Uno mangia l’altro guarda
Hans Küng nella sua autobiografia ricorda quando ragazzo faceva il bagno nel lago freddo e profondo della sua cittadina svizzera, descrivendo quelle nuotate percepiva: «l’io perdersi in una totalità più grande e onniabbracciante, senza con questo diventare una goccia d’acqua, ma restando me stesso.»
Una sorta di naturalismo che non precludendo l’ipotesi di un possibile logos artefice dell'universo offre, di rimando, la possibilità per l’io - “D(Io)” - di non essere annichilito fagocitato dalla Natura, forza mastodontica quanto incosciente e cieca; una affinità della Natura con la persona non solo biologica ma psichica e di pensiero. Posizione per il naturalismo filosofico evidente eretica - anzi questo non è naturalismo - ma, almeno per me, di cruciale interesse.
Quel «senza diventare una goccia d’acqua, ma restando me stesso» - ecoappartenenza non esautorante il soggetto - mi sembra una buona sintesi tra parte delle filosofie orientali e i monoteismi rivelati, dove le prime vedono l’Io una inutile illusione da affogare il prima possibile nel grande funzionamento cosmico, i secondi invece interpretano l’Io come reale, unico e irripetibile, che così a immagine e somiglianza del Creatore sottometta la natura alla sua gloria: «Crescete e moltiplicate e riempite la terra, e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra» (Genesi).
Ne ho parlato con il caro amico Fabio Pacini il quale mi ha fatto presente che per le filosofie orientali non è sempre e solo così, ricordandomi i due “Io” che secondo alcuni filoni del pensiero vedico ci costituiscono: quello che percepisce e vive il mondo, va alla posta e al supermercato e quello che osserva questo nostro agire personale contemplando imperturbabile la realtà. Roberto Calasso nel suo saggio «L'ardore» illustra puntuale la dinamica:
«Dal Ṛgveda alla Bhagavad Gītā si elabora un pensiero che non riconosce mai un soggetto singolo, ma presuppone al contrario un soggetto duale. Così è perché duale è la costituzione della mente: fatta di uno sguardo che percepisce (mangia) il mondo e di uno sguardo che contempla lo sguardo rivolto al mondo. La prima enunciazione di questo pensiero si ha con i due uccelli dell'inno 1, 164 del Ṛgveda: «Due uccelli, una coppia di amici, sono aggrappati allo stesso albero. Uno di loro mangia la dolce bacca del pippala; l'altro, senza mangiare, guarda». Non c'è rivelazione che vada oltre questa, nella sua elementarità. E il Ṛgveda la presenta con la limpidezza del suo linguaggio enigmatico. La costituzione duale della mente implica che in ciascuno di noi abitino e vivano perennemente i due uccelli: il Sé, ātman, e l'Io, aham.» (p. 157)
Certo si può anche vivere tutta un’esistenza arrabattandosi in vicende e faccende nelle circostanze, ma se ci osserviamo ci sarà pur accaduto, specialmente in situazioni dolorose spiazzanti, che ci scopriamo a osservare con chiarezza noi e il mondo con uno strano, potente, distacco.
I due uccelli… Singolare che nella sua biografia Küng una pagina dopo il voler «diventare una goccia d’acqua, ma restando me [sé] stesso» ricorda che nel nuotare aveva incontrato nel lago coppie di martin pescatori, uccelli monogami: « tento […] di separarli l’uno dall’altro, ma perdo regolarmente.» Strana coincidenza quanto scrive Küng, davvero sincronica con quanto scritto qui. Sto virando al New Age, meglio chiudere.
Secrezioni
Anche se abbiamo in bocca diverse centinaia di batteri e mica tutti buoni un baciamano non fa male a nessuno, manco due. Ma se te ne becchi migliaia a raffica la faccenda potrebbe diventare pericolosa, così il medico personale di Papa Pio XII dopo un bagno di folla gli disinfettava le mani dall’accumulo di devoto secreto[1].
Ecco, il divismo fa male, e non solo agli infatuati idolatranti fan.
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1 L’ho appreso dall’autobiografia di Hans Küng « Una battaglia lunga una vita. Idee, passioni, speranze. Il mio racconto del secolo », dove riporta che nella basilica di San Pietro aveva visto, casualmente, la disinfezione. Küng commenta quel remoto ricordo con parole affettuose, valutando l’intervento umano e ragionevole.
Il giudizio degli altri
Il giudizio degli altri è un testo estrapolato dagli Aforismi per una vita saggia contenuti nei Parerga di Schopenhauer. Le pagine affrontano con impianto aristotelico tre categorie della persona: ciò che ha; ciò che è; ciò che rappresenta, ovvero ciò che siamo nella testa degli altri. Schopenhauer vede nell’eccessivo preoccuparsi dell’opinione altrui un severo difetto dell’essere umano, anzi il difetto fondamentale, imperversante assurdità che genera un inutile e controproducente, quanto abnorme, dispendio d’energia.
L’Autore valuta questo suo lavoro opera “minore” in effetti Schopenhauer, di solito puntuale nello spaccare il capello in quattro, questa volta appare impreciso nella sua disamina, perlomeno per tre motivi:
valuta pregiudizialmente l’Io personale superiore all’Altro, tesi tutta da dimostrare;
oltre alla mera vanità e alla debolezza della natura umana omette di individuare e analizzare altre possibili forze che ci spingono alla ricerca di consenso dai nostri simili;
sembra sfuggirgli il possibile scostamento tra ciò che realmente siamo rispetto all’immagine di noi albergante nella nostra stessa testa (discordanza che trascura) ben prima che nella testa degli altri (differenza sulla quale si attarda). Buchi, mi sembra, non piccoli tant’è che possono contenere intere discipline. Insomma opera qualitativamente inferiore rispetto a Il Mondo come Volontà e rappresentazione nella quale sosteneva: «C'è un unico errore innato, ed è quello di credere che noi esistiamo per essere felici» rispetto al quale l’Autore si ammaina da sé medesimo offrendo ricette per essere felici - eudemonismo a tratti spicciolo -, o perlomeno sereni. Per la cronaca Il Mondo come Volontà e rappresentazione, oggi pilastro della filosofia, ai tempi della prima stampa si rivelò un fallimento editoriale mentre gli scritti “minori” Parerga e paralipomena contenenti Il giudizio degli altri, furono un successo editoriale.
Il giudizio degli altri oggi appare opera in alcuni passaggi obsoleta nel suo dettagliare ottocentesche fame e glorie onorate per mezzo di duelli, eppure obsolescenza interessante in quanto ci offre la percezione plastica di quanto le umane e sociali dinamiche di essere e apparire siano mutate negli ultimi centocinquanta anni con l’avvento dei mass media. Capovolgimento di galassie con produzione di un inedito "velo di Maya", non sarebbe male se esistesse una sorta di purgatorio dove Warhol e Pasolini aggiornino Schopenhauer della strana piega che ha preso, in sua assenza, la vicenda.
La cannata
Non è che oltre alla dittatura dei mercati della UE, all’imperialismo USA e alla JP Morgan, forse ci hai messo anche del tuo per ridurti così?
Lettore-Autore
Nell’ascoltare o leggere una frase oscura o difficile si può lasciarla perdere e indifferenti tirare dritto rimanendo come prima, oppure prenderla per il bavero, smontarla parola per parola, locuzione per locuzione, chiarendo d’ogni elemento sconosciuto, o poco chiaro, il significato col dizionario. Ovvietà sovente disattesa.
D’ogni parola, talvolta, sarà anche necessario individuare il peculiare significato come inteso dall’autore, indagine invece complessa che in taluni casi esigerebbe lo studio della sua opera omnia, tuttavia grazie a chi l’ha già fatto per noi, possiamo svolgere tale percorso in tempi contenuti.
Fatto si assemblerà a modo nostro la frase (parafrasi) che, così, ci risulterà chiara. Percorso che porterà all’incontrare tesori di saggezza o dozzinali paciughi di autori vanitosi che giocano con parole criptiche o astruse al fine di autoaffermarsi[1]
In ogni caso, autori saggi o pirlotti, tale smontare, analizzare, rimontare, è tra le operazioni più stimolanti la nostra creatività, in fin dei conti comprendere è atto autorale, creazione del proprio ingegno.
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1 Mi torna alla mente quando in libreria tirato da una forza ignota allo scaffale dell’Adelphi avevo acquistato d’impeto:
1 Del Delitto;
2 La conoscenza del peggio, a dire della recensione “… opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi”;
3 Dialogo teologico,
tutti e tre di Manlio Sgalambro.
Nel Del Delitto avevo letto:
«… la ragione dà ragione all'assassino e alla sua vittima. L'assassino e la sua vittima sono inscindibili. “Ti sei interessato a me sino a uccidermi” ». Sulla provinciale avevo messo sotto un gatto, ignoro quanto abbia apprezzato quel mio interessarmi a lui. L’Autore dovrebbe pubblicizzare il postulato dentro i tribunali penali, proferirlo di persona ai familiari dei morti ammazzati per verificarne l’interesse.
Però dovrebbero affiggerlo un cartello in libreria:
“Avviso ai clienti: se tirati da forze ignote rimanete fermi."
Yves Congar. Il Regno di Dio
Sappiamo che la cultura occidentale è caratterizzata, e in gran parte strutturata, da una miscela di sacro e profano, una mescola di paganesimo, illuminismo, tecnica, tradizione giudaico-cristiana, ecc. ecc. . Utile al riguardo, e per certi versi inaspettata, l’analisi del cardinale e teologo francese Yves Marie-Joseph Congar (1904 –1995), espressa nel terzo capitolo del saggio teologico ecclesiologico «Per una teologia del laicato» scritto nel 1956, edito in Italia da Morcelliana. Capitolo che provo a condensare chiedendo venia, al lettore ancora qui, per la grossolanità espositiva.
Congar, fedele al credo cattolico, analizza il piano di Dio dettato nella rivelazione, dal «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» all’ultimo capitolo dell’Apocalisse, dove Dio «assumendo lui stesso la carne della nostra umanità» vuole costruire il suo tempio di comunione attraverso Gesù Cristo «capo della Chiesa, ma anche di tutta la creazione»; Regno di Dio universale nel quale Congar dettaglia differenti e complessi aspetti, tra questi quello escatologico dell’ultimo giorno e quello «dinamico o progressivo» del tempo della Chiesa, tempo intermedio del già, dove «Gesù stesso è, in un certo senso, il Regno di Dio» e il non ancora della Parusia, dove Cristo alla fine del piano salvifico ritornerà sulla terra.
Dunque due tappe e in mezzo un tempo intermedio. A che scopo tale tempo? Iddio onnipotente senza indugiare avrebbe potuto terminare il suo piano con l’Ascensione concludendo con la Pentecoste. Congar vede in tale indugio uno scopo preciso: Dio o il Cristo o la Chiesa non sono i soli artefici di tale piano, per giungere a meta è necessario il libero agire degli uomini nella storia perché senza tale cooperazione il Regno di Dio rimarrebbe incompiuto. In tale interpretazione «La regalità di Cristo resta, di diritto, universale» mentre la Chiesa sarebbe un regno spirituale della fede distinto dal «mondo naturale degli uomini e della storia», entrambi differenti coprotagonisti della realizzazione del Regno, «Rendete a Cesare quel che è di Cesare…».
Nel piano unitario di Dio la Chiesa e il mondo sono entrambi finalisticamente ordinati al Regno di Dio, «ma per vie e titoli differenti», così «la regalità universale di Cristo non corrisponde a quella di una regalità ugualmente universale della Chiesa». Ne consegue per il cristiano che il profano sviluppo umano storico non è un processo antagonista e nemico, o nella più misericordiosa interpretazione mero accadimento subalterno da tollerare, ma in quanto forza indispensabile all’accadimento del Regno evento da valorizzare e col quale allearsi. Sacro non contrapposto al profano, quindi non «Resistenza del Mondo ma Resistenza nel Mondo». Tralasciando il possibile effluvio di concezioni hegeliane, riguardo un supremo Principio regolatore della storia avvertibile in Congar, quello che mi sembra puntuale è l’intelligente sintesi, dal punto di vista cattolico, della complessa realtà in una concezione aperta che ricapitola e unifica universalmente.
Come non rivedere alla luce del pensiero di Congar la gagliarda quanto infelice sparata di don Giussani:
«La gioia più grande della vita dell’uomo è quella di sentire Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore. Il resto è veloce illusione o sterco».
Come non considerare le superficiali sentenze di pena di morte o del buttare via le chiavi per chi ha sbagliato. Non è questione di bontà ma di convenienza. Insieme a Giussani e ai giustizieri vendicatori anche il M5S avrebbe qualcosa da imparare dal cardinale francese per emanciparsi, almeno un po’, dalla supposta autoreferenziale sacralità che li separa da tutti coloro che non sono loro. Non male la Nouvelle Théologie.
Bullismo e vocazione
Corriere della Sera, cronaca di Roma, novembre 2016; 14enne aggredito dai bulli.
Improvviso mi torna alla mente un fatto estinto per prescrizione e archiviato, avevo forse 10 anni e ai giardinetti, quelli lontano da casa fuori dalla mia giurisdizione, una decina di bulli dopo una serie di colpi di karate vibratimi alla nuca m’avevano ficcato la testa nella fontana fino a quasi annegarmi e spento sigarette addosso. Mi ero tenuto la cosa per me per non prenderne altre da mia madre, niente pronto soccorso per graffi e contusioni e neppure indagini sull’accaduto dei Carabinieri come recita il Corriere nell’articolo di oggi.
Avevo indagato da me e ben appostato individuato ad uno ad uno gli appartenenti alla banda. Scelti i due più minuti - anch’io ero tale - avevo iniziato a seguirli, dopo un paio di pomeriggi ne avevo beccato uno in una via del centro e l’altro mentre passava in bicicletta in una strada di campagna. Il primo preso a calci in culo di quelli forti sulla pubblica via, il secondo immobilizzato e punto in faccia per un buon quarto d’ora con un mazzo di ortiche; Urtica dioica L. la stessa che utilizzo ancora per far urinare i clienti della mia erboristeria. Ricordo mentre scappava con la faccia gonfia la mia meraviglia, mista a pena, nel vederlo tanto fragile. Ero poi ritornato ai quei giardinetti e rincontrato il branco, non siamo diventati amici ma neppure nemici mentre il Corriere s'occupava d’altro.
Disgrazia efficace
Hai voglia! di valutare assurde, dunque inesistenti, le panzane che noi stessi generiamo o che ci girano attorno. Se concepite esistono efficaci nel loro raggio di azione.
Remare
Interpretiamo l’esistente ordinandolo, da tutto l’essere individuiamo una parte e dandole un nome la riponiamo secondo un certo ordine in uno scaffale personale, pronta all’uso. Con semantiche misere o congrue, precisi o equivocando, inventariamo l’universo separando i soggetti dagli oggetti per sistemarli, per prescrizione o scelta personale, in specifiche e differenti categorie. Quantifichiamo e ordiniamo anche enti che non ci sono da nessuna parte eppure sono ovunque come i numeri, il tempo e le idee. I filosofi per intendersi rapidi tra di loro chiamano tale processo ontologia, disciplina che con altri nomi ognuno, consapevolmente o ingenuamente, esercita tutti i giorni.
Sistemati gli enti consideriamo le relazioni tra essi e col tutto, approccio che gli specialisti chiamano mereologia atto che ognuno consapevolmente o ingenuamente fa.
Inventariato ciò che c’è in parti interconnesse proviamo a definire ciò che ogni ente è, parte della filosofia denominata metafisica, disciplina che ognuno più o meno consapevolmente esercita a raffica.
A differenza dall’ingenuo il consapevole analizzerà il processo che utilizza per interpretare la realtà così da scorgere possibili equivoci, errori e parzialità. Metodo poco frequentato dalla gente comune che i filosofi chiamano gnoseologia, teoria della conoscenza e anche epistemologia.
Eruditismo? Per come la vedo proprio l’opposto perché percorso necessario per vedere e vivere un po’ meglio, accidenti permettendo. Inderogabile stimolo per comprendere da onorare insieme - guardandoci attorno e indietro possiamo incontrare chi ha percorso la strada con impareggiabile arguzia - ognuno a modo suo, visto che «un uomo può fare come vuole, ma non può volere come vuole» (Schopenhauer), per miriadi di fattori e complesse dinamiche che gli sfuggono di mano.
In fin dei conti ognuno è un bel po’ quello che si merita, si permane ingenui per indolenza si diventa consapevoli remando di brutto. Il problema è che permane una separazione tra gli intellettuali e la gente comune, i primi talvolta altezzosi nella loro bolla, i secondi non di rado per pigrizia superficiali, con responsabilità personali precise di quelli e di questi.
Fede bis
Mi lascia perplesso il discorso sulla fede in Dio attivata da una misteriosa soprannaturale grazia con i correlati “avere la fede”, “perdere la fede” e “ritrovare la fede” come succede con le chiavi della rimessa, concezione che separa credenti e non credenti in inesistenti compartimenti stagni.
Nel considerare la mia biografia - da giovane pressappoco credente in Dio e oggi all’incirca miscredente - e osservandomi attorno, constato che la separazione tra credere/non credere, credenti/non credenti, è più una frettolosa congettura tra apparenze che la realtà invece composta da soggetti che individuati plausibili percorsi di realizzazione personale - per plausibili qui considero quelli ragionevoli e sani escludendo concezioni perverse o criminali - li intraprendono per verificarne l’efficacia[1].
Percorsi simili nel fine disuguali nel merito, dove la differenza più che nelle rispettive, differenti, ipotesi in campo, risiede nell'accuratezza e lealtà oppure nella superficialità e ipocrisia nel verificarle.
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1 A ben vedere tale verifica di efficacia un po’ ricorda la "simulazione sperimentale". Forse ha proprio ragione Emanuele Severino a metterci in guardia dall’attuale pervadente "dominio della tecnica".