Bruno Vergani
Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.
Giardini mediterranei
Per realizzarli occorre vivere in zone temperate, negli ultimi decenni ne ho implementati alcuni, meglio farli a novembre così si evita di irrigare.
Per un duecento metri quadri si acquistano da vivaisti 10 piante per specie di Salvia, Lavanda, Rosmarino, Lentisco e Terebinto che sono dei pistacchi selvatici, Echium, Timo capitatum e serpillo, Viburno e qualche Frassino ornello.
Cisti vari, Elicriso italicum e la Phlomis herba venti non è facile trovarle dai vivaisti, piante troppo povere non meritevoli di mercato che si potranno agilmente sradicare ai bordi delle strade contigue alla macchia mediterranea, così non verranno schiacciate dalle auto.
Si piantano a capocchia nello spazio prescelto non curanti che siano troppo vicine e il giardino prenderà consistenza. L’artificio all’inizio c’è, poi tutto accadrà spontaneo: qualche pianta seccherà altre esploderanno in vegetazione. L’anno dopo, mentre il mondo si preoccupa, si passeggerà in mezzo. Finito il giro si avrà l'impressione di aver ricevuto notizie rassicuranti. Antipolitica? Per nulla.
A domanda rispondo. Gianni Barbacetto su "il Fatto Quotidiano"
MEMORIE DI UN MEMORES COSÌ CL È DIVENTATA “AFFARI”
Gianni Barbacetto
Il Fatto Quodidiano, Milano 24 aprile 2012
Li ha visti da vicino, i ciellini e la loro élite, i Memores Domini. Perché Bruno Vergani era uno di loro.
“Ho incontrato Comunione e liberazione a Carate Brianza, dove abitavo. Avevo 14-15 anni e sono entrato nel movimento. Ero felice: invece di avere due o tre amici, ne avevo trecento. Ma ho preso la cosa molto seriamente e qualche anno dopo ho deciso di fare una scelta di dedizione totale a Dio. Era il 1976, avevo 19 anni. Ne ho parlato con don Luigi Giussani, il prete carismatico che aveva fondato Cl. Mi ha proposto di entrare in quello che allora era chiamato il ‘Gruppo adulto’ di Cl e che poi si è chiamato ‘Memores Domini’. Prima di entrare, ho fatto un anno di noviziato. Ero il novizio più giovane d’Italia. Poi sono finalmente entrato nella Casa e dopo un altro anno ho fatto la ‘promessa’: i tre voti di povertà, obbedienza e verginità, in linea con la tradizione monastica. Eravamo in effetti una comunità monastica ispirata alla regola di San Benedetto e formata da piccoli nuclei dislocati in anonimi appartamenti metropolitani. All’interno di ogni Casa un responsabile, il capo Casa. A coordinare le Case un direttivo guidato da don Giussani. La mia Casa era a Concorezzo, vi abitavamo in cinque e capo Casa, o priore, era Alberto Perego”.
Qualche anno dopo, Perego diventerà uno dei collaboratori più stretti di Roberto Formigoni, il titolare di conti all’estero (“Paiolo”) e di società offshore (Candonly, Fondazione Memalfa) su cui affluiscono soldi misteriosi. Sarà anche il compagno di viaggio di Formigoni nelle vacanze del capodanno 2009, a Parigi e poi all’Altamer Resort di Anguilla, nelle Piccole Antille, a spese del faccendiere della sanità lombarda Piero Daccò.
“Ma allora Perego era solo un ragioniere che lavorava in uno studio di Milano. Avrebbe dovuto essere la guida anche religiosa del mio gruppo, ma era molto modesto. Eppure a lui dovevamo obbedienza assoluta. Obbedire a lui era come obbedire a Dio. Perché per la teologia di Cl, l’Ente supremo s’incarna in Gesù Cristo e poi nella Chiesa: ti prende fisicamente nel pezzo di Chiesa che tu hai incontrato. Dovevamo rifiutare la fede intimistica, per una fede concreta. Don Giussani lo chiamava ‘processo analogico’. Per me, dunque, il Dio incarnato era Alberto Perego!”.
Vergani non regge a lungo.
“Ero scisso tra i grandi ideali della fede e la infinita tristezza della vita quotidiana. Nel 1980 me ne sono andato”.
Oggi è stupito dei soldi che circolano nelle mani degli uomini di Cl.
“Allora ciascuno della Casa metteva il suo stipendio nella cassa comune, da cui si attingeva per pagare le spese. Ognuno prendeva poi per sé un piccolo contributo: io ci compravo i sigari e le scarpe. Facevamo vita sobria: avanzavano sempre dei soldi che erano messi a disposizione del direttivo dei Memores, che li utilizzava per far crescere il movimento, comprare altre Case, ingrandire la corporazione... Ricordo don Giussani: aveva i pantaloni sempre un po’ lisi, viveva in un modesto appartamento in via Martinengo a Milano. E ora leggo che Perego compra ville in Sardegna... Eppure sono convinto che questo esito era già scritto nella teologia di don Giussani: Perego e Formigoni non tradiscono, ma realizzano il pensiero del fondatore”.
Don Giussani era animato infatti dall’ossessione della “presenza”: i cattolici, contro una visione intimista e individualista della fede, devono mostrarsi nel mondo, costruire cose visibili.
“Sì, il problema è l’ontologia di don Giussani. Noi uomini siamo strappati dal nulla che ci incombe addosso, incontrando Cristo nella forma specifica che lui ha scelto: la Chiesa cattolica, luogo in cui si fa presente. Nella concretezza, incontrando Cl. Il singolo uomo è in sé insignificante, è nulla. Per poter essere, deve diventare cellula appartenente alla corporazione ecclesiastica, come le api e le formiche sono nulla senza il loro gruppo organizzato. Anzi di più: per l’uomo la dipendenza ontologica è totale, come i buchi nel formaggio. Dio presceglie un gruppo di uomini, Cl, e questi lo rappresentano in Terra. Chi è scelto è tutto, in quanto appartiene (cioè obbedisce) al gruppo. Chi è fuori è nulla. È una teologia tribale”.
Il successore di don Giussani, Julián Carrón, come l’arcivescovo di Milano Angelo Scola, sembrano prendere le distanze dalla deriva affaristica di Cl.
“Ma hanno la medesima teologia del fondatore. Carrón ne ha ripreso proprio l’ontologia, negli esercizi spirituali dei giorni scorsi a Rimini”.
Alcuni ciellini provano disagio per lo stile di vita di Formigoni. E la ciellina Carla Vites, moglie di Antonio Simone (in carcere, come Daccò, per le indagini sui milioni sparita alla Fondazione Maugeri), ha avuto parole durissime nei confronti del presidente della Lombardia.
“Carla Vites invitava Cl a ‘un sussulto di gelosia per la propria identità’. Ma Formigoni non ha tradito quell’identità, l’ha realizzata. Chi è dentro Cl è in missione per conto di Dio, può tutto, le regole sociali e il codice penale non contano più. La presenza di Cristo che vive nella storia coincide con Cl, come pure il senso della storia e il bene pubblico. Questa è la vera patologia, non le camicie a fiori di Formigoni”.
art. 21
«Ogni ufelè al fa ul so mesté» vale solo per pasticceri, neurochirurghi e idraulici per tutto il resto è roba da inibiti.
L'art. 21 della Costituzione stabilisce che: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…»
Compresi nella fattispecie: bluffare del tuttologo, ammonimento del teologo, iperbole del filosofo teoretico, smargiassata del politico, bugia dell’ipocrita, stupidata dell’idiota, boutade del blogger.
Tutti convinti, con Kant, dell’universalità della propria soggettività.
Grand’uomo pover’uomo
Annuncio di nascita: «E’ nato Pinco Pallo il giorno 12 marzo alle ore 8»
e ci si ferma lì.
Si nasce immuni da predicato, da ciò che si dice del soggetto e non sarebbe male una esistenza che continui così, ma l’infezione è precoce.
Imperversa già nel bambino che da soggetto sovrano non curante di attributi, insomma uomo, inizia ad infettarsi con aggettivi e ruoli che lo designano, qualificano e determinano.
Cresciuto si farà chiamare avvocato, lo scriverà bello in grande sul citofono e griderà in piazza la sua notorietà, competenza e onestà. Nell’elargire consigli a persone intime premetterà: «Ti parlo come avvocato e come amico».
Dopo tanta fama, stima e autostima, virtù e onore, l’epilogo.
Necrologio: «Partecipiamo al grande dolore per la morte dell' avvocato Pinco Pallo valente professionista integerrimo pubblico amministratore e da sempre amico affettuoso».
Gli è andata bene. Almeno all’inizio, per un paio di mesi, aveva fatto esperienza d'essere uomo invece che un brav’uomo. Non possiamo escludere che avrebbero potuto massacrarlo fin dal primo istante:
«E’ nato Pinco Pallo il giorno 12 marzo alle ore 8, neonato buono, bravo, intelligente e serio».
Ineffabile stupore. Racconto
Per accertare se esistevo o non esistevo di tanto in tanto frequentavo cerimonie con nativi americani incontrati per caso. Con loro ingurgitavo nottetempo piante psicotrope attorno ad un fuoco. Alla fine della settima cerimonia lo sciamano, per premiarmi di tanta devozione, mi aveva regalato del Peyote secco, che avevo lasciato là, dimenticato nella credenza.
Vicini di contrada avevano insistito per invitarmi ad un pellegrinaggio. Non avevo piacere, motivo e neppure interesse di alzarmi prima dell’alba per salire su un pullman che mi avrebbe portato sulle montagne di Avellino al santuario di san Gerardo, ma in piena notte mi ero svegliato per andare in bagno e nell’urinare d’improvviso avevo associato il Peyote secco, dimenticato nella credenza, al pellegrinaggio. Lo stupore procurato dalla pianta forse mi avrebbe fatto apprezzare il pellegrinaggio, l’azione emetica l’avrei giustificata come mal d’auto. Così, invece di ritornare a dormire, mi ero mangiato la polvere di cactus messicano ed ero partito con il gruppo.
Il parroco della contrada, un francescano, non aveva nessuna autorità, rimaneva seduto all’ultimo posto ignorato da tutti. Comandava su tutti l’immagine di san Gerardo, un giovane prete dallo sguardo autistico, appiccicata sul parabrezza. Di tanto in tanto qualcuno prendeva iniziativa per recitare rosari estemporanei un po’ in dialetto, un po’ in italiano dialettale.
L’effetto del Peyote aumentava, l’avevo capito perché stavo pregando anch’io. La nausea era gestibile. Giunti al santuario un giovane diacono con la faccia da san Gerardo ci aveva accompagnati nel santuario per la messa. Aveva riferito che quello era un giorno speciale perché d’indulgenza, una sorta d’offerta speciale sullo sconto dei peccati. Mentre i pellegrini si comunicavano il Peyote, andato completamente in circolo, mi elargiva l’acme dell’azione psicotropa: lì composto vedevo i pellegrini stupiti e ossessi, rapiti in una magia celestiale, tutti con l’espressione precisa dell’immagine di San Gerardo appiccicata su parabrezza del pullman. Cloni perfetti.
Il giorno successivo tornato a casa avevo intravisto un pellegrino lavorare nella sua cava, caricava col bulldozer pietre su un camion. Non latrava più: «Viva san Gerardo! Viva Maria!» L’espressione della faccia era ordinaria, l’ossesso stupore gli era passato. Aveva fatto più effetto san Gerardo a lui che il Peyote a me.
L'Arconte celeste
Talvolta qualche Ente statale mi complica l’imprendere, disturbi di sottofondo non meritevoli di suicidio. Da tanti anni conduco una erboristeria con laboratorio di produzione, raccolgo le piante e le trasformo per realizzare rimedi. Se gli utili calano l’imputato è il sottoscritto titolare che consapevole si attiva a intraprendere.
Italia divisa: cittadini uccisi dall’Ente opposti ai furbi che se la godono benedetti dall'Ente, in una mostruosa progettazione e architettura del decorso storico decisa da un qualche Arconte celeste che nel mischiare le carte elargisce ai primi due di picche e agli altri Jolly.
Entrambi pedine di Teorie fatalistiche irrevocabili, entrambi non imputabili, entrambi dunque miserabili. Destino predeterminato? Quale? Stabilito da chi? Enti statali, Enti economici, Enti divini, palloni vuoti che agiscono se gli si crede. Non servono eroi per combattere Teorie.
Clericalismo? E' come il vischio ti si appiccica addosso
Chi nel quotidiano vive la laicità ne conosce il significato per immediata evidenza, eppure quando intende definirla sa di avventurarsi in territori insidiosi.
La laicità non è riducibile ad una negazione: chi non appartiene al clero religioso, ma anche professionale o partitico. Anche definirla in positivo è operazione delicata perché la laicità rigetta sistematizzazioni, aggettivi e avverbi, mal tollera anche i sostantivi e non sopporta attributi.
Camminando sulle uova potremmo definirla così: la laicità è l’atto del pensare con la propria testa. Se la testa del soggetto è sana la definizione, nella sua elementarità, si rivela precisa e congrua: primato del pensiero e della persona.
Soggetto pensante e soggetto laico, dunque, coincidenti.
Accettata la definizione le insidie permangono quando dal pensiero del singolo si vuole implementare una laicità organizzata e militante che sia mordace nel sociale. Quando i laici, pensatori eremiti, scelgono di aggregarsi per incidere con più efficacia insorgono inevitabili problematiche e perplessità. Nel trasporre il pensiero del singolo all’interno del gruppo si tenderà, per forza di cose, ad inibirne l'originaltà con poco laiche e un po’ presbiteriali anestesie, compromessi, obbedienze e conformazioni onde evitare scismi, eresie e scomuniche. Olocausto del pensiero personale offerto per il buon funzionamento del gruppo a soddisfazione delle sue gerarchie.
Più i gruppi, laici e non, si caratterizzano ideologicamente più tendono inevitabilmente a clericalizzarsi, ad identificarsi nelle idee e nelle comunità di appartenenza. Laicità sacralizzata, ideologico giudizio di valore dove l’originale pensiero personale vira in liturgie conformi alle linee programmatiche imposte.
Per gli Stati il fenomeno della sacralità laica si amplifica, nota la retorica allegorica, rituale, monumentale, parareligiosa, di laiche Repubbliche, con altari della patria e puttini alati lì a raffigurare teorie e idee di Liberté, Égalité, Fraternité che abitano le alte sfere, sistematicamente tradite nella vita reale.
Diffuso nei gruppi di laici organizzati, impegnati ideologicamente a muso duro, il sussistere per antitesi reattiva: laicità come anticlericalismo. Lì in mezzo ad atei e agnostici si subodora odore di sacrestia, lo si avverte nella semantica asfittica, dottrinaria, reattiva, ritualmente prevedibile, povera. Il virus del clericalismo da piazza San Pietro si espande fino agli estremi confini della terra infettando luoghi insospettati, tutta colpa della nota legge fisica che caratterizza il clericalismo: è come il vischio ti si appiccica addosso. Nell’attaccarlo a distanza ravvicinata dal pulpito della ideologica militanza ci si ritrova a far la predica.
Preferibile l’atto del pensare con la propria testa nella proficua cooperazione di operai eremiti. Nessuna missione speciale da compiere. Basta e avanza che ognuno dica rilassato e preferibilmente in piazza il proprio pensiero. Quando c’è, se c’è.
sublime putrefazione dell’intimistico crogiolarsi
In un singolare lavoro dei neurologi avevano analizzato l’opera di Fernando Pessoa [“Schwermut" e “Falso Sè” nell'opera di F. Pessoa"] analizzando e sistematizzando - come fanno i gastroenterologi per le ulcere duodenali – i suoi scritti al fine di diagnosticare eventuali nuclei psicopatologici. Il resoconto, pur consapevole delle insidie intrinsiche nell’affrontare il pensiero artistico con approccio medicale, nonostante i continui distinguo e precisazioni, assume risvolti comici e connotazioni clericali.
E’ ragionevole chiedersi le conseguenze, per la cultura e il pensiero occidentale, nell’ipotesi che il più grande scrittore di lingua portoghese invece di scrivere si fosse sottoposto alle “cure” degli autori dell’articolo.
Scrivere del dolore personale, prendere distanza dal privato per andare nella piazza dello scenario universale, è di per sé atto che emancipa dalla putrefazione dell’intimistico crogiolarsi. Pensato e detto in piazza quello che si supponeva dolore si rivela per quello che è: idea, teoria, niente. Medici e preti per chi scrive non servono più.
Erna
Continuo a frequentare gente strana. Mi hanno invitato a scrivere guardando il dipinto "Erna con sigaretta" di Ernst Ludwig Kirchner.
Funzionava ad alcol e nicotina ma era in riserva.
Tutta colpa delle tiroide ipertrofica,
della tiroide immacolata;
della tiroide bastarda;
della tiroide metafisica.
Che gli aveva fatto sgonfiare le tette e ingrossare il fegato,
fegato suino;
fegato bastardo;
fegato metafisico.
Spettro e puttana più sana della mamma celeste,
quella dei palloni aerostatici;
quella delle alte sfere.
Che strano: paradisi e fogne, prima o poi, si incontrano sempre.
Eclisse del Dio Unico
Il saggio di Parazzoli scaraventa in prima fila e senza preavviso in una pièce beckettiana: Iddio si sta liquefacendo, si scioglie per davvero, si scioglie tutto. Gli attori, immersi nel vuoto, girano ebeti su sé stessi e pucciano le scarpe nella pozzanghera. Non siamo a teatro e neppure spettatori, ma nella realtà e protagonisti: l’Occidente, dimenticate le narrazioni mitiche che l’avevano costituito, orfano del dio che si era inventato, vaga in un nichilismo epidermico, «la pappa del niente».
Gente sveglia gli occidentali, gente creativa, Parazzoli cita, insieme all’invenzione del dio unico quella del «Grattaschiena telescopico». Non fa lo spiritoso, la faccenda è drammatica e si ride a denti stretti [l’oggetto esiste davvero, i curiosi e gli interessati nel sito D-Mail potranno trovarlo agilmente. L’arnese, telescopicamente allungabile, permette di grattarsi la schiena fino ai glutei].
Tempo addietro eravamo più creativi, prima sciamani che divinizzavano oggetti grazie alla potenza eroica dell’intenzione poi, ad Est, siamo stati così fantasiosi da brevettare un dio antropomorfo, il dio, che annoiato di albergare nelle alte sfere sceglieva un pugno di eletti, i suoi autori e registi, per entrare impetuoso nella storia: monoteismo tribale culla dell’occidente. Bei tempi quelli dei miti, quelli del non avrai altro Dio all’infuori di me, dove gli atei erano davvero atei e il nichilismo assoluto, coraggioso e dinamico, oggi degradato ad un «tutto è uguale a tutto poiché tutto è niente».
Non curante delle sistematizzazioni, non propenso a procedimenti dimostrativi Parazzoli va rapido a enucleare nascita, gloria ed eclisse del dio unico. Lo stile è originale: brevi racconti, incursioni poetiche in un linguaggio diretto, quasi primordiale, che ti arriva allo stomaco. Pensieri improvvisi folgoranti. Estemporanei frammenti autobiografici: l’Autore, uomo colto, scrittore erudito, che ha speso l’esistenza nella ricerca di senso, ricoverato in rianimazione dopo un infarto, lì lì per schiattare, indifferente ad ogni escatologia, senza nessuna idea superiore sulla vita e sulla morte, pensa solamente a dove mai avranno messo le scarpe che calzava prima del malore. Autoironia feroce e magistrale. In alcuni passaggi, lontano da intellettualismi, fa emergere il suo percorso di scrittore, versione moderna dello sciamano e del sacerdote: «Linguaggio mezzo di comunicazione tra orizzontale e verticale, tra ragione e mistero, società e mito». Rifiuta il teismo e il nichilismo, dopo la morte di dio l’emancipazione dal nulla è data dal pensiero, dal linguaggio, dall’atto artistico, dalla scrittura che decodifica il mondo.
Opera strana. Sana. Condensata ma non criptica. Un libro bello, onesto, duro, per coraggiosi, che come sottotesto costante sembra affermare con Pilato: «Quel che ho scritto ho scritto»; questo è il mio pensiero: prendere o lasciare.
Marcello Veneziani nella sua recensione si attarda sulla «conversione al rovescio» di Ferruccio Parazzoli: «Scrittore cattolico per una vita, direttore di case editrici e collane d’ispirazione cattolica, firma di punta di Avvenire, Famiglia Cristiana e Jesus, vicino alla Conferenza episcopale e all’Opus dei, in età grave si è ribellato al cliché ma ha fatto anche di più, ha disdetto Dio».
Pettegolezzi di sottofondo che nulla aggiungono e nulla tolgono alla persona e alla sua opera, tuttavia – ad onor di Parazzoli – non sfuggirà che di solito accade proprio il contrario nel diffuso, e tutto italico, abbraccio della consolazione religiosa di atei e agnostici al tramonto dell’esistenza.
Vito Mancuso arranca in una articolata prefazione, sostenuta più da affetto personale per l’Autore che per amicizia al suo pensiero. Tenta una sistematizzazione ingrigliando il pensiero di Parazzoli nel «panteismo, nel senso che il suo Dio (il principio primo, il fondamento) diviene qui il mondo stesso».
Classificazione asfittica, che non considera la potenza autosostenente, autogiustificante, creatrice di senso, che l’Autore manifesta nel dire la sua e nel dirla in quel modo. Mancuso tenta anche una sistematizzazione dell’Autore collocandolo nello «scisma sommerso che sta attraversando la Chiesa cattolica», ma ingabbiarlo nello scismatico significa indottrinarlo perché lo scismatico tende all’ortodossia, reagisce ad una dottrina con un’altra e conserva invece d’innovare. Parazzoli è altra cosa, non sopporta aggettivi, manco scismatico.
Ferruccio Parazzoli
Eclisse del Dio Unico
Il Saggiatore 2012
160 pagine, 13 euro