Pur piacendomi la compagnia presupponevo che, almeno in un caso, sarebbe meglio la solitudine per, come un gatto, morire solo invece che “accompagnato”. A maggior ragione se i presenti avranno concetti di "buona" o di "bella" morte differenti dai miei.
Dopo aver letto la “soggettiva” di trapasso di Lev Tolstoj ne «La morte di Ivan Il'ič» considero, invece, che il “pubblico” - presente o assente, di una particolare tipologia o di un’altra opposta - sarà comunque irrilevante e farò, One man show, in ogni caso bene:
«E all'improvviso ciò che lo tormentava e che non tornava, – tutto all'improvviso cominciò a tornare, da un lato, da due, da dieci, da tutti i lati. Ho pietà di loro, bisogna non farli soffrire. Liberarli e liberare me stesso da queste sofferenze. «Come torna bene e come è facile, – pensò. – E il male? – si chiese. – Dov'è andato? Ebbene, dove sei, male?».
Stette attento.
«Sì, eccolo. E con questo? Dolga pure».
«E la morte? Dov'è?».
Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov'è? Ma che morte? Non c'era più paura perché non c'era più morte.
Invece della morte, la luce.
– Dunque è così! – disse d'un tratto ad alta voce. – Che gioia!
Tutto questo non fu che un attimo per lui, ma il senso di quell'attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il suo corpo macerato si scuoteva. Poi il gorgòglio e il rantolo si fecero sempre più rari.
– È finito! – disse qualcuno.
Egli udì questa parola e se la ripeté nell'anima. «Finita la morte, – si disse. – Non c'è più, la morte».
Trasse il fiato, si fermò a mezzo, s'irrigidì e morì.»