All’appello dell’umanità più di sette miliardi rispondono presente, ma cosa è presente e chi?
Non è poi chiaro che cosa sia per davvero l’io. La circostanza di avere un nome proprio è un mero arbitrio per distinguerci, ma non prova di individualità libera e cosciente. Libero arbitrio? Problema per nulla risolto e qui secondario, visto che per attuarsi è necessario qualcuno che lo eserciti. Se ciò che definiamo io proviamo ad estrarlo dall’ereditarietà genetica e dalle circostanze sociali -che nel determinarlo ne sconfessano la sussistenza- che rimane? Rimane l’unicità e l’irripetibilità del singolo, anche questa prova debole di una sua fondata consistenza, perché conseguenza di miliardi di combinazioni possibili, assemblaggio di fattori impersonali che non forniscono prova di un nucleo personale autonomo e libero. Resta la circostanza che proviamo piacere, gioia, dolore e sofferenza, che siamo essere senzienti come dicono i buddisti e sperimentano le amebe, funzionamenti biochimici che poco dimostrano se non meccaniche leggi: basta e avanza ingurgitare un qualche alcaloide dell'oppio e il sentire muta come la rana sgambetta per impulso elettrico. Resta il pensiero a giustificare l'io soggetto? Sgrossato da memorie e meccanismi geneticamente ereditati, dall'erudizione che memorizza e dai processi logici appresi e ripetuti come fanno i computer, cosa e quanto rimane di realmente sorgivo? Rimane la coscienza che percepisce d'essere, ma non dice io.
Eppure l’io è qui, tanto evidente quanto inafferrabile. In fondo gli ultimi diecimila anni della storia del pensiero umano, da Omero alla disputa sugli universali, dal credere o non credere in Dio fino alle problematiche intorno all'intelligenza artificiale, sono stati tentativi di risolvere il dilemma. Può darsi che Omero e discendenza sono stati quelli che ci sono riusciti meglio: se c'è racconto c'è autore.