Mi lascia perplesso il discorso sulla fede in Dio attivata da una misteriosa soprannaturale grazia con i correlati “avere la fede”, “perdere la fede” e “ritrovare la fede” come succede con le chiavi della rimessa, concezione che separa credenti e non credenti in inesistenti compartimenti stagni.
Nel considerare la mia biografia - da giovane pressappoco credente in Dio e oggi all’incirca miscredente - e osservandomi attorno, constato che la separazione tra credere/non credere, credenti/non credenti, è più una frettolosa congettura tra apparenze che la realtà invece composta da soggetti che individuati plausibili percorsi di realizzazione personale - per plausibili qui considero quelli ragionevoli e sani escludendo concezioni perverse o criminali - li intraprendono per verificarne l’efficacia[1].
Percorsi simili nel fine disuguali nel merito, dove la differenza più che nelle rispettive, differenti, ipotesi in campo, risiede nell'accuratezza e lealtà oppure nella superficialità e ipocrisia nel verificarle.
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1 A ben vedere tale verifica di efficacia un po’ ricorda la "simulazione sperimentale". Forse ha proprio ragione Emanuele Severino a metterci in guardia dall’attuale pervadente "dominio della tecnica".