BLOG DI BRUNO VERGANI

Radiografie appese a un filo, condivisione di un percorso artistico

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Mercoledì, 07 Maggio 2014 18:56

Favignana, Festival della filosofia.

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Isola di Favignana, inizio di maggio. Luigi Lombardi Vallauri parla a cinquanta partecipanti. Con gli occhi chiusi e un piacevole rotacismo fonetico invita a immaginarci su una vetta alpina, poi nel deserto, là per emanciparci dal piccolo ego, per dilatarci nello spazio immenso che già siamo. Mi torna alla mente Theilhard de Chardin: «Non è affatto lontano il giorno in cui l'umanità si troverà biologicamente costretta a scegliere tra il suicidio e l'adorazione» e a quando, dopo aver abbandonato la Chiesa cattolica, nel tentar di trovare una via di mezzo tra suicidio e adorazione avevo visitato filosofie lontane, dèi stranieri direbbe il vecchio testamento. Quando non si sa se Dio esiste o non esiste una buona soluzione è farsi buddhisti o neopagani panteisti o, in subordine, induisti. Alcuni offrivano soluzioni infantili, altri sofisticate.

Tornano ricordi precisi e mi attardo nel descriverli. Un giorno avevo letto di un vecchio tabacchino indiano, un “realizzato”, che garantiva che tutti noi non siamo nati, quello che nasce è solamente il corpo che non c’entra per nulla con quello che siamo veramente. Diceva che noi siamo coscienza. Energia eterna onnipervadente. Il tabacchino diceva che soffriamo per un equivoco: crediamo di essere il corpo invece che la coscienza impersonale alla quale Vallauri ci indirizzava. Ai quei tempi un po’ mi seccava accettare che come persona non esistevo, forse era meglio come dicevano i cattolici: andare all’ inferno per l’eternità, ma almeno con l’io pimpante e integro. Però che leggerezza staccarsi dalla propria storia, vivere senza memoria, senza giudizio. Vivere senza me stesso. La cosa mi affascinava e a volte mi succedeva davvero di avere un picco di consapevolezza che mi liberava da me stesso. Durava poco, quanto bastava per osservare il carnevale nel quale mi trovavo per essere nato senza averlo chiesto. Mica male, il picco, niente male. Il problema era che se mi si sforzavo il picco non arrivava. Accadeva invece da solo, a capocchia, non dovevo fare assolutamente nulla, ci voleva uno stato mentale come quello che viene spontaneo quando defechiamo. Una mente serena, un po’ assente, staccata e indifferente, allora il picco poteva anche arrivare. Frequentavo luoghi e gente interessate a queste cose. Mistica esotica, India, pellegrinaggi sufi, incontri con sciamani americani. Incontravo salernitani e bergamaschi vestiti da sadu indù che interpretavano il Vedanta alla luce del Vangelo, poi pontificavano ieratici metafisiche idiote. Commistioni dilettantesche d’astrusi sincretismi, drammi liturgici così macchinosi da far impallidire il capo cerimoniere del Vaticano. Il Dio nostrano era ancora lì, aveva solamente cambiato nome: si chiamava l’Uno invece che Iddio e mi invitava ancora ad uscire me stesso, per rimanere immobile a guardare lassù le ineffabili, inesprimibili, alte sfere: palloni aerostatici gonfi di Teorie. Come le scale mobili dell’aeroporto che vanno su e giù il Dio cattolico discendeva verso di me, mentre in quegli ambienti ero io che dovevo ascendere a lui, un salire e un scendere nella sostanza sovrapponibili. Eppure, nonostante l’equivoco, era stato un decennio che mi aveva permesso, in quel darmi da fare per distanziarmi da me stesso e dal Dio nostrano, una certa serenità. Il senso ultimo non l’avevo trovato però il cercarlo mi aveva un po’ divertito, mi aveva fatto divergere, distanziare, dall’angoscia di essere e di non essere. Avevo indagato a fondo, ma  la soluzione non l’avevo trovata, ma intanto mi ero sentito un cercatore di verità: un buon intrattenimento. “Cercatore di Verità” era forse figura più importante di “Cavaliere del Lavoro”. Non seguivo pratiche meditative, avevo passato troppi anni in ginocchio davanti a crocifissi di plastica e il mettermi seduto con le gambe incrociate e gli occhi chiusi non mi entusiasmava. Chissà cosa pensavano i miei amici induisti quando rimanevano lì con gli occhi chiusi a meditare? Ascoltavano il respiro? Si sforzavano di non pensare? Forse meglio un crocifisso di plastica. Quando vedevo qualcuno meditare, con gli occhi chiusi e le gambe incrociate, un impulso mi suggeriva di avvicinarmi in silenzio per dargli, a freddo, un calcio nel culo. L’avevo pensato più volte ma non l’avevo mai fatto, chissà forse qualcuno si sarebbe “illuminato”, eppure lì a Favignana il professor Vallauri l’ho sentito credibile e amico. Pensatore arguto nei giorni successivi ha attaccato, senza sconti, le superstizioni diffuse nel sacro oriente.

Tutto sommato forse come i gatti si "è" senza alcun motivo, lo si capisce guardandoli negli occhi che, a lungo termine, se ne fregano di sé stessi e così non hanno padroni. I gatti non equivocano l’io con l’essere, avrei potuto imitarli cercando di funzionare con l’io detronizzato, funzionamento che non chiede e non risponde, come quando digerisco in spontaneità le orecchiette con le rape senza conoscere l'ABC della gastroenterologia. Come quando da una goccia di sperma, essenza di una bistecca e una mela mangiata da mio padre, ero diventato feto e poi spontaneamente uomo. Chissà? Sicuramente la vita che sono in qualche modo continuerà in forme diverse, ritornando mela e poi inorganico. Cenere di magnesio e zolfo. Ed io? Cadavere che arde sulla sponda del Gange consapevole che anche le pietre "sono" anche se non lo sanno, come quando nel sonno profondo mi dimentico di essere. Avrei potuto provare a fare l'induista vivendo, come un gatto, in presa diretta l'istante, omettendo per quanto possibile la personalità. Con l'io rarefatto, senza memoria come un uomo delle caverne, come una mucca che ignora l'humor, senza cultura e storia, che non ama. Condannato a rasentare l'inorganico da vivo, emotivamente mummificato per essere eterno. La faccenda mi lascia perplesso.

Ritorniamo a Favignana. Nel pomeriggio siamo saliti verso il castello di santa Caterina d'Alessandria. All’inizio del percorso Augusto Cavadi ha letto la poesia George Gray di Edgar Lee Masters, un invito al viaggio e un monito sulle conseguenze mortali dovute alla mancanza di iniziativa, al saper rischiare nel moto esistenziale. Durante il cammino delle soste con valorosi interventi dei partecipanti. Giorgio Gagliano ha detto "la sua" suonando il violino, una delle voci più belle disturbata dal vento di tramontana che gli spostava l’archetto, si sa talvolta la natura è indifferente ai canoni estetici degli umani.

Nel dopocena Stefano Zampieri ha dettagliato la figura del consulente filosofico. Apprezzabile il suo disinteresse alla creazione di un albo per tale figura professionale, indizio preciso di un approccio laico.

Il giorno seguente Luigi Lombardi Vallauri ha esposto le ragioni del suo abbandono del cristianesimo con note autobiografiche interessanti condite da humour teologico coinvolgente. In alcuni passaggi invece del cristianesimo  esponeva una personale parodia dello stesso, che poi si divertiva a attaccare con virulenza. Cavadi ha risposto con un intervento articolato e convincente, capace di esporre laicamente e filosoficamente il valore del messaggio dell’uomo Gesù di Nazareth, lo ha fatto al posto di un sacerdote cattolico che all’ultimo momento si è defilato forse intimorito dal confronto con Vallauri. Meglio un miscredente che c’è che un credente che non c’è.

Nel pomeriggio Orlando Franceschelli con riferimento al suo ultimo saggio «Elogio della felicità possibile. Il principio natura e la saggezza della filosofia» edito da Donzelli, ha esposto il rapporto tra natura, saggezza e felicità, in una prospettiva filosofica che indica una felicità possibile nell’emancipazione da nichilismi e teismi connessi, come pure dal naturalismo della volontà di potenza di Nietzsche. Un’antropologia dell’ecoappartenenza ben argomentata e avvincente, capace di affrontare le urgenze di significato che l’umano vivere e morire esige. Augusto Cavadi ha annotato che l’indagine filosofica del naturalismo non può escludere, perlomeno come possibilità, un ordine trascendente. Franceschelli nell'invito di Cavadi ha subodorato note di integralismo soft. La tematica è tanto cruciale da suggerire ai due filosofi di attardarsi su tale confronto, magari con la pubblicazione di un libro.

Un’ultima osservazione. Tutto sommato l’integralismo religioso, e non, occupa quegli spazi che il mondo laico lascia deserti. Chi va via perde il posto all’osteria e così sovente la Chiesa cattolica o ideologie fondamentaliste diventano prepotenti abitanti di territori lasciati vuoti dagli uomini di pensiero. Eccezione che conferma la regola sono alcuni filosofi contemporanei capaci di laicità valorosa e propositiva: pensiero attivo del significato dell’esserci, del vivere e del morire. A Favignana c’erano.

Ultima modifica il Mercoledì, 07 Maggio 2014 22:13

8 commenti

  • Link al commento Pietro spalla Mercoledì, 07 Maggio 2014 20:39 inviato da Pietro spalla

    Bruno, avevo già notato che scrivi bene, ma qui sei fortissimo, trascinante ( e poi sei proprio una bella persona )

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  • Link al commento orlando franceschelli Giovedì, 08 Maggio 2014 06:48 inviato da orlando franceschelli

    Caro Bruno, le tue parole aiuteranno tutti noi a non smarrire mai il ricordo di Favignana e la consapevolezza di quanto preziosa sia l'amicizia
    tra umili ma pazienti e laici ricercatori di saggezza e felicità".
    Augusto ha il dono e la costruttiva tenacia di mettere sempre in contatto con "gente bella".

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  • Link al commento Ambrogio Giovedì, 08 Maggio 2014 07:28 inviato da Ambrogio

    ...mi è difficile pensare l'uomo senza anima, ridotto a soli pelle e ossa, però dotato di pensiero, capace di portarsi ai confini del razionale e dell' irrazionale, mi è difficile attribuire alla sola materia queste straordinarie capacità ,, mi manca un passaggio, per comprendere appieno il faticoso percorso che l'amico Orlando ha compiuto fin qui, arrivando a queste conclusioni; che certamente vanno rispettate e approfondite per essere meglio comprese. Io credo che in tutto ciò percezione e un' alto grado di consapevolezza abbiano in ciascuno di noi un ruolo fondamentale quanto personale, intimo se invece io arrivo a dire che un'anima ce l'ho, che la sento quale centro della mia vita, barometro del mio incedere sul sentiero della mia esistenza, del "mio" destino

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  • Link al commento Maria Giovedì, 08 Maggio 2014 09:18 inviato da Maria

    Sottoscrivo il commento di Pietro, con minime variazioni:
    sei proprio una bella persona; non sapevo che, oltre ad altre qualità, scrivessi così bene ... qui sei fortissimo, trascinante.
    Un caro saluto,
    Maria D'Asaro

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  • Link al commento Bruno Vergani Giovedì, 08 Maggio 2014 09:26 inviato da Bruno Vergani

    Caro Ambrogio, ognuno ha la sua storia. Per decenni avevo creduto a un Regista occulto che faceva accadere le cose. Sotto, sotto, non escludevo che se fossi rimasto assolutamente immobile un Mandrake celeste, o una qualche Minchia Vagante, mi avrebbe favorito un destino benevolo. Mi avrebbe di qua e forse anche di là, nel regno celeste delle anime immortali, sistemato le cose, tutte le cose. Poi grazie alla lettura di Freud ho iniziato a prendere consapevolezza che tutte queste concezioni erano mere Teorie espressione di personale fragilità, così ho iniziato a poggiarmi sulle mie gambe di pensiero e il Destino si è trasformato in meta, lì una possibile soddisfazione.

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  • Link al commento Bruno Vergani Giovedì, 08 Maggio 2014 11:28 inviato da Bruno Vergani

    Il tabacchino indiano che cito nelle note autobiografiche è Nisargadatta Maharaj:
    http://www.riflessioni.it/enciclopedia/maharaj.htm

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  • Link al commento Ambrogio Giovedì, 08 Maggio 2014 15:24 inviato da Ambrogio

    Quando metto le virgolette al "mio" destino ne rivendico il possesso ed il timone; anche io ho letto Freud ma non è riuscito a schiodarmi dal Faust. ^_^

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  • Link al commento Bruno Vergani Venerdì, 09 Maggio 2014 12:01 inviato da Bruno Vergani

    Le note autobiografiche sull’Oriente non vanno evidentemente equivocate con un saggio critico sull’Advaita Vedanta, che esigerebbe ben differente stile e approfondimento. Preciso che la stima, quasi la devozione, per Nisargadatta Maharaj è tale che quando avevo scritto l’autobiografia l’incipit mi era stato stimolato dal suo pensiero:

    «Torno al primo ricordo, nell’osservare il fuoco di una stufa percepivo di esistere. Fuoco d’essere sorto spontaneo non so da dove, non conosco il perché, non so come. Senso di essere che è ancora qui immutato.
    E’ l’unico capitale che ho. E' l'unico problema che ho.»

    Permane perplessità nell’approccio “vedantino” di quegli occidentali che pontificano il pensiero di Nisargadatta elargendo impressione somigliante a quando si ascolta un’ opera di Puccini interpretata da soprano coreana. Anche se canta in modo corretto c’è al fondo qualcosa che non torna, un sottile artificio serpeggia e non convince.
    Perplessità anche nel merito: la concezione “Se nessuno nasce nessuno muore” come sentenziava Nisargadatta evoca otorinolaringoiatri capaci di far passare il mal di gola con un colpo di pistola alla nuca: successo garantito, incontestabile, ma quanto proficuo?

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