BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Bruno Vergani

Bruno Vergani

Radiografie appese a un filo. Condivisione di un percorso artistico, davanti al baratro con angoscia parzialmente controllata.

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Sabato, 15 Ottobre 2016 18:55

L’eterno ritorno

«Molto lentamente ma inesorabilmente sto diventando come mio padre.»[1]

Non così per tutti e se così per certuni un guaio per altri un vantaggio. Per quanto mi riguarda non ho ancora trovato risposta precisa, ma osservandomi intorno una certezza l'ho forse raggiunta: primeggiano, ignare, nella categoria degli inguaiati, alcune madri in gioventù trasgressive, orgiaste impegnate, rivoluzionarie gaudenti, eversive, sovversive-radical chic, ingurgitanti psicotizzanti, psicoanalettici, psicotonici, psicotropi, psichedelici, psicolettici, psicotonici e allucinogeni, femministe e nudiste, oggi impegnate a tempo pieno nell’emanare a raffica ordinanze morali restrittive sulla vita e costumi dei figli. Erano meglio da giovani.

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1 Dal diario del cantautore e chitarrista Joe Strummer (1952-2002) in foto, membro del gruppo punk rock The Clash; citazione ascoltata qui.

Venerdì, 14 Ottobre 2016 12:03

Thánatos?

Dopo aver frequentato per anni James Hillman terminata la lettura de “Il suicidio e l’anima” avevo deciso d’evitarlo, o perlomeno di frequentarlo meno regolarmente. Hillman è autore originale che tra stimoli utili e visioni coraggiose ne propone, però e non di rado, di astruse; a iniziare dalla possibilità per lo psicoterapeuta di continuare la terapia post suicidio a cliente morto stecchito, eventualità che Hillman illustra con nonchalance New Age ne “Il suicidio e l’anima”, eppure nel recente oculato rileggere “La forza del carattere”, un suo saggio sulla vecchiaia, in alcuni capitoli mi sono ricreduto riconoscendo che, tutto sommato, val ben la pena tollerare una qualche stranezza se alternata e compensata da fondate stimolanti prospettive, come l’arguta analogia tra infanzia e vecchiaia che l’Autore abbozza ne “La forza del carattere”:

«Così come dobbiamo dispiegarci, o svilupparci, per guadagnare l’accesso al mondo, allo stesso modo il ripiegamento, o invecchiamento, è essenziale per la nostra uscita […] è un errore madornale leggere i fenomeni della vecchiaia come indizi di morte invece che come iniziazioni a un’altra modalità di vita.» (Ed. Adelphi, pag. 106).

Infanzia, dunque, come preparazione all’entrata in questa esistenza nel mondo; vecchiaia come preparazione a uscirne. L’Autore aggiunge “per iniziare altra modalità di vita”.
Quale? Dove? Non lo so e Hillman neppure: in fin dei conti quando la candela si spegne la fiamma non va da nessuna parte, tuttavia, saggiamente, osserva che ignoto non significa necessariamente nullificazione, ma ciò che “non conosciamo ancora”. Così come un adolescente sarà angosciato per la limitata capacità di prevedere la sua esistenza nel mondo dovuta a scarsità d’esperienza - angoscia di vita - (vedi qui), in modo analogo il vecchio sarà angosciato per la limitata capacità di prevedere ciò che ancora non conosce nell’uscirne - angoscia di morte -.
Il “non lo so” può essere causa di angoscia ma anche rassicurante per le illimitate possibilità che esprime, dopotutto il diffuso affermare “dopo non c’è più niente” è un vero e proprio atto di fede, un equivocare una provvisoria carenza di dati perché non ancora conosciuti con un ipotetico fisso ignoto assoluto: l’Ignoto. Bizzarra divinità fautrice del cessare perpetuo, ente che alberga nella testa di qualcuno, soggettivamente esistente ma ontologicamente irreale. Considero, per inciso, che la narrazione della resurrezione di Cristo illustra ‘ste tematiche pornograficamente: si vede tutto per non vedere niente, questo approccio è invece erotico, dice poco ma si intravede assai.  

L’osservazione empirica dei vecchi mostra la sanità di questo prepararsi, grazie all’ineluttabile opportunità - equivocata da numerosi, ma non da tutti, come disgrazia - della naturale decadenza senile, a uscire dal mondo. Così nella vecchiaia più si tende a “durare” nostalgici della passata gioventù che si vorrebbe perpetuamente ripristinare, più si cade nella disperazione, invece più si molla l’osso più si diventa sereni. Un mollare che non è rinuncia ma inizio di un nuovo pensare che, indifferente a proprietà, a occidentali protocolli di efficienza, incurante dei pettegolezzi della cronaca, comincia rilassato altro, nuovo, importante lavoro.

Faccio sessant’anni a gennaio e per quanto sentenziano le aspettative di vita dei maschi italiani dovrei campare ancora, se senza accidenti, ancora un po’, ma non è poi male iniziare da subito la preparazione all’uscita. Un buon modo è d’affidarmi-allearmi a quella forza che da una goccia di sperma, essenza di un paio d’etti di lenticchie e una mela mangiata da mio padre, m’aveva fatto feto e poi spontaneamente uomo, forza capace di farmi digerire le orecchiette con le rape senza che io conosca l'ABC della gastroenterologia, forza ignota eppure efficace, estranea eppure costitutiva. Un affidamento alla natura che tiranna mi fagocita in un meccanico funzionamento esautorante la personalità? Questo è quello che sembra, quello che c’è ed è per fortuna non lo sappiamo. Tutto, dunque, aperto.

Venerdì, 07 Ottobre 2016 15:10

Sotto le righe, sopra le righe

Giacché si muore e poiché lo sappiamo l’umanità, da sempre, si è attivata per ricucire il supremo strappo. L'imbastitura per suturare l’incombente lacerazione tra l’essere vivi e morti ha prodotto numerose e svariati percorsi esistenziali, teoretici, religiosi. Soluzioni naif o sofisticate, misere o dignitosissime, tra quest’ultime il naturalismo che invece di attardarsi nel rammendare lo strappo lo ridimensiona all’origine valutandolo esasperazione di concezioni antropocentriche precludenti la possibilità di una serena ecoappartenenza; appartenenza che vede la persona e l'umanità immerse nella preesistente incessante natura. Moriremo tutti, moriremo ancora e ci scoccerà pure, ma lontano da smisurate egocentriche isterie ce ne faremo una ragione senza frignare più del necessario nel constatare nuove nascite all'ombra di ulivi millenari.

Tale ragionevole approccio del naturalismo filosofico, che forte non sale di giri, ci consente di osservare in alcune altre concezioni una interazione costante: più s’interpreterà grave lo strappo procurato dalla ferita egocentrica di dover morire e più sarà necessario ricorrere a soluzioni forti per ricucirlo: se valutato severo procurerà un certo disagio esistenziale, o meglio esistenzialista, con il conseguente crogiolarsi in geremiadi interminabili, se, ancor peggio, viene percepito immane produrrà angoscia estrema, tragicità che caratterizza alcuni filoni del nichilismo filosofico, concezioni che indifferenti alle incontestabili evidenze dell’esistenza di Soggetto, Altro, Natura, implementeranno  - attraverso un vero e proprio atto di fede - un artificiale ente “Nulla”, teoria che non trova alcun preciso riscontro nella realtà. Forme di nichilismo estremo che conducono a due possibilità, la prima, nota ma poco diffusa, che si esprime nel rifiuto d’esistere fino anche al suicidio; la seconda, diffusissima ma sfuggente[1], che invece reagisce a tale ipotetico nulla - buco nero forato a dismisura con trapano moderno dal nichilismo medesimo - costruendo narrazioni salvifiche sopra le righe congrue a quell’immensa voragine: costruzioni reattive religiose, idealistiche, oppure ideologiche, che nella storia della filosofia, come pure nella vita quotidiana di ognuno, appaiono agli antipodi da qualsiasi nichilismo, combattuto frontalmente da salvatori di patrie e di anime traboccanti di “valori” e entusiasmo, mentre, a ben osservare, proprio sul nichilismo si radicano e poggiano. Dopotutto in ogni esaltato, sotto, sotto, c’è un disperato.

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1 Non per tutti, vedi il saggio di Orlando Franceschelli, “Karl Löwith, le sfide della modernità tra Dio e nulla”; Donzelli Editore, dove a pag. 64 e sgg. l’Autore illustrando l’analisi di Löwith su Kierkegaard coglie preciso la problematica.


Domenica, 02 Ottobre 2016 11:11

L’indagine

Risulterebbe anomalo il comportarsi a capocchia, il comportamento di ogni individuo è infatti preceduto e generato da un ordinamento personale, latente o manifesto, misero nel merito oppure valoroso, preciso o confuso, lineare o contorto, scritto e promulgato più o meno consapevolmente dal soggetto stesso, tant'è che “normale” contiene e deriva da “norma”.

Oltre che analizzare l'atto soggettivo in sé per quello che è forse più utile individuare, esplorare e valutare, l’ordinamento che lo decreta.

Mercoledì, 28 Settembre 2016 08:31

Mistagogia nostrana

Infrequente che entri in una chiesa, ho già dato. Talora varco il portale cattolico per estemporanee visite artistico-culturali o per partecipare a un qualche funerale o costretto in matrimoni o battesimi. Nonostante il personale, eccessivo, recalcitrare riconosco alla Chiesa cattolica e alle sue celebrazioni dei sacramenti l’inoppugnabile abilità di non farmi uscire indenne da quel posto, grazie a una sorta di brainstorming che là mi accade. Sotto, sotto, non mi dispiacerebbe recarmi, giusto una volta, senza invito ben mimetizzato coi fedeli, ad una qualche cresima, situazione strategicamente privilegiata per puntuali diagnosi e indagini sociali, psicologiche e antropologiche, italiche e universali. Perché l’osservazione risulti puntuale è necessario un netto straniamento, come se giunti da molto lontano ci trovassimo casualmente in quella chiesa per la prima volta, pertanto curiosi di comprendere l’accadimento: cause, origini, metodi, scopi, intenzioni, mistagogie; ben monitorando l’edificio, il sacerdote, l’abbigliamento e l’arredamento, i soggetti presenti, le formule eseguite e proferite, le materie, gli effluvi, le allegorie e tutti i gesti in ogni minimo dettaglio.

Domenica scorsa, invitato a un battesimo, ci ho provato. Raggiunto il suddetto straniamento la concentrazione è sorta rapida e spontanea, grazie ai peculiari stimoli provenienti dall’ambiente che mi hanno attivato un “flusso di coscienza” travolgente e pure tenace. In quel circoscritto mettere a fuoco la situazione la prima conseguenza è stata lo sgretolarsi della concezione che interpreta il paganesimo in opposizione al cristianesimo, beninteso non tutto il cristianesimo ma la mistagogia di quella celebrazione, richiamante la religiosità della Grecia e della Roma antiche, oltre a quella misterica egizia, evocante precisa anche animismi e sciamanesimi nell’utilizzo di materiali naturali - olio, acqua - o un minimo elaborati - vino, pane - che in un crescendo rappresentavano, veicolavano, talvolta contenevano il soprannaturale, per mezzo di un sacerdote che eseguiva con mirata intenzione formule codificate, gesti e parole. Acqua e olio elementi che nel battesimo non solo rimandano a significati e invitano a percorsi, ma materia efficace in sé. Perché il sacramento sia valido non basta la buona disposizione del soggetto, la corretta intenzione del ministro celebrante e la giusta forma, ci vuole anche la materia esatta: ingrediente sbagliato sacramento inficiato.

Insieme all’intenzionalità verso tale fine il rito si attardava lento senza motivo apparente, probabilmente per il mero piacere del celebrare in sé, dimensione un po’ orientale, piacevole e potente. Una sorta di gioco, d’inno all’ “inutile”, proficuo e pure rivoluzionario, un curare quel diffuso e imperversante, nevrotico, ossessivo, voler continuamente raggiungere che succede fuori da quelle mura, fibrillazione tanto veloce e determinata quanto inconsapevole della meta.

Davvero non male, forse prima esageravo, imprudente accomunare frettolosamente la liturgia cattolica con lo sciamanesimo e addirittura con l’antico Egitto e i suoi balsami magici, eppure, se ben ricordo, al battesimo il prete aveva adoperato oli differenti, uno dei quali balsamico, a suo dire preparati dal vescovo una volta l’anno, sempre di giovedì. Prima aveva unto il bambino con un olio d’oliva, “olio dei catecumeni” aveva spiegato il prete, poi aveva passato il pargolo con l’acqua, ma non soddisfatto l’aveva riunto con un altro olio piuttosto speziato, “crisma” aveva detto. Il ministro disponeva pure di un terzo olio approntato ad hoc dal vescovo per santificare gli infermi, ma il bambino già unto e bisunto, per fortuna, forse per grazia, stava bene. E i fedeli presenti? Indifferenti a qualsiasi monitorare e comprendere gli andava bene così, non è escluso che se il ministro gli avesse indicato di mettersi il mignolo nell’orecchio sinistro alzando la gamba destra avrebbero eseguito.

Ricordo l’amato papa Francesco che in un’omelia affermava che senza aver ricevuto il sacramento della cresima si rimane “cristiani a metà”, anche se Gesù di Nazareth, se ben ricordo, riguardo certe cose diceva tutt’altro. Mica può dire cose diverse il pontefice, la dottrina è quella ed io con tutto il rispetto per cattolicesimo & paganesimo non posso che diffidare di chi mi propone una confermazione e realizzazione personale, universale e definitiva, ungendomi con un olio speziato.

Lunedì, 26 Settembre 2016 11:31

La nuova alleanza

Al clou del rito battesimale, atto che fonda tutta la vita cristiana liberandoci “dal peccato e dal suo istigatore” donandoci la “grazia inestimabile di diventare figli di Dio”, osservo le cosce della bella mamma col tubino e i tacchi a spillo, evidenza non meno efficace di grazia inestimabile.

Non sarebbe poi male che le due forze in campo la finissero di bisticciare e stringessero, finalmente, alleanza.

Domenica, 25 Settembre 2016 09:28

Ontobotanica dell’Ailanto

Italia centrale, autunno 2016. “Questo non ci dovrebbe stare!”, non è Salvini che spara la sentenza ma un botanico che scorge un Ailanto tra la folta, svariata, vegetazione. In effetti quell’albero, importato dalla Cina circa tre secoli fa, talvolta infesta i nostrani areali, ma perlopiù è armonicamente integrato.

L’architettura di tale sentenza botanica mi sembra affondi su un terreno instabile, poggiando su due preconcetti ontologici:
il primo, riferendosi a una qualche ignota religione rivelata, sistematizza precettisticamente gli enti botanici nel territorio, separandoli in giusti se autoctoni e sbagliati se esotici;
il secondo divide l’intervento umano da quello naturale, arbitrio che interpreta “naturale” l’Ailanto se giunto qui trasportato dall’inconsapevole vento, ma “innaturale” se portato dagli uomini. Un separare artefatto e natura tutto da chiarire. Vale per le piante, vale per le persone.  

Giovedì, 22 Settembre 2016 17:35

Quello che non vedo di mio figlio

Come figlio e come padre - sia nell’accezione biologica, che nelle relazioni amicali, affettive o spirituali - non mi sono fatto mancare nulla, talvolta sono stato padre e figlio con profitto mio e dei partner, altre volte dominato o dominante, assente o invadente, impotente o prepotente. Territorio complesso il rapporto padre-figlio, luogo di benessere ma anche di possibili disastri.

«Il mio popolo perisce per mancanza di conoscenza» ammoniva il profeta e Domenico Barrilà, psicoterapeuta e analista adleriano, nel suo ultimo saggio interviene per porre riparo a tale perire. Il volume “Quello che non vedo di mio figlio” con sottotitolo "Un nuovo sguardo per intervenire senza tirare a indovinare", analizza il rapporto maternità-paternità/figliolanza in presa diretta lontano da preconcette teorie e dozzinali sistematizzazioni. L’Autore opera con empatica discrezione sul campo, un “osservare per vedere”, non tanto i “ragazzi” - ente sociologico e della statistica, sovente estraneo alla vita reale, frutto di generalizzazioni e frammentazioni specialistiche - ma, con approccio idiografico osserva e vede quello specifico ragazzo, quel singolare bambino, quel figlio irrepetibile. Osservazione che alla larga da teorici enunciati generali si converte a modalità di accostamento alla persona reale. Barrilà osserva scientificamente e vede empaticamente, evitando buonismi, il punto di vista di quel figlio, di quel ragazzo, nello specifico ambiente familiare e sociale rendicontandolo con chiarezza e semplicità di linguaggio, individuando e smantellando le imperversanti interpretazioni e i diffusi giudizi stereotipati, quanto erronei, di numerosi adulti che pretendono di universalizzare il proprio modo di percepire il mondo. Avvocato difensore del minore che optando per il domandare, invece del giudicare, ne tutela la sovranità personale, un bodyguard della appercezione, del “Sé creativo”(Adler). Operare che osserva e vede nel ragazzo il vocabolario affettivo appreso, i danni del non detto nelle costellazioni familiari, la specifica costituzione ereditaria (DNA), le impressioni soggettive del minore per ciò che lo circonda, altri individui in primis. Quest’ultimo osservare il giovane nelle relazioni allargate è indicato come, semplice ma efficientissimo, “test diagnostico” del benessere del bambino e dell’adolescente; ne consegue che la prima urgenza di ogni educatore dovrebbe essere quella di educare al sentimento comunitario nella “compartecipazione emotiva” (Adler).

Evidentemente un soggetto avente fluttuanti impressioni soggettive non è entità sacra immacolata, pertanto, mai imputabile, ma persona capace di intendere e volere dunque responsabile di sé nel mondo. L’Autore, dunque, oltre a ricordare che non tutto può essere messo in conto ai genitori, nel suo incontrare e conoscere lo specifico ragazzo nella sua totalità, invece degli eventuali “guasti”, illustra e indica tre moti necessari al minore - e a chicchessia - perché la vita sia sana, “compiti vitali” che individua nella capacità del giovane di sperimentare affetto, empatia, amore, per sé e per l’Altro a lui prossimo; nell’abilità di coinvolgimento lavorativo e creativo (giochi, studio); nella fattiva relazione amicale, cooperativa, di partnership e di sentimento comunitario nel mondo. Amare, lavorare, appartenere. Valutazione non giudicante eppure chirurgica, analisi che mantiene la distanza ma tocca l’intimo, che invita alla vicinanza e insieme all’equidistanza, operazione complessa non meno dell’astrofisica e della fisica quantistica, tant’è che Barrilà utilizza con frequenza onde, particelle e campi, per esemplificare passaggi che risulterebbero incomprensibili all’interno di una struttura di pensiero squisitamente binaria.  

L’adolescenza appare come momento conflittuale a causa di un Io in formazione che oscilla tra volontà di completa autonomia mischiata al persistere del desiderio di accudimento, dinamica ulteriormente complicata da modificazioni organiche e ormonali. Condizione che procura oscillazioni talora eccessive, dove può prevalere il sentimento dell’audacia su quello della prudenza, momento evidentemente critico eppure l’intoppo, specie nei casi più difficili, non alberga lì ma nei remoti, eppure cruciali, snodi e nodi dei primissimi anni di esistenza che nel passaggio adolescenziale presentano il conto; adolescenza mera catalizzatrice che evidenzia caratteristiche di un individuo affatto indivisibile in ere geologiche circoscritte e separate, ma determinato dalla “persistenza del passato remoto nel presente”.
Dunque il problema non sarà la ribellione in sé, talvolta legittima difesa nei confronti di associazioni a delinquere genitoriali, non sarà neppure l’eventuale abuso di sostanze psicotrope ma i motivi profondi e remoti che spingono al narcotico, artificiale, evitamento. E la masturbazione? No problem, anzi proficua se non chiusa ma finalizzata a sani incontri affettivi nella realtà concreta. Approcci etero o omosessuali? Irrilevante, garantisce l’Autore, rilevante è l’affetto personale e la vivezza del sentimento sociale. Così, con qualche distinguo non secondario, pure internet e correlate consapevolezza o inconsapevolezza digitale, al quale è dedicato, con taglio divulgativo-tecnico, uno specifico capitolo in appendice.

Cartina tornasole di eventuali latenti intoppi remoti, anche severi, è il momento nel quale il giovane entra autonomo, poggiando tutto sulle sue gambe, nel mondo lavorativo o universitario. Talvolta, in tale non procrastinabile richiesta di responsabilità di sé nel mondo, riemergono prepotenti nodi antichi, che in taluni casi possono innescare angoscia paralizzante. Il saggio rendiconta decine di esperienze, talune drammatiche, dove i tentativi attuati dal giovane per risolvere l’impasse - di per sé circoscritta e risolvibile ma percepita soggettivamente immane - risultano enormemente più dannosi e controproducenti del problema contingente. Il saggio annota tra le cause di tale angoscia giovanile anche la limitata capacità di prevedere per incolpevole scarsità d’esperienza, presente invece nell’adulto. La percezione della personale inadeguatezza verrà amplificata, esasperata, universalizzata, deificata: in tale passaggio il bambino insicuro o mortificato di un tempo emergerà in tutta la sua gloria nel giovane uomo implementando strategie radicali e anche “geniali”: per ben ammalarsi così da sfuggire completamente al mondo - società, lavoro, affetti -, può essere necessario valoroso estro e abile fantasia, oltre che a notevole energia. Tale rendicontare “clinico” - che in alcuni casi l’Autore definisce “ostinati ricordi” per quanto l’hanno umanamente colpito - di tanti giovani che non giocano la partita per non perderla, è accompagnato e alternato da passaggi autobiografici dell’Autore stesso, segno di rispetto e di empatia, dottore e paziente amici di percorso, persone sulla stessa barca e sotto lo stesso cielo.

Riguardo le declinazioni del sentimento comunitario il saggio si attarda preciso in un distinguo importante, differenziando le comunità aperte al prossimo e all’universale dai gruppi autoreferenziali e chiusi, nei quali l’incorporazione del giovane per immersione acritica e annegamento equivale, di fatto, a solipsismo, nella fattispecie tribale invece che individuale, talvolta con conseguenze ancora più gravi a causa dell’autoritaria, sistematica, esautorazione delle personali potenzialità nei confronti dell’appartenente al gruppo.
 
Domenico Barrilà,
Quello che non vedo di mio figlio. Un nuovo sguardo per intervenire senza tirare a indovinare;
Urra Feltrinelli


Venerdì, 16 Settembre 2016 11:35

Analisi dell’incazzato

Invecchiando la decina d’attacchi d’ira che avevo all’anno sono aumentati d’intensità però diminuiti di numero. Circoscritta momentanea pazzia che di solito mi coglie una mezz’ora dopo il risveglio se un qualche pirla entra nel mio spazio psichico a gamba tesa. Si dice “perdere la testa” come se da una parte ci fosse il regno delle emozioni e passioni abitato da decapitati, dall’altra quello del pensiero invece popolato da vigili urbani col cappello in testa che fischiano allorquando nel regno delle passioni scorgono maretta o fuochi d’artificio fuori orario.  Dinamica incontestabile come insegna la tradizione platonica, stoica, dell’illuminismo, cristiana e pure orientale, tutte d’accordo nel riconoscere al pensiero anche funzione legislativa di controllo e contenimento sulle emozioni. Qualcuno, se non ricordo male Spinoza, osservava tuttavia che anche senza il pensiero-vigile-urbano, le passioni-emozioni, quando opposte, procurano di per sé una sorta di autoregolazione, ad esempio la paura stimola l’audacia e l’audacia circoscrive la paura.

Ritornando ai due regni distinti c’è qualcosa che non torna, ricordo quando facevo l’attore e l’amico Vincenzo mi dirigeva, quando carente nel manifestare una emozione mica mi invitava ad amplificarla, ma mi chiedeva: «Cosa stai pensando?» e su quello si lavorava, in quanto emozioni e passioni sono frutto non di viscere ma di pensiero.
Un amico anestesista mi spiegava che per alcuni interventi chirurgici basta e avanza che il paziente dorma più o meno profondo, invece per altre operazioni, tipo quelle “a cielo aperto” dell’intestino, è necessaria una sedazione completa, altrimenti le budella reagiscono all’invasione traumatica prolassandosi e muovendosi, disturbando l’operare del chirurgo.  Tutto qui, ne più ne meno della rana di Galvani che sgambetta catatonica. Dal cuore e dalle viscere nulla di più.

Dentro ogni attacco d’ira alberga una specifica Weltanschauung e una precisa ontologia, anche logica, metafisica, etica, estetica, epistemologia e gnoseologia, politica, sociologia, filosofia del linguaggio e teologia non di rado capace di produrre bestemmie più efficaci di certe orazioni canoniche. La testa c’è, perlopiù sbagliata, ma c’è. Quasi tutta.

Giovedì, 15 Settembre 2016 18:20

Crisi d’identità assente: prognosi infausta.

A ben vedere la personale identità sta agli antipodi dall’identicità; l’identità per definirsi e consolidarsi necessita di continua e movimentata interpretazione-riformulazione dell’ambiente; reciproco foggiare nell'interazione creativa e costante dell’Io con ciò che lo circonda e viceversa.

Dopotutto la forza dell’identità è misurabile dalla capacità di fluttuare per riformulare-riformularsi e la miseria dalla statica identicità, vale per l’identità della persona, di un gruppo, di un popolo.

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