Corpo a corpo
Terminata la lotta con Dio[1], registrava che non era poi così tremendo come si diceva in giro.
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1 Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel «Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca. (Genesi 32, 26-33)
Lotta fra l’io e Dio, ossia fra il desiderio personale e il funzionamento universale.
Teomachia mancata
L’inaspettata malattia si era risolta alla svelta senza conseguenze, però non più faccia a faccia col possibile epilogo personale era svanita l’opportunità di diventare finalmente una persona migliore, addestrando la mente, riflettendo, accettando, affrontando, così rientrato il pericolo era tornato il pirla di prima, il pirla di sempre.
Mito e realtà
Percepire di appartenere a un corpo mistico o credere alla comunione dei santi; il voler prendere la sofferenza degli altri su di sé affinché tutti possano essere felici; il vedere in ogni accadimento l’espressione dell’ordine provvidenziale dell'universo e concezioni del genere, sono modi di pensare che possiamo giudicare irreali e astrusi,
ma ciò che conta non è la loro realtà e veridicità bensì l'intrinseca capacità di produrre, in chi li vive, prospettive esistenziali di significato e senso che possono portare grande forza per affrontare i problemi, mentre noi figli dell’illuminismo arranchiamo confusi e un po' disperati.
Gradi di fragilità intrinseca
Essere vanitosi è inevitabile, animali sociali necessitiamo dell’approvazione altrui, giusto un po’, un po’ di più, di più ancora o oltremisura, in proporzione alla personale inconsistenza.
Esagerazioni
Non è poi un gran bel posto il settimo cielo dantesco, tutto popolato da anime immobili che contemplano in eterno l’essere come già e tutto dato.
Non meglio il quaggiù abitato da individui che vedono, all’opposto, l'essere prodursi e esaurirsi nella propria autocoscienza, costretti forsennatamente a pedalare per generare l’universo e non piombare nel nulla.
Strategie
Un modo per tenere un po’ a bada sofferenza, vecchiaia e morte, è quello di curarle e lenirle al meglio procrastinandole quanto più possibile. Se piace, possiamo ottimizzare l’intervento integrandolo con storie consolatorie di ragionieri celesti che tengono il conto delle lacrime versate dal sofferente - “ Tu raccogli le mie lacrime nell’otre tuo; non le registri forse nel tuo libro? ” (Salmo 56, 8) -, per poi risarcirle alla sua eterna anima individuale nell’altro mondo.
Mossa opposta è quella di rimuovere, o perlomeno ridimensionare, l’essere individuato (il qualcuno) che soffre; rimossa l’ego-consapevolezza del sofferente la sofferenza cesserà di sussistere. Strategia rara questa noncuranza della propria individualità, però basta osservare un gatto sdraiato al sole per constatare la convenienza del fonderci, indifferenti a noi stessi, nel funzionamento naturale che ci costituisce dissolvendoci in ciò che da sempre siamo. Tutto davvero semplice perché non esiste alcun processo, precetto o sforzo per giungere a ciò che si è.
Dogmi della modernità
Cogito ergo sum, ovvero se smetti di pensare (fare) non (ci) sei più.
C’è qualcosa di comico in tutto questo, come se la l’Essere fosse una entità così effimera da aver bisogno del nostro pedalare.
L’equivoco
Conclusa la lettura de Lo Gnosticismo di Hans Jonas, mi sono chiesto il motivo dello strano interesse che a ogni pagina mi cresceva dentro. Non era perché eccitato da bizzarre e complicate teogonie di luoghi e tempi lontani, ma per l’onnipervadente e sempre attuale posizione esistenziale che quelle cosmogonie esprimevano e esprimono, che potremmo sintetizzare così:
“Il mio posto è altrove”.
Cifra psicologica che serpeggia da sempre un po' ovunque, forse generata da nostalgie oceaniche uterine, forse da reminiscenze di dimensioni ancestrali, quando prima del peccato originale del linguaggio che ha messo in scena il nostro mondo fluttuavamo altrove, ma altrove dove? Non certo in un altro mondo, come affermava lo gnosticismo tardo antico e come sostiene quello odierno nelle sue molteplici espressioni, ma fluttuavamo nell’immanenza intrafisica naturale, “altrove” rispetto, dunque, alla cultura non alla natura[1]. Un altrove sistematicamente frainteso che tuttavia ha prodotto cattedrali.
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1 “Il massimo della trascendenza coincide con il massimo dell'immanenza” (Dio sono anche gli uomini", Mario Verri.)
Demiurgo
Alcune genesi hanno messo in scena un semidio costruttore del mondo, un demiurgo emanato da Dio distinto e inferiore rispetto all'originale, che col materiale a disposizione aveva fatto quel che aveva potuto.
L’invenzione del demiurgo sembrerebbe un espediente narrativo per scagionare il Dio perfetto dall’aver creato un mondo imperfetto, ma al contrario è che posto un Dio assoluto e perfetto come creatore il mondo non può più funzionare, senza imperfezioni e contaminazioni va in blocco.