Dopo aver frequentato per anni James Hillman terminata la lettura de “Il suicidio e l’anima” avevo deciso d’evitarlo, o perlomeno di frequentarlo meno regolarmente. Hillman è autore originale che tra stimoli utili e visioni coraggiose ne propone, però e non di rado, di astruse; a iniziare dalla possibilità per lo psicoterapeuta di continuare la terapia post suicidio a cliente morto stecchito, eventualità che Hillman illustra con nonchalance New Age ne “Il suicidio e l’anima”, eppure nel recente oculato rileggere “La forza del carattere”, un suo saggio sulla vecchiaia, in alcuni capitoli mi sono ricreduto riconoscendo che, tutto sommato, val ben la pena tollerare una qualche stranezza se alternata e compensata da fondate stimolanti prospettive, come l’arguta analogia tra infanzia e vecchiaia che l’Autore abbozza ne “La forza del carattere”:
«Così come dobbiamo dispiegarci, o svilupparci, per guadagnare l’accesso al mondo, allo stesso modo il ripiegamento, o invecchiamento, è essenziale per la nostra uscita […] è un errore madornale leggere i fenomeni della vecchiaia come indizi di morte invece che come iniziazioni a un’altra modalità di vita.» (Ed. Adelphi, pag. 106).
Infanzia, dunque, come preparazione all’entrata in questa esistenza nel mondo; vecchiaia come preparazione a uscirne. L’Autore aggiunge “per iniziare altra modalità di vita”.
Quale? Dove? Non lo so e Hillman neppure: in fin dei conti quando la candela si spegne la fiamma non va da nessuna parte, tuttavia, saggiamente, osserva che ignoto non significa necessariamente nullificazione, ma ciò che “non conosciamo ancora”. Così come un adolescente sarà angosciato per la limitata capacità di prevedere la sua esistenza nel mondo dovuta a scarsità d’esperienza - angoscia di vita - (vedi qui), in modo analogo il vecchio sarà angosciato per la limitata capacità di prevedere ciò che ancora non conosce nell’uscirne - angoscia di morte -.
Il “non lo so” può essere causa di angoscia ma anche rassicurante per le illimitate possibilità che esprime, dopotutto il diffuso affermare “dopo non c’è più niente” è un vero e proprio atto di fede, un equivocare una provvisoria carenza di dati perché non ancora conosciuti con un ipotetico fisso ignoto assoluto: l’Ignoto. Bizzarra divinità fautrice del cessare perpetuo, ente che alberga nella testa di qualcuno, soggettivamente esistente ma ontologicamente irreale. Considero, per inciso, che la narrazione della resurrezione di Cristo illustra ‘ste tematiche pornograficamente: si vede tutto per non vedere niente, questo approccio è invece erotico, dice poco ma si intravede assai.
L’osservazione empirica dei vecchi mostra la sanità di questo prepararsi, grazie all’ineluttabile opportunità - equivocata da numerosi, ma non da tutti, come disgrazia - della naturale decadenza senile, a uscire dal mondo. Così nella vecchiaia più si tende a “durare” nostalgici della passata gioventù che si vorrebbe perpetuamente ripristinare, più si cade nella disperazione, invece più si molla l’osso più si diventa sereni. Un mollare che non è rinuncia ma inizio di un nuovo pensare che, indifferente a proprietà, a occidentali protocolli di efficienza, incurante dei pettegolezzi della cronaca, comincia rilassato altro, nuovo, importante lavoro.
Faccio sessant’anni a gennaio e per quanto sentenziano le aspettative di vita dei maschi italiani dovrei campare ancora, se senza accidenti, ancora un po’, ma non è poi male iniziare da subito la preparazione all’uscita. Un buon modo è d’affidarmi-allearmi a quella forza che da una goccia di sperma, essenza di un paio d’etti di lenticchie e una mela mangiata da mio padre, m’aveva fatto feto e poi spontaneamente uomo, forza capace di farmi digerire le orecchiette con le rape senza che io conosca l'ABC della gastroenterologia, forza ignota eppure efficace, estranea eppure costitutiva. Un affidamento alla natura che tiranna mi fagocita in un meccanico funzionamento esautorante la personalità? Questo è quello che sembra, quello che c’è ed è per fortuna non lo sappiamo. Tutto, dunque, aperto.