Potenza della bugia
Nella realtà sociale non di rado si aggirano dei bugiardi pressoché perfetti, sovente stigmatizzati dalla morale, esecrati dalle religioni e se esagerano sanzionati dal diritto, ma in altri territori, come nel rapporto con noi stessi o nell’indagine metafisica, il mentire appare invece tematica nebulosa e complessa in quanto un pensiero-atto perché risulti davvero contrario alla verità implica necessariamente, oltre alla intenzionalità del soggetto, l’esistenza di una verità assoluta e univoca che sia ben conosciuta e tradita dal bugiardo.
Il punto è, dunque: «Quid est veritas?». Gesù di Nazareth aveva risposto col silenzio e Agostino analizzando la menzogna per indagare la verità definiva la «questione straordinariamente oscura» (De mendacio). La psicoanalisi osa di più provando a riordinare le bugie equivocate per verità e le verità equivocate per bugie in un “Io non padrone in casa sua” (Freud). La scienza evita di affermare una verità assoluta ipotizzando e confermando, via, via, verità parziali e relative, dunque progredendo attraverso verità incomplete e vere e proprie bugie, di volta, in volta, rivedute o scartate sostituite da nuove provvisorie verità e anche da inedite bugie. Anche alcuni approcci filosofici assolvono e finanche valorizzano bugie a iniziare dalla sofistica, che sostenendo il primato del relativismo soggettivistico nega una verità assoluta affermando, invece, estemporanee pseudo verità fluttuanti implementate, lì sul momento, dai differenti soggetti. Nel 1911 Vaihinger prendendo le mosse dal kantiano «come se» teorizzava una filosofia della finzione (finzionismo) nella quale affermava la strutturale contraddizione e inconsistenza del comune sapere che tuttavia accettiamo e manteniamo non perché sia vero ma perché ci è utile. Bugie condivise per nulla patologiche ma normali e inevitabili come i miti e i simulacri d’immagini smaterializzate dalla realtà, che Vaihinger invita a utilizzare consapevolmente con scaltrezza a nostro profitto, indifferenti a esigenze di verifica. Ben oltre il finzionismo filosofico è nell’arte che la bugia raggiunge l’acme dell’utilità:
«Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.
E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.» (Fernando Pessoa)
In tale fattispecie artistica noncurante della dicotomia vero/falso «Il linguaggio è il principale strumento del rifiuto dell’uomo di accettare il mondo per come è» (George Steiner), così al pari di Dio quando disse: «“Sia luce!” E luce fu» (Genesi), il percorso artistico - pittura e musica incluse - implementa un’inedita realtà, auto-progettando la parte di un nostro personaggio che interpreteremo - personaggi in cerca d'autore (Pirandello) - nel fertile spettacolo che dirigeremo così da trarne piacere, profitto e cura. «Poiché, ecco, io creo nuovi cieli e una nuova terra» (Isaia 65:17).
Pur nel distinguere la differenza tra l’impostura del delinquente e il delirio del drogato dalla finzione creatrice dell’artista, questi frammentari spunti evidenziano ambiguità e ambivalenze non patologiche ma squisitamente umane. Forse utile precisare meglio la fattispecie del bugiardo patentato, quello stigmatizzato dalla morale, esecrato dalle religioni e se esagera sanzionato dal diritto, nei seguenti più puntuali termini: narrazione del bugiardo patentato stigmatizzato da narrazioni morali, esecrato da narrazioni religiose e se esagera sanzionato da narrazioni del diritto, con forse l’unica differenza che la narrazione del bugiardo è autistica e le altre condivise.
Dunque l’uomo, a differenza dagli (altri)[1] animali, è costretto in questa tabula rasa di mondo orfano di senso al ruolo di dio creatore e demiurgo ordinatore, così da emanciparsi da un assoluto relativismo ontologico? Risponderei sì, a patto che non esageri (Hybris) replicando soggettivi monoteismi dove l’individuo si erge smisurato sopra gli altri uomini e la natura, natura che è, e che c’è, indifferente alle nostre narrazioni nel suo accadere potente e perlopiù ordinato.
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1 Nel merito di quanto scritto l’uomo è animale davvero singolare, per certi versi tutt’altro rispetto agli altri.
L’amaro calice
Una spiritualità matura non rimuove l’angoscia di morte, se lo trangugia tutto l’amaro calice del personale epilogo che incombe[1]. Vino amaro che può deprimere la potenza individuale e le correlate possibilità, ma anche tonico[2] che può innescare seri e radicali moti d’indagine[3], dunque di vita.
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1 Forse meglio non infognarsi in nichilismi esasperati: dall’interpretare lo «spermatozoo un bandito allo stato puro» (Cioran), fino all’abbracciare con devozione l'umorismo macabro di Samuel Beckett; forse anche meglio evitare d’impantanarsi in esistenzialismi sopra le righe nell’aut aut tra suicidio o fede in un Dio creatore e salvatore «al quale è tutto possibile» (Kierkegaard), dato che oltre al suicidio e all’adorazione di Dio possiamo percorrere altre plausibili differenti vie nell’affrontare la suprema impasse. Nondimeno come non prendere atto del coraggio dei suddetti, onorando quel loro bere tutto d’un fiato l’amaro vino dell'impermanenza, senza mascherarlo e senza maschere?
2 «Il dolore è il pungolo dell’attività ed è in questa che noi sentiamo sempre la nostra vita: senza dolore la vita cesserebbe». (Kant).
3 Ognuno a modo suo. Ricerca di un possibile Dio trovandolo o non trovandolo, confidando in Lui o litigandoci, oppure affidandoci alla natura o affrontando il baratro poggiando, stile Nietzsche, su noi stessi, come pure accettare una meta di rassegnazione a patto che sia consapevole frutto di coraggioso camminare e non di rimozione. In fin dei conti ciò che vale non è la risposta, ma la serietà del percorso.
Il barattolo
Amica, non ti avevo mai identificato con i pezzi anatomici che ti componevano e vedendoli oggi polvere in un barattolo so che non sei lì.
Ma allora dove sei? Non è plausibile l'esistenza di un demiurgo prestigiatore che fa apparire e scomparire le persone, forse più verosimile l’antica storia di un Creatore celeste, quel Dio che ficca le anime dentro un barattolo corporeo come cetrioli sottaceto, per poi aspirarle lassù quando il barattolo si rompe.
Basta con i barattoli! Amica cara, dimmelo tu di che sostanza siamo.
Deus ex machina
Le parole sono suoni pronunciati o rappresentati graficamente che previo accordo tra soggetti esprimono significati comprensibili in tale gruppo (lingua); formale circoscritta convenzione che si apprende al pari delle regole dello scopone scientifico[1].
Fin qui niente di trascendentale, ma appena un soggetto si attiva nell'unire parole (frase) entra in un regno altro tutto sostanza (linguaggio) nel quale è signore[2].
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1 Forse opportuno diffidare di coloro che equivocano una provvisoria limitata convenzione con un eterno dogma universale, accanendosi oltremisura contro chi sbaglia un congiuntivo.
2 Talora ricchi talora poveri signori.
Separazione
Anche noi come Dio nel racconto biblico della Genesi separiamo la luce dalle tenebre e le acque dalle acque. Lo abbiamo fatto appena dopo nati e replichiamo ogni notte quando nell’indistinto assoluto del sonno profondo iniziamo a sognare per poi svegliarci separandoci via, via, dall’Uno che tutto ingloba.
Probabilmente morire significherà ripercorrere la stessa via procedendo a ritroso, dal distinto all’indistinto.
Si esalta l’unificare eppure vita cosciente e creazione necessitano di scissione.
Epistemologia quotidiana
L’epistemologia normando metodi e condizioni per una conoscenza, per quanto possibile, precisa e certa, è intesa come filosofia della scienza, ma non sarebbe poi male che irrompesse nel quotidiano per riordinare tiritere d’impressioni da bislacche intuizioni, apoftegmi tutti urlati ma per nulla argomentati, problematiche mischiate senza esser demarcate con questioni equivocate perché non focalizzate, paradigmi detestati perché tutti travisati nello stupido supplizio del tiranno pregiudizio.
Tisana New Age
Talvolta la New Age somiglia a una tisana mal formulata[1], quei paciughi approntati con troppe piante mischiate a vanvera, ciascuna non sufficientemente conosciuta[2], ognuna in quantità deficiente per esplicare un’azione farmacologica nell’illusione che addizionando tanti frammenti di pochezza si produca ricchezza.
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1 Per tisana s’intende una miscela di erbe sminuzzate da utilizzare previa estrazione dei principi attivi con solvente acqua. Una tisana ottimale di norma contiene un massimo di 5-6 droghe differenti. Va ricordato che ogni droga può contenere differenti e complessi principi attivi e che l’azione farmacologica non è direttamente proporzionale al numero di droghe utilizzate. In linea di principio è opportuno utilizzare due o tre droghe base per la patologia trattata ad azione sinergica, una o due ad azione mirata per eventuali obiettivi secondari e una aromatizzante per “arrotondare” la miscela e/o per lenire eventuali effetti indesiderati delle droghe base. Suggerimenti si potranno ricavare da formulazioni tradizionali diffidando da quelle particolarmente complesse perché fondamentalmente scriteriate.
2 Per una buona formulazione è indispensabile una buona conoscenza farmacognostica delle droghe utilizzate per evitare antagonismi farmacologici. Nella formulazione e utilizzo delle piante l’operatore consapevole dei principi attivi utilizzati e delle loro attività farmacologiche potrà lavorare al meglio favorendo sinergismi ed evitando antagonismi. Comparerà le varie droghe sostituendo eventualmente quelle dannose perché tossiche o della quali è sprovvisto con altre tollerabili o aventi proprietà analoghe. Utilizzerà la stessa pianta per affezioni anche molto diverse. Potrà con criterio giudicare formulazioni proposte da terzi, scartando quelle improprie, scriteriate o dannose.
Domanda estiva a freddo
Mi hanno chiesto se credo in Dio e nella vita eterna. Ho risposto: «Non lo so», eludendo la domanda e deludendo gli interlocutori col mio (apparente) pilateggiare.
Il fatto è che nel confrontarmi con le concezioni più importanti e diffuse della tematica avverto consolatoria quanto ingenua quella platonica, concezione madre dei monoteismi che preferiscono un preconfezionato happy end invece d'indagare una verità plausibile, narrazioni che vedono l’anima personale iniziare un nuovo ciclo di vita col cessare del corpo.
Considero un vero e proprio atto di fede cieca la concezione atea materialistica, che sentenzia il cessare definitivo della persona con la morte del corpo, riducendo soggetto, vita e universo, alle limitate dimensioni, circoscritte categorie e parziali osservazioni empiriche, nelle quali ci muoviamo e delle quali disponiamo dalle nostri parti in questo tempo.
Forse meglio la terza via, quella orientale, così sintetizzabile: «Dove va la fiamma della candela quando si spegne? Non va da nessuna parte.» Concezione che possiamo interpretare negativamente considerando la realtà inesistente perché mera apparenza illusoria o, volgendoci a Ovest, positivamente, intendendo la realtà viva e continua nella totalità dell’essere: «L’essere non era né sarà ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo» (Parmenide). Non male e ne prendiamo subito nota, anche se il primato di tale impersonale entità eterna e onnipervadente dell’Essere - con l'articolo determinativo e in maiuscolo - annichilisce di fatto il soggetto (io, tu, egli), fagocitandolo al punto da renderlo impersonale e pure, di per sé, irreale. Non mi sembra un buon affare schiattare da subito, dissolvendomi nell'Essere, per lenire l’angosciante pensiero di doverlo fare tra un po’.
Il punto è che le tre concezioni operano all’interno di griglie concettuali umanamente commensurabili e accessibili, mentre quel “non lo so” prova invece a indicare senza pittoresche narrazioni antropocentriche, alla larga da frettolose ideologiche preclusioni ed evitando esotiche speculazioni da coprifuoco - sparate a vista sull’Io - la possibilità di paradigmi altri e oltre che al momento ignoriamo (agnostico deriva da ignoto).
Super Attak
Aveva ragione san Bruno quello dei certosini, per ben fare è opportuno dove e per quanto possibile collaborare con gruppi di poche persone, come facevano i raccoglitori e i cacciatori nomadi della preistoria. Se siamo di più oltre ad aumentare la probabilità d’incappare in qualche testa di k., di quelle che ne ne basta una per complicare la vita a cento prossimi, sarà pure d’obbligo inventarsi un qualche ideale imperativo con correlati riti, burocrazie e decreti applicativi, che faccia da collante, assemblante e sigillante tra gli appartenenti. Vale per i corposi gruppi di amici al bar, per i partecipanti alle radunate rock e per i cittadini dello Stato-nazione.
Da quanto ho potuto osservare 2 soggetti, stile relazione psicoanalitica, è il numero ottimale[1] per operare in libera e fruttuosa relazione; eccezionalmente 3, stile trinitario. Se in 4 già ci si invischia.
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1 beninteso, senza che nella relazione ci siano teste di k. presenti.
Da animali a dèi
Edito da Bompiani "Da animali a dèi - Breve storia dell'umanità" è un saggio del giovane storico israeliano Yuval Noah Harari che in 508 pagine, semplici, immediate e piacevolmente rapsodiche, espone la complessa storia dell’uomo dalle origini fino a ipotizzare un suo possibile futuro. La descrizione s’incardina, con taglio divulgativo storico, antropologico, biologico, geografico, politico, psicologico e sociologico, sugli snodi rivoluzionari che nel volgersi del tempo hanno caratterizzato Homo sapiens differenziandolo, nel bene e nel male, dagli altri animali, incluse le differenti specie di Homo che vivevano in un tempo remoto anche coeve ai sapiens - come la specie neanderthalensis -, che se non si fossero estinte avrebbero problematizzato alla radice qualsiasi idealismo antropo-sapienscentrico.
Harari interpreta cruciale la remota rivoluzione agricola, grazie alla quale i sapiens, da raccoglitori di vegetali spontanei e cacciatori di animali selvatici, iniziarono a coltivare ed allevare formando, grazie alle maggiori risorse alimentari ottenute, gruppi con un numero sempre maggiore di individui. Comunità con numero sempre più alto di appartenenti non solo a seguito di maggiori disponibilità di cibo, ma soprattutto grazie alla coesione del gruppo conseguente alla peculiare capacità di immaginare astrazioni condivise: fantasie, miti, abbozzi di religioni e correlati linguaggi. Costrutti che vanno dal primitivo animismo al coniare moneta fino alla costituzione di società per azioni nei nostri giorni, tutte entità irreali nella sostanza - meri arbitri condivisi - eppure efficacissime ed efficientissime nell'ordinare e normare le relazioni umane. Costrutti astratti che portano, via, via, l’umanità al successo planetario, ma anche a problematiche ed effetti collaterali deleteri, sia nel rapporto dell’uomo con la natura a seguito dello smisurato sfruttamento delle risorse (tuttavia secondo l'Autore non esauribili grazie a quanto può fornirci il cosmo e al progresso scientifico), sia per la sofferenza procurata agli altri animali, sapiens compresi: massacri e genocidi tra uomini sono una costante storica.
Tale antropocentrica impostazione dettata da credenze, più o meno condivise, pur permanendo fino ai nostri giorni muta con l’avvento della rivoluzione scientifica, nella quale Homo sapiens passa dall’interpretare e conformare l’universo alle proprie pregiudiziali congetture al riconoscere di non sapere, quindi ad indagare la realtà per ciò che realmente è. Processo che conduce ad una inedita accelerazione di scoperte e produzione, poi culminate nella rivoluzione industriale e in seguito in quella tecnologica e nelle plausibili ipotesi di futuri prolungamenti della durata dell’esistenza individuale, con colonizzazione di altri mondi e possibili creazioni di inedite specie di uomini un po’ organici un po’ bionici, con performance crescenti grazie all’implementazione anabolizzante di intelligenza artificiale.
Siamo numerosi e viviamo di più ma ne è valsa la pena? L’uomo è stato felice? E’ felice? Sarà più felice? L’Autore verso la fine del libro sospende l’asetticità dello storico per proporre un’etica della misura, dove in chiave buddista invita ad un meditato distacco dalle personali ambizioni antropocentriche e dai piaceri illusori. Una sorta di pacata rassegnazione nell’accettazione della parzialità e provvisorietà dell’uomo nel cosmo.
Il libro tanto ricco di spunti stimolanti e di analisi spiazzanti - seppur non inedite, in quanto già illustrate e storicamente affrontate dalla filosofia - con, tra le righe, un coinvolgente humour tragico, porta il lettore a domandarsi: «Ma com’è potuto accadere che questo gruppo di strane scimmie denominate Homo sapiens, alle quali l'Autore del saggio appartiene rappresentandole, abbia potuto raggiungere tale livello di pensiero e di parola?» Harari non spiega l'origine di tale potere, limitandosi a un pittoresco e un po’ ingenuo constatare materia grigia che casualmente inserita in particolari crani sputa fuori, attraverso specifiche sinapsi, pensiero cosciente e appercettivo. Il problema permane aperto.