Comune paesaggio cosmico
Da una parte i credenti e dall’altra gli atei; da una parte la narrazione di un Creatore dall’altra la Natura causa di se stessa; da una parte la cultura: pensiero, autocoscienza, volontà e fantasia, dall’altra la natura: istinto amorale e meccanicistici funzionamenti.
Ma forse sono separazioni più apparenti che reali, modi differenti di vedere lo stesso paesaggio perché, pensiero, autocoscienza, volontà e fantasia, sussistevano in nuce, o in qualche modo, molto prima di Homo sapiens, già nel brodo primordiale, ereditati da dinamiche cosmiche ancora precedenti, altrimenti non si spiegherebbe da dove siano saltati fuori.
Processo idagabile e descrivibile sia con un’indagine sul campo che attraverso racconti e simboli.
Ossia
Se Dio fosse pari pari la Natura non possiamo escludere che tale identità incondizionata procurerebbe un bel disastro, e per Dio, e per la Natura. In effetti l’Onnipotente sarebbe d’un botto esautorato della personalità, della libertà e della bontà (moralità, per chi preferisce), insomma rimarrebbe un mero vegetale; mentre la Natura acquisendole (personalità, libertà, bontà), non potrebbe più ottemperare le sue fisse leggi perdendo quel meccanismo di ripetitività che ne determina il (perlopiù) regolare funzionamento.
In effetti il Deus sive Natura di Spinoza non ha significato letterale di Dio=Natura commutabile in un piatto Natura=Dio[1]. Spinoza invece di un perentorio e rigido “è” scrive invece ossia (o sia): "Dio ossia la Natura". Un ossia che suggerisce nello strettissimo rapporto Dio-Natura una sorta di consequenzialità della Natura da Dio. Spinoza chiarisce differenziando Natura naturans, che è la sostanza divina coi suoi attributi, dalla Natura naturata che è invece frutto delle modificazioni della sostanza divina per mezzo dei suoi attributi. Potremmo (oggi) dire derivati di Dio, un po’ come la benzina che, derivato del petrolio, pur non essendo petrolio non potrebbe esserci senza petrolio; o i nostri pensieri e le personali azioni che seppur completamente interconnesse a noi non sono noi, così è la Natura rispetto a Dio.
Applicando questa concezione come va a finire? Di solito va a finire che nel rapportarci alla Natura siamo portati a scorgerci un Autore che alberga dentro al fiore di campo, o stava prima causandolo (primum movens), o forse è nascosto dietro. Una sorta di mescolanza fra Dio e Natura che immagina Iddio occultato negli atomi per fargli girare gli elettroni dentro, un povero Dio se costretto a tanto. Ma Spinoza non mescola, sa distinguere unificando e sa unificare distinguendo, ma se non si è Spinoza mica è facile l’operazione.
Non ci restano che quei momenti di grazia nei quali accade una inaspettata coincidenza di immanenza e trascendenza, e quel ossia diventa immediato, chiaro, semplice.
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1 Da questi Dio=Natura; Natura=Dio l’accusa di ateismo nei confronti di Spinoza, mentre Hegel, all'opposto, interpretava la concezione del rapporto Dio e Natura di Spinoza come acosmismo, termine che aveva coniato per significare che per Spinoza il mondo -causa sui- coinciderebbe letteralmente con Dio e, dunque, il cosmo senza Dio non avrebbe alcuna possibilità di autonomia propria.
Razionale?
Si fa presto a dire ragionevole ma di razionalità non ce n’è una sola. Razionale è optare per ragioni personali che giudichiamo giuste -ognuno ha le sue buone ragioni- evitando di andare contro noi stessi, ma anche ottemperare norme sociali pur percependole astruse. C’è la razionalità del profitto che vede ragionevole mettere qualcosa sotto i denti, poi c’è la razionalità che poggiando sull’osservazione altrui opta per l’opzione che, data una specifica situazione, è più utilizzata dalle sue parti. C’è la razionalità istintiva che conserva selettivamente le soluzioni più performanti scartando le altre. C’è la razionalità matematica e pure quella biologicamente e socialmente ereditata, forse c’è anche una razionalità trascendentale.
Mi sembra che ciò che chiamiamo buon senso consista nell’elaborare una sintesi mediana di queste numerose e differenti razionalità per applicarla alle cose e alle circostanze che incontriamo. Razionale non è dunque sinonimo di giusto, corretto e definitivo, ma un modo di interpretare il mondo galleggiando in un provvisorio e per certi versi arbitrario equilibrio.
Ricreazione
“Break” va bene per il pugilato e i business meeting; “svago” fa pensare a un alticcio che vaga; “intervallo” richiama la distanza tra paracarri; in “pausa” riecheggia un’interruzione come quando va via la corrente; “distrazione” fa pensare a un incidente sulla provinciale.
Forse meglio “ricreazione” nel suo enunciare molto di più di un mero ristorarsi.
Fabbricante di continuità
Se si arriva in ritardo si perde il treno e in una progressione aritmetica il numero che segue è in successione costante dal precedente.
Ma per molte altre cose l’ordine e la continuità non sono nelle cose ma prodotto del nostro arbitrio; siamo inconsapevoli cernitori che dagli irrazionali e simultanei eventi materiali e immateriali che incontriamo, scegliamo materia adatta per architettare gerarchie di successioni e consequenzialità, così da controllare il caos. Estraiamo parti scelte dall'immane magma informe e sbozziamo mattoni per edificare strutture logiche e cronologiche apparentemente stabili, quel giusto per non perdere l’equilibrio (il nostro equilibrio).
Sotto certi aspetti l’Io è un fabbricante di continuità.
Capacità immaginativa
Anche se complicato possiamo più o meno capire come quell’organo gelatinoso che abbiamo nel cranio recepisce stimoli, regola funzioni e memorizza, processandole, le informazioni che assorbe dall’ambiente.
Ma come accade che, oltrepassando il suo stesso funzionamento e i dati immagazzinati, produca fantasie? Ci sarà pur una qualche cabina di regia… E chi mai la dirige?
Tipi psicologici
Etimologicamente tollerare significa caricarsi un peso sulle spalle, ma non di rado non c’è proprio niente da portare, piuttosto risolvere il tirannico pregiudizio che valuta giusto ciò che corrisponde alla nostra visione, sbagliato il resto. Per fortuna nasciamo diversi e nel corso dell’esistenza mutiamo, ognuno a modo suo. Tutto qui, legge lampante quanto dimenticata nelle sue conseguenze.
Poco serve, dunque, diventare buoni per accordarci, anzi la bontà costruita può rivelarsi un eccellente anabolizzante della succitata tirannia; neppure serve accanirci contro l'avversario se non per motivata legittima difesa. Meglio leggersi Tipi psicologici di Jung, così da scorgere le basi e il procedere della nostra innata visione soggettiva e indagare quella, sovente differente, degli altri.
Nel leggere le 630 pagine una sola precauzione per chi non avesse tempo, il succo del libro si sviluppa nelle 200 pagine centrali, quelle prima individuano i differenti tipi psicologici nella storia del pensiero; le ultime definiscono con precisione i termini che Jung utilizza nell’opera.
Datismo
Prendi un supercomputer di quelli americani, ficcagli dentro ogni nozione e tutti i concetti razionali e irrazionali conosciuti e ipotizzati, ogni immagine dalle primordiali alle quantistiche, tutti gli articoli di cronaca di ogni latitudine e i poemi d’ogni tempo. Inserisci tutte le opzioni logiche, ermeneutiche e simboliche e ogni psicologia così da ottenere una elaborazione completa e assoluta dell’intero scibile.
Le poderose memorie operative e i performanti algoritmi mitraglieranno all’esterno miriadi di risultati ma manco un’idea.
E separò
Nel racconto della Genesi Iddio dopo aver creato un perfetto tutt’uno realizzò che non si capiva una mazza di quel monoblocco, così iniziò a separare e le cose, finalmente individuate, cominciarono a piacergli.
E fu così che distinguere significa differenziare e anche riconoscere.
Pronomi personali
All’appello dell’umanità più di sette miliardi rispondono presente, ma cosa è presente e chi?
Non è poi chiaro che cosa sia per davvero l’io. La circostanza di avere un nome proprio è un mero arbitrio per distinguerci, ma non prova di individualità libera e cosciente. Libero arbitrio? Problema per nulla risolto e qui secondario, visto che per attuarsi è necessario qualcuno che lo eserciti. Se ciò che definiamo io proviamo ad estrarlo dall’ereditarietà genetica e dalle circostanze sociali -che nel determinarlo ne sconfessano la sussistenza- che rimane? Rimane l’unicità e l’irripetibilità del singolo, anche questa prova debole di una sua fondata consistenza, perché conseguenza di miliardi di combinazioni possibili, assemblaggio di fattori impersonali che non forniscono prova di un nucleo personale autonomo e libero. Resta la circostanza che proviamo piacere, gioia, dolore e sofferenza, che siamo essere senzienti come dicono i buddisti e sperimentano le amebe, funzionamenti biochimici che poco dimostrano se non meccaniche leggi: basta e avanza ingurgitare un qualche alcaloide dell'oppio e il sentire muta come la rana sgambetta per impulso elettrico. Resta il pensiero a giustificare l'io soggetto? Sgrossato da memorie e meccanismi geneticamente ereditati, dall'erudizione che memorizza e dai processi logici appresi e ripetuti come fanno i computer, cosa e quanto rimane di realmente sorgivo? Rimane la coscienza che percepisce d'essere, ma non dice io.
Eppure l’io è qui, tanto evidente quanto inafferrabile. In fondo gli ultimi diecimila anni della storia del pensiero umano, da Omero alla disputa sugli universali, dal credere o non credere in Dio fino alle problematiche intorno all'intelligenza artificiale, sono stati tentativi di risolvere il dilemma. Può darsi che Omero e discendenza sono stati quelli che ci sono riusciti meglio: se c'è racconto c'è autore.