente religiosi. Arguta la diagnosi di questi ultimi: nichilismi e esistenzialismi di pensatori che percependosi in esilio, “gettati” nel mondo da Entità misteriose, anelano nostalgici a metafisiche risolutive, sovente apparentemente estranee alla religiosità invece dirette traduzioni secolari contaminate da insidiose cripto-teologie onnipervadenti. Teorie ontologiche della mancanza che propongono felicità eterne sovrannaturali e che trovano, nella visione dell’Autore, inaspettati amici Agostino e Kant.
Diffidando dell’eterno e dell’infinito, fronteggiando qualsiasi soprannaturale, il naturalismo propone un definitivo “congedo naturalistico da ogni felicità (e potenza) perfetta”. Coraggioso (anti)eroismo ontologicamente autartico ben consapevole del personale limite, del dolore e della morte, capace di una felicità parziale, imperfetta e in divenire, ma proprio per questo possibile nella motivata e realistica saggezza del presente, invece che in immaginarie esaltazioni consolatorie proiettate nel futuro.
Nel saggio è affrontata l’umana sofferenza e la morte. Dalla personale - Ars moriendi - rispetto alla quale il naturalismo coltiva “una plausibile familiarità”, alle tragedie collettive con riferimenti storiografici precisi - Primo Levi, Shoah, desaparecidos - noncurante di Enti assoluti quali la Morte, il Dolore, quelli rigorosamente con l’articolo determinativo e in maiuscolo, cari ai teismi e ad alcune filosofie.
Eppure in tanto rigore è proposto un naturalismo aperto e capace, in una “antropologia dell’ecoappartenenza”, di dialogo con la teologia e la metafisica. Un umanesimo in prospettiva post-cristiana non anti-cristiana. Da qui una critica articolata nei confronti di Nietzsche: «E’ nella pace e nella gioia dell’eudaimonia, non nella lotta, che siamo interessati e in grado di trascorrere e godere il nostro presente.»
Motivo di moderata perplessità nel merito riguarda i “rimpianti antropocentrici”, per i quali trovo solidi motivi di ragionevolezza, ma che il naturalismo giudica pregiudizio liquidandoli con una rasoiata. Eppure nel sovrumano accadimento del mondo è proprio e solo nell’uomo che la natura diventa consapevole di sé stessa, lo dimostra preciso, plasticamente, il saggio in oggetto dalla prima pagina all’ultima. Faccenda strana una “fucina cosmica” generante - seppur non ontologicamente ma evolutivamente - soggetti capaci di pensiero sovrano, abili nell’inferenza al punto di potersi emancipare da funzionamenti naturali e decreti biologici. Sensibili nel percepire con profitto personale il profumo dei fiori di ginestra, come in un bellissimo passaggio Franceschelli annota di Leopardi. E che sarà della apatica ginestra su uno scoglio irraggiungibile? E di quella che incontra l’erborista chiamandola Cytisus scoparius raccogliendone i fiori per estrarne l’alcaloide sparteina tanto benefica nelle aritmie?
Ma la natura è quello che è o quello che pensi?
Orlando Franceschelli
Elogio della felicità possibile
Il principio natura e la saggezza della filosofia
Donzelli editore 2014
Matrice e cedolino
Palermo centro. Il bus per la Puglia imbarca i passeggeri e l’autista controlla i biglietti. Lo conosco è quello tarchiato, quello messinese di Destra, calvo eppure simpatico. Strappa la matrice dal biglietto del secondo passeggero che conserva e restituisce il cedolino, ma strappa storto e pignolo lo strappa ancora per raddrizzarlo gettando per terra la striscia di carta che si è prodotta per raddrizzarlo. Penso di raccoglierla per buttarla nel cestino dei rifiuti, ma ho un temperamento conciliante e desisto: mica voglio offendere il messinese con ostentato civismo.
L’autogiustificazione irrompe rapida: la via è piena di carte e altre peggiori schifezze perché dovrei raccogliere solo quella carta e tutto il resto no? E perché io?
Mentre considero che mica posso prendermi il mondo sulle spalle vedo uno che raccoglie il pezzo di carta deciso, lo conosco bene è un filosofo kantiano. Il messinese manco si accorge dell’atto politico universalizzabile con generale profitto, io si con ammirata simpatia mischiata a un temporaneo, esile, senso di colpa.
Lo so, le morali assolute mi procurano mescolanza disordinata di pensiero.
Sistematica Zoologica
Suona male leggere in una biografia che il protagonista è “Vegano”, ricorda la catalogazione di un animale, quella di Regno-Classe-Ordine-Famiglia-Genere-Specie.
Anche “Veganismo” non suona bene, evoca l’infiammazione di un qualche organo del basso addome.
Meglio la definizione “Veganesimo etico”.
Favignana, Festival della filosofia.
Isola di Favignana, inizio di maggio. Luigi Lombardi Vallauri parla a cinquanta partecipanti. Con gli occhi chiusi e un piacevole rotacismo fonetico invita a immaginarci su una vetta alpina, poi nel deserto, là per emanciparci dal piccolo ego, per dilatarci nello spazio immenso che già siamo. Mi torna alla mente Theilhard de Chardin: «Non è affatto lontano il giorno in cui l'umanità si troverà biologicamente costretta a scegliere tra il suicidio e l'adorazione» e a quando, dopo aver abbandonato la Chiesa cattolica, nel tentar di trovare una via di mezzo tra suicidio e adorazione avevo visitato filosofie lontane, dèi stranieri direbbe il vecchio testamento. Quando non si sa se Dio esiste o non esiste una buona soluzione è farsi buddhisti o neopagani panteisti o, in subordine, induisti. Alcuni offrivano soluzioni infantili, altri sofisticate.
Tornano ricordi precisi e mi attardo nel descriverli. Un giorno avevo letto di un vecchio tabacchino indiano, un “realizzato”, che garantiva che tutti noi non siamo nati, quello che nasce è solamente il corpo che non c’entra per nulla con quello che siamo veramente. Diceva che noi siamo coscienza. Energia eterna onnipervadente. Il tabacchino diceva che soffriamo per un equivoco: crediamo di essere il corpo invece che la coscienza impersonale alla quale Vallauri ci indirizzava. Ai quei tempi un po’ mi seccava accettare che come persona non esistevo, forse era meglio come dicevano i cattolici: andare all’ inferno per l’eternità, ma almeno con l’io pimpante e integro. Però che leggerezza staccarsi dalla propria storia, vivere senza memoria, senza giudizio. Vivere senza me stesso. La cosa mi affascinava e a volte mi succedeva davvero di avere un picco di consapevolezza che mi liberava da me stesso. Durava poco, quanto bastava per osservare il carnevale nel quale mi trovavo per essere nato senza averlo chiesto. Mica male, il picco, niente male. Il problema era che se mi si sforzavo il picco non arrivava. Accadeva invece da solo, a capocchia, non dovevo fare assolutamente nulla, ci voleva uno stato mentale come quello che viene spontaneo quando defechiamo. Una mente serena, un po’ assente, staccata e indifferente, allora il picco poteva anche arrivare. Frequentavo luoghi e gente interessate a queste cose. Mistica esotica, India, pellegrinaggi sufi, incontri con sciamani americani. Incontravo salernitani e bergamaschi vestiti da sadu indù che interpretavano il Vedanta alla luce del Vangelo, poi pontificavano ieratici metafisiche idiote. Commistioni dilettantesche d’astrusi sincretismi, drammi liturgici così macchinosi da far impallidire il capo cerimoniere del Vaticano. Il Dio nostrano era ancora lì, aveva solamente cambiato nome: si chiamava l’Uno invece che Iddio e mi invitava ancora ad uscire me stesso, per rimanere immobile a guardare lassù le ineffabili, inesprimibili, alte sfere: palloni aerostatici gonfi di Teorie. Come le scale mobili dell’aeroporto che vanno su e giù il Dio cattolico discendeva verso di me, mentre in quegli ambienti ero io che dovevo ascendere a lui, un salire e un scendere nella sostanza sovrapponibili. Eppure, nonostante l’equivoco, era stato un decennio che mi aveva permesso, in quel darmi da fare per distanziarmi da me stesso e dal Dio nostrano, una certa serenità. Il senso ultimo non l’avevo trovato però il cercarlo mi aveva un po’ divertito, mi aveva fatto divergere, distanziare, dall’angoscia di essere e di non essere. Avevo indagato a fondo, ma la soluzione non l’avevo trovata, ma intanto mi ero sentito un cercatore di verità: un buon intrattenimento. “Cercatore di Verità” era forse figura più importante di “Cavaliere del Lavoro”. Non seguivo pratiche meditative, avevo passato troppi anni in ginocchio davanti a crocifissi di plastica e il mettermi seduto con le gambe incrociate e gli occhi chiusi non mi entusiasmava. Chissà cosa pensavano i miei amici induisti quando rimanevano lì con gli occhi chiusi a meditare? Ascoltavano il respiro? Si sforzavano di non pensare? Forse meglio un crocifisso di plastica. Quando vedevo qualcuno meditare, con gli occhi chiusi e le gambe incrociate, un impulso mi suggeriva di avvicinarmi in silenzio per dargli, a freddo, un calcio nel culo. L’avevo pensato più volte ma non l’avevo mai fatto, chissà forse qualcuno si sarebbe “illuminato”, eppure lì a Favignana il professor Vallauri l’ho sentito credibile e amico. Pensatore arguto nei giorni successivi ha attaccato, senza sconti, le superstizioni diffuse nel sacro oriente.
Tutto sommato forse come i gatti si "è" senza alcun motivo, lo si capisce guardandoli negli occhi che, a lungo termine, se ne fregano di sé stessi e così non hanno padroni. I gatti non equivocano l’io con l’essere, avrei potuto imitarli cercando di funzionare con l’io detronizzato, funzionamento che non chiede e non risponde, come quando digerisco in spontaneità le orecchiette con le rape senza conoscere l'ABC della gastroenterologia. Come quando da una goccia di sperma, essenza di una bistecca e una mela mangiata da mio padre, ero diventato feto e poi spontaneamente uomo. Chissà? Sicuramente la vita che sono in qualche modo continuerà in forme diverse, ritornando mela e poi inorganico. Cenere di magnesio e zolfo. Ed io? Cadavere che arde sulla sponda del Gange consapevole che anche le pietre "sono" anche se non lo sanno, come quando nel sonno profondo mi dimentico di essere. Avrei potuto provare a fare l'induista vivendo, come un gatto, in presa diretta l'istante, omettendo per quanto possibile la personalità. Con l'io rarefatto, senza memoria come un uomo delle caverne, come una mucca che ignora l'humor, senza cultura e storia, che non ama. Condannato a rasentare l'inorganico da vivo, emotivamente mummificato per essere eterno. La faccenda mi lascia perplesso.
Ritorniamo a Favignana. Nel pomeriggio siamo saliti verso il castello di santa Caterina d'Alessandria. All’inizio del percorso Augusto Cavadi ha letto la poesia George Gray di Edgar Lee Masters, un invito al viaggio e un monito sulle conseguenze mortali dovute alla mancanza di iniziativa, al saper rischiare nel moto esistenziale. Durante il cammino delle soste con valorosi interventi dei partecipanti. Giorgio Gagliano ha detto "la sua" suonando il violino, una delle voci più belle disturbata dal vento di tramontana che gli spostava l’archetto, si sa talvolta la natura è indifferente ai canoni estetici degli umani.
Nel dopocena Stefano Zampieri ha dettagliato la figura del consulente filosofico. Apprezzabile il suo disinteresse alla creazione di un albo per tale figura professionale, indizio preciso di un approccio laico.
Il giorno seguente Luigi Lombardi Vallauri ha esposto le ragioni del suo abbandono del cristianesimo con note autobiografiche interessanti condite da humour teologico coinvolgente. In alcuni passaggi invece del cristianesimo esponeva una personale parodia dello stesso, che poi si divertiva a attaccare con virulenza. Cavadi ha risposto con un intervento articolato e convincente, capace di esporre laicamente e filosoficamente il valore del messaggio dell’uomo Gesù di Nazareth, lo ha fatto al posto di un sacerdote cattolico che all’ultimo momento si è defilato forse intimorito dal confronto con Vallauri. Meglio un miscredente che c’è che un credente che non c’è.
Nel pomeriggio Orlando Franceschelli con riferimento al suo ultimo saggio «Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia» edito da Donzelli, ha esposto il rapporto tra natura, saggezza e felicità, in una prospettiva filosofica che indica una felicità possibile nell’emancipazione da nichilismi e teismi connessi, come pure dal naturalismo della volontà di potenza di Nietzsche. Un’antropologia dell’ecoappartenenza ben argomentata e avvincente, capace di affrontare le urgenze di significato che l’umano vivere e morire esige. Augusto Cavadi ha annotato che l’indagine filosofica del naturalismo non può escludere, perlomeno come possibilità, un ordine trascendente. Franceschelli nell'invito di Cavadi ha subodorato note di integralismo soft. La tematica è tanto cruciale da suggerire ai due filosofi di attardarsi su tale confronto, magari con la pubblicazione di un libro.
Un’ultima osservazione. Tutto sommato l’integralismo religioso, e non, occupa quegli spazi che il mondo laico lascia deserti. Chi va via perde il posto all’osteria e così sovente la Chiesa cattolica o ideologie fondamentaliste diventano prepotenti abitanti di territori lasciati vuoti dagli uomini di pensiero. Eccezione che conferma la regola sono alcuni filosofi contemporanei capaci di laicità valorosa e propositiva: pensiero attivo del significato dell’esserci, del vivere e del morire. A Favignana c’erano.
La realtà non è come ci appare
«No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione.» (Emil Cioran, intervista di Fernando Savater).
Così è il saggio di Carlo Rovelli «La realtà non è come ci appare» dove ripercorre, da scienziato e da filosofo, la storia della visione fisica del mondo, dagli atomisti della Grecia antica alla relatività generale, dalla meccanica quantistica alle recenti teorie della gravità quantistica.
Alcuni passaggi spiazzano a tal punto la comune percezione della realtà che si avverte la necessità di riandare alla quarta di copertina per sincerarsi che l’Autore non sia un folle della New Age, ma «creatore di una delle principali linee di ricerca in gravità quantistica, […] tra i fisici teorici più attenti alle implicazioni filosofiche dell’indagine scientifica. Membro dell’Istituto universitario di Francia e dell’Accademia internazionale di filosofia delle scienze, dirige il gruppo di ricerca in gravità quantistica dell’Università di Aix-Marsiglia.»
Nella prima parte del libro è ricapitolata la storia della fisica teorica, dagli atomi alla relatività. Le formule matematiche irrompono sovversive e coinvolgenti, tutto sommato - appreso il vocabolario - tali formule sono frasi letterarie, finanche poetiche.
La seconda parte dell’opera espone la teoria dei quanti, ma quanti e dintorni - nonostante l’impegno dell’Autore nel divulgarli in semplicità - permangono ostici alla comprensione, ma basta e avanza capire la prima parte del saggio per avvertire sensi e buon senso contorcersi per resistere a teorie che sentenziano il modo sbagliato che abbiamo di percepire la realtà. Siccome le teorie, seppur provvisorie, sono verificate e confermate inevitabile il sentirsi destabilizzati: non risulta spontaneo accettare la scomparsa dello spazio e del tempo, come comunemente intesi, per realizzare che sono meri assunti, arbitri condivisi.
La realtà è strana, fluttua come un mollusco proprio come le menti dei grandi fisici che l’hanno saputa spiegare, sovente giovani e anticonvenzionali, capaci di straniamento, di iniziativa, di coraggio, talvolta un po’ folli ma mai santoni che sparano deliri. Enunciano “frasi” belle in divenire, congrue, verificabili e proprio in questo ordine risultano sconvolgenti.
Un metodo da espandere a tutto il vivere quello della fisica teorica, dove i protagonisti più valorosi sono anche i più insicuri. Pensiero capace nell’osservazione precisa a aperture inaspettate della realtà: tempo inesistente se non come assunto, molluschi di tempospazio che si incurvano, strutture granulari schiumose capaci di creare, elettroni che fuggono alla vista dell’osservatore possono entrare con profitto nel vivere quotidiano: affermano che le Teorie dell’Essere fisso e infinito sono narrazioni bislacche perché la realtà è l’esserci e l’esserci accade nell’interazione circoscritta, ma il punto cruciale del saggio è un altro: la storia scientifica della visione fisica dell’universo rendiconta che la realtà prende consapevolezza di sé stessa in un punto preciso: l’uomo. All’Autore sembra sfuggirgli, eppure lo dimostra in tutte le 242 pagine.
La realtà non è come ci appare.
La struttura elementare delle cose.
Carlo Rovelli. Cortina.
Disamina
Pianto la vite americana nel silenzio ma il cane del vicino alza la testa e latra, manco il tempo di realizzare e un Eurofighter 2000 passa a perpendicolo radente e velocissimo, attaccate alle ali un paio di missili aria-aria.
Sparisce all’istante dietro al vecchio ulivo, poi il boato.
Ma è più sano Homo sapiens o i canidi?
L’esagitata passività
L’ultimo anello della catena è lì al ristorante a ingurgitare con gli occhi fissi nell’iPhone.
Brutta condizione quella di Utente & Consumatore finale.