Una spiritualità matura non rimuove l’angoscia di morte, se lo trangugia tutto l’amaro calice del personale epilogo che incombe[1]. Vino amaro che può deprimere la potenza individuale e le correlate possibilità, ma anche tonico[2] che può innescare seri e radicali moti d’indagine[3], dunque di vita.
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1 Forse meglio non infognarsi in nichilismi esasperati: dall’interpretare lo «spermatozoo un bandito allo stato puro» (Cioran), fino all’abbracciare con devozione l'umorismo macabro di Samuel Beckett; forse anche meglio evitare d’impantanarsi in esistenzialismi sopra le righe nell’aut aut tra suicidio o fede in un Dio creatore e salvatore «al quale è tutto possibile» (Kierkegaard), dato che oltre al suicidio e all’adorazione di Dio possiamo percorrere altre plausibili differenti vie nell’affrontare la suprema impasse. Nondimeno come non prendere atto del coraggio dei suddetti, onorando quel loro bere tutto d’un fiato l’amaro vino dell'impermanenza, senza mascherarlo e senza maschere?
2 «Il dolore è il pungolo dell’attività ed è in questa che noi sentiamo sempre la nostra vita: senza dolore la vita cesserebbe». (Kant).
3 Ognuno a modo suo. Ricerca di un possibile Dio trovandolo o non trovandolo, confidando in Lui o litigandoci, oppure affidandoci alla natura o affrontando il baratro poggiando, stile Nietzsche, su noi stessi, come pure accettare una meta di rassegnazione a patto che sia consapevole frutto di coraggioso camminare e non di rimozione. In fin dei conti ciò che vale non è la risposta, ma la serietà del percorso.