Mistero di Dio: mistero dell’uomo
L’interpretare Dio alla Feuerbach, prospettiva che vede Dio come un’umana proiezione e, dunque, una nostra personale creazione e non viceversa, più che una conclusione che liquida Dio per certi aspetti è una sorta di religiosità materialistica che apre scenari inaspettati.
Per entrarci si potrebbe forse iniziare con un nuovo ramo dell’antropologia che riveda filologicamente tutte le teologie - greco-romana, ebraica, cristiana e islamica - sostituendo il lemma “Dio” con “Io”, per poi (di quest’Io) dettagliarne l’essenza, provarne la sussistenza ontologica e definirne gli attributi. Confermata l’esistenza (l’Io c’è) occorrerà chiarire come sia saltata fuori dalle leggi che regolano il funzionamento naturale questa bizzarra entità increata ma creante.
Se invece, smentendo Feuerbach, si concluderà che l’Io non sussista, occorrerà essere davvero solidi nell’argomentare per dimostrarlo, mica è facile far fuori un’entità che empiricamente constatiamo tutti, ma più si sarà arguti nel negare l’io con autorale solidità dimostrativa e più si darà simultanea prova della sua sussistenza e potenza. Mistero di Dio: mistero dell’uomo.
Post teismo (bis)
Mi sembra che, in fin dei conti, un “inutile fardello” non sia l’ipotesi di “Dio persona” in sé, seppur nella sua problematicità, tantomeno la possibile fede o fiducia nel suo mistero, ma alcune discutibili costruzioni dottrinali (purtroppo non poche), o aspetti di queste, che nei secoli le confessioni religiose hanno costruito sopra la figura di Dio. Importante, dunque, chiarire se con post-teismo si intenda il superamento di questi castelli dogmatici intonacati con bislacche incrostazioni precettistiche, oppure il rifiuto netto dell’ipotesi di Dio persona in tutte le sue accezioni a prescindere, al punto da considerare il lemma “Dio” una parolaccia o il libro di Giobbe spazzatura perché appartenente al paradigma teista, posizioni che manco un miscredente patentato se minimamente intelligente sosterrebbe, consapevole che andrebbe non contro Dio bensì contro la civiltà. Un tale post-teismo sarebbe una reattiva posizione ideologica, a sua volta dottrinale, che francamente ho visto serpeggiare in alcuni testi e nell’argomentare di esponenti del post-teismo che ho letto, efficientissimi nel mettere al bando Dio creatore e persona quanto smarriti nel vuoto prodotto (l'ateismo è cosa seria, mica ci si improvvisa). Sembra che per qualche misterioso malfunzionamento nello svuotamento del cestino abbiano buttato via Dio, conservando però quell’integralismo dottrinale -nella fattispecie per così dire alla rovescia- che ha caratterizzato le sue peggiori e più esaltate interpretazioni.
______________________________
Per chi volesse approfondire in modo più ponderato, ragionato e articolato, segnalo l’articolo di Cavadi: MA DIO SOPRAVVIVERA' A QUESTA PANDEMIA ?
Zen rurale
Nesso di somiglianza
Soggetto, io, persona, individuo. Anche se non si chiamavano ancora così a un certo punto della storia del mondo a un qualche esemplare di Homo sapiens è accaduto di sperimentare d’essere un individuo invece che il tutto, di sapersi qualcuno invece che nessuno. Così per spiegarsi a sé stesso smise di incidere sulla pietra bestie e dee madri, raffigurando la sua amplificazione a mo' di entità creatrice, soluzione naïf nondimeno logica. In quel processo primigenio, al netto delle dottrine che in seguito ci si sono costruite sopra, essere umano e Dio erano così avviluppati da non poter distinguere chi fosse il creatore e chi la creatura, per questo nello sradicare quel Dio si sradicherà quell’uomo.
Protocolli deformanti
Col materiale che attingiamo dal mondo possiamo costruire rappresentazioni mitiche universali eternamente in corso, oppure protocollandolo con prestabilito ordine in una scatola elaborare inamovibili dottrine da propugnare.
Anche se perlopiù accade l’opposto talora il linguaggio poetico e fantastico, che regge il mito, ci permette di fluttuare in una restituzione condensata e più precisa della realtà, mentre i protocolli di obiettività e realismo possono anche ingenerare sovrastrutture che la deformano e costringono. Non a caso nel nostro tempo di algoritmi, gloriosi protocolli e dèi morti stecchiti, in così tanti si drogano nella (perversa) ricerca di una boccata d'aria.
L’uomo e il sabato
Una norma della ragione sta in piedi da sola, senza necessità d’essere codificata in precetti che vietano, obbligano, sanzionano. Se i precetti abbondano è forse perché non si ragiona e questi sono promulgati a raffica per tamponare i danni procurati dall'irragionevolezza. Motivo opposto di tanta abbondanza è forse che il precetto costituito acquista quote di autoreferenzialità virando così all'irragionevole; ci sono precetti che se non codificati si scioglierebbero come neve al sole, non avendo ragione di essere. Meno avranno ragione di essere più necessiteranno di ulteriori apparati precettistici che li giustifichino. Ad una prima occhiata empirica sembra che ragione e precetto siano grandezze inversamente proporzionali.
Feticismo delle suppellettili
Tutto sommato incomprensioni e conflitti fra credenti e atei -come anche fra i credenti e pure fra gli atei- non scaturiscono prevalentemente dalle concezioni di partenza, tutte rispettabili se argomentate con ragione, ma dalla fissità di pensiero sui corpi dottrinali che si sono costruiti sopra.
“Io chiedevo - commentava Martini - non se siete credenti o non credenti ma se siete pensanti o non pensanti.”
Capirsi?
Bella cosa capirsi ma più difficile di quel che appare. L’evento comunicativo, che permetta comprensione, necessita di indeclinabili elementi e un preciso procedere: un soggetto emittente; un messaggio che si riferisca a qualcosa di sensato e un soggetto ricevente che, usufruendo del canale utilizzato dall’emittente (voce che dice parole, scrittura, oppure gesti ed espressioni del corpo) riceva il messaggio comprendendolo per mezzo di codici condivisi dalle parti (parole con significato che costruiscono frasi, come anche suoni che fanno musica).
Se manca un solo elemento la comunicazione si interrompe o corrompe, problema ripristinabile parlando uno per volta mentre l'altro ascolta, oppure modificando canali e codici che veicolano il messaggio: se l’emittente parla con volume di voce troppo basso dovrà alzarlo, o se usa termini specialistici che il ricevente non sa dovrà sostituirli con termini più comprensibili anche se meno puntuali, in alternativa il ricevente dovrà apprendere il significato dei termini utilizzati dal soggetto emittente, per questo hanno inventato i dizionari, strumenti utili per migrare dalla condizione di oggetti a quella di soggetti: “Ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani” (don Milani).
Tutti problemi risolvibili a condizione che la comunicazione non sia distorta in partenza e/o deformata all’arrivo da interferenze ideologiche spinte, da latenti voragini e fissazioni psichiche, o da nodi e fardelli autobiografici che pre-giudicano il messaggio veicolato, che potrebbe partire senza che l'emittente sappia ciò che dice e specialmente perché (davvero) lo dice, o per gli stessi motivi venga mal interpretato quando giunge a destinazione. Qui senza l’intervento di una buona filosofia o di una spietata indagine psicoanalitica che risolva l’ambaradam ermeneutico non c’è forse soluzione alla Babele.
Superato anche quest’ultimo ostacolo -ipotesi ottimistica dato che non possiamo escludere che i vizi suesposti si sommino invece di essere, di volta, in volta, aggiustati- la comunicazione non sarà, comunque, possibile se il ricevente abita in tutt’altro paradigma dell’emittente, ad esempio se un soggetto emittente che poggia il suo vivere sull’ontologia di Severino pretenda di comunicarla a soggetto ricevente membro dell’Inter club di Lambrate, è improbabile che la comunicazione vada a buon fine. In questi casi di solito va a finire che il soggetto ricevente, senza considerare che possano esistere altri e differenti regni oltre all'unico che conosce (limite che nel caso di specie è anche del mittente), reagisca al messaggio come la rana di Galvani sgambetta per impulso elettrico con un rifiuto istantaneo e assoluto del messaggio ricevuto, giudicando il soggetto emittente strambo (come dargli torto?) e deficiente. Andrebbe bene così se il processo, quando sistematicamente ripetuto, non causasse un appiattimento generale verso il basso. Eppure anche in questo caso il soggetto emittente, se proprio ci tiene, potrebbe ripristinare la comunicazione esponendo l’ontologia di Severino attraverso metafore calcistiche, attuando una severa rimodulazione del codice linguistico, vettore del messaggio, nel tentativo di traslare il messaggio dal suo paradigma a quello dell’Inter club di Lambrate per mezzo di metafore e parabole, stile Gesù che diceva cose somme parlando di grano ai contadini, di reti ai pescatori e di pecore ai pastori. Che fatica!
Astuzia strategica
Se fossimo capaci sorprenderemmo con strategia astuta porgendo l’altra guancia, lasciando anche il mantello a chi vuol portarci via la tunica, percorrendo con diabolico piacere due chilometri se ci costringono a farne uno. E chi lo ferma uno scaltro così? Più lo ostacoli più lo promuovi, più lo denigri più lo esalti, più lo depredi più incrementi il suo potenziale bellico.
Zappa metafisica
Finalmente il momento giusto per leggersi tutto Il Capitale o per scrivere un libro, invece anche se il tempo abbonda una misteriosa inibizione, forse biologica, impedisce che l’intenzione divenga atto. Può darsi che sia lo stato di coercizione a non favorire l’iniziativa, oppure è il pensiero che rode per quelli che sono messi peggio a consumarci l’energia, o forse è lo stato di provvisorietà che attende conclusione in un limbo d'incantesimo paralizzante.
Per venirne fuori occorre entrare in un altro regno, zappare le fave (per chi può) è un buon modo per entrarci.